Salvini ha nomadato Giorgia Meloni
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Ognuno di noi, da bambino, ha avuto dei sogni per il proprio futuro. Anche Giorgia Meloni sembra aver sempre coltivato una speranza: diventare la leader unica della destra italiana. Eppure, il suo grande desiderio pare destinato a non trovare mai compimento. Tra rocamboleschi auto-sabotaggi e contraddizioni croniche, Meloni sembra avere infine trovato il suo peggiore nemico fuori da se stessa e proprio in colui che doveva essere il più grande alleato: Matteo Salvini.

Nata nella roccaforte rossa di Roma e portatrice fin dal principio dei colori dello schieramento opposto, Meloni cresce negli ambienti della destra capitolina più verace. Aderisce ancora adolescente al Fronte della Gioventù, spalla minorenne del fiero erede del fascismo Movimento Sociale Italiano e unita sotto l’amichevole grido “Boia chi molla!”. Gli anni passano, Meloni fa la babysitter alla figlia di Fiorello, lavora come barista al Piper e diventa capo del movimento studentesco di Alleanza Nazionale, la “fenice” nata dalle ceneri del Msi sotto la guida spirituale di Gianfranco Fini. E nel 2006, a 29 anni, proprio nella lista di Alleanza Nazionale viene eletta alla Camera dei Deputati – di cui diventa vicepresidente due anni dopo.

Ma Meloni, nonostante la brillante carriera, comincia già a vedersi tarpate le ali e fatica a trovare spazio per spiccare il suo personalissimo volo politico. Non riesce a emergere come figura decisiva, come regina del talk-show o rappresentante emblematica del partito: spodestare una Daniela Santanché o un’Alessandra Mussolini non è così facile, e la piazza romana è già ben fornita di Alemanno e di Fini per aver bisogno di un nuovo astro nascente. Per ingannare il tempo, scrive anche un libro dal titolo “Noi Crediamo, viaggio nella meglio gioventù d’Italia”.

Dopo l’esperienza con il Popolo delle Libertà di Berlusconi, Giorgia Meloni abbandona il partito nel 2012, per fondare Fratelli d’Italia insieme a Ignazio La Russa e Guido Crosetto, diventandone poi Presidente. Fallisce l’elezione europea, fallisce la nomina a sindaco di Roma, ma si distingue per nobili battaglie come impedire le adozioni omosessuali, conservare la Sacra Istituzione del Presepe (possibilmente con marò all’interno) e più recentemente, arrivare all’abolizione del reato di tortura con l’obiettivo di permettere alla polizia di “fare meglio il suo lavoro”.

Eppure, nonostante gli ultimi soddisfacenti risultati elettorali, Giorgia Meloni difficilmente vedrà il suo sogno realizzarsi. Certo, ha portato a casa un buon risultato, ma non è nulla rispetto allo sfondamento leghista o grillino. Non tanto in termini di percentuali o di crescita effettiva, quanto in termini di portata sociale e potenza politica e culturale. Meloni continua a lottare strenuamente per farsi notare, per rimanere visibile dopo essere stata lasciata ai margini dell’Area Vip un’ennesima volta, anzi due: sia nell’alleanza pre-governativa, un triumvirato improbabile visti i soggetti in questione (come ampiamente dimostrato in conferenza stampa post-consultazioni, uno dei video di stand-up comedy più riusciti dell’ultimo decennio), e poi con un altrettanto tragicomico contratto di governo Lega-Cinque Stelle, che l’ha totalmente scavalcata e ignorata.

È difficile salire sul palcoscenico politico italiano senza finire nel cono d’ombra dell’uomo del momento, Matteo Salvini. Lo sa bene Roberto Maroni. Lo sa bene Maurizio Martina (sì, è lui il nuovo segretario del Pd, comprensibile che possa esservi sfuggito). Lo sa bene Luigi Di Maio. Difficile mettersi in luce quando splende la stella dell’uomo forte, che in Italia da sempre va per la maggiore. Ma, se Di Maio ci sta provando, in giacca e cravatta e con qualche sporadica butade alla “Internet gratis mezz’ora al giorno per i poverelli”, oppure con foto di gruppo corredate da palloncini per distogliere l’attenzione dai problemi concreti e a oggi irrisolti a oggi, Meloni non sta facendo una figura tanto migliore.

Certamente Salvini ha dalla sua il genere maschile, fattore che in Italia ha un peso importante nell’acquisizione di ruoli di rilievo, in particolare in politica. Eppure i tempi, perlomeno per le donne di destra, sembrano abbastanza favorevoli: è proprio lì che riescono a ottenere maggiore spazio, ne è lei stessa una dimostrazione, rara leader femminile di un partito.  O, perlomeno, nessuna di loro ha mai visto il proprio fantoccio bruciato in pubblica piazza, come è successo a Boldrini, un episodio per giunta bollato come “sciocchezza” da colui che oggi gestisce il potere in Italia. Che, d’altra parte, l’aveva già paragonata a una bambola gonfiabile, quindi non vi è ragione di sorprendersi.

Ampliando lo sguardo, le leader di destra a livello europeo sono tante: dalla sempreverde Marine Le Pen, che ha seriamente rischiato di diventare Presidente de La République alla guida del Front National, alla leader tedesca di Alternative fur Deutschland Alice Weidel. Ma poi finisce che i migliori alleati di destra in Europa scelgano Matteo (vedi i complimenti di Le Pen e Wilders per il risultato elettorale) oppure i Pentastellati, come ha fatto Nigel Farage. A Giorgia Meloni non resta che farsi selfie con Orban, che nei giochi internazionali conta come il biathlon: pochi sanno che esiste e ancora meno lo tengono in considerazione.

Marine Le Pen
Alice Weidel

Giorgia Meloni ha spesso mostrato la mancanza di capacità di approfondimento dal punto di vista culturale e spesso anche pura ignoranza, come nel caso della celebre gaffe su “Dublino, in Inghilterra” o quello della discussione con il direttore del Museo Egizio di Torino, da lei accusato di “discriminazione al contrario” e di privilegiare gli “islamici”. O quantomeno poca sensibilità e attenzione, come nel caso delle velate accuse di alcolismo rivolte a un Juncker con la sciatica o di quel post Facebook in cui aveva tributato un ricordo delle foibe, ma mostrando una foto sbagliata, quella di un plotone italiano che fucila contadini sloveni.

Non è scritto da nessuna parte che serva una laurea (che lei non ha, così come non ce l’hanno i colleghi Di Maio e Salvini) per governare un Paese, ma ecco, qualche libro sfogliato in più potrebbe aiutare. Certamente Salvini non brilla per studio “matto e disperatissimo”, ma è consapevole di dire cose a favore di propaganda, spesso irrealizzabili. Sbaglia volontariamente, offusca per scelta la verità rendendosi pericolosamente credibile.

Se il non aver studiato accomuna dunque il trio, Meloni non ha la stessa presa social e comunicativa degli altri due, qualità chiave per la politica contemporanea, rigorosamente a portata di click e like. Meloni si impegna, ma non riesce a raggiungere la stessa asfissiante onnipresenza mediatica di Salvini, nonostante le venga lasciato un grande spazio, troppo grande per l’importanza che riveste a livello di rappresentanza politica. Non bastano i selfie con la figlia per intenerire le famiglie,  i repost scandalizzati contro gli immigrati o le ritrite lotte ai comunisti, Salvini ha alzato la posta: condivide fiori di campo con emoticon, lampeggianti “Vi Voglio Bene” e selfie con battute da brividi sui migranti, e lei non riesce a mantenere il passo.

Anche quando tenta di portare avanti iniziative appariscenti, queste tendono a spegnersi rapidamente: ultimo, il caso della maglietta azzurra indossata a favore degli italiani in povertà in opposizione a quella rossa a sostegno del salvataggio dei migranti in mare – un’iniziativa dei tanto detestati radical chic con il Rolex. Ha ottenuto il suo quarto d’ora di celebrità, anzi cinque minuti, ma è presto tornata in secondo piano perché è arrivato chi l’ha sparata più grossa e ha richiamato su di sé i riflettori.

Un eterno rubare la scena: proprio su questo si fonda la politica comunicativa di Salvini, che attinge ai ben forniti storici serbatoi di orientamento fascista riempiti da Meloni e compagni in anni e anni di lavoro per rovesciarli a cascata sull’informazione e sull’elettorato nel momento più opportuno, portandosi a casa il risultato. Salvini è roboante e travolgente. Semina tempesta per raccogliere i consensi di un popolo disilluso, deluso e avvelenato, che in lui si vede rappresentato nell’urgenza di azione, in un’impazienza rabbiosa. Salvini rimacina temi e battaglie che da sempre Giorgia porta avanti: dalla lotta all’immigrazione e la chiusura dei porti all’abolizione dei vitalizi. Ma li estrae in modo astuto e opportunista nei momenti propizi, oscurando chi quelle battaglie le porta avanti da una vita.

Nonostante il livello di violenza verbale di Giorgia e la sua propensione all’accanimento siano decisamente in sintonia con quelli del buon Matteo, dunque, l’incisività è minore. Non ha alle spalle il potente impianto comunicativo del collega, né tantomeno il suo guizzo crudele e sarcastico, e neppure la sua astuzia. Meloni fa la voce grossa ma sembra non essere abbastanza convincente. Ora poi che la politica leghista ha ampliato la sua base territoriale spingendo l’odio per il nemico oltre la frontiera e amplificandone la potenza, la grande presa di FdI sulla capitale non è più la stessa di un tempo. Basti pensare all’accoglienza da rockstar riservata a Salvini all’ultimo Atreju.

Meloni si è trovata ancora una volta lì, a un passo dal successo. Ma se l’è visto sfilare dalle dita proprio da chi aveva scelto come amico e che, invece, le ha soffiato da sotto il naso tutto: ideali, consensi, alleati.

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