Salvini è un troll. Qualsiasi cosa faccia, la fa per provocare una reazione, possibilmente rabbiosa o scandalizzata. Non è senz’altro il primo a portare nella politica l’arte della provocazione, però maestri come Berlusconi e Bossi praticavano il trolling per arrivare a un risultato – attirare l’attenzione, certo, ma anche innervosire gli avversari e portarli ad autoridicolizzarsi con reazioni scomposte. Salvini è un passo oltre: dai maestri ha appreso l’arte ma non il senso e oggi che ha il campo libero lo vediamo trollare non tanto per imporre un’agenda politica, ma per imporne una che gli permetta di trollare.
Questo andrebbe premesso a qualsiasi commento sui comportamenti di Salvini, sia che disturbi la gente al citofono accusandola di reati gravi sia che riconosca Gerusalemme come capitale di Israele (per citare due cose che ha fatto in una surreale settimana di campagna elettorale). Perché si comporta così? Perché è un troll. Vuole la nostra frustrata attenzione, e infatti eccoci qui: stiamo parlando di lui, forse ha vinto. Magari l’idea di un aspirante capo del governo che gioca a fare il Gabibbo ci fa infuriare, ma Salvini vuole proprio questo da noi. Salvini si nutre della nostra rabbia.
Quanto alla dichiarazione su Gerusalemme, è il classico esempio di minima spesa per la massima resa. Riconoscere la città come capitale dello Stato ebraico è un gesto che non gli costa alcuna fatica e che sarebbe gravido di conseguenze, se solo Salvini fosse al governo, visto che si tratterebbe di tradire la linea tenuta dell’Unione europea. Ma Salvini al governo più di tanto non riesce a restare: l’anno scorso ha resistito fin quasi a Ferragosto, grazie alle sue provocazioni a torso nudo al Papeete. E poi Salvini dimostra anche in questo caso l’allineamento della Lega alle posizioni del sovranismo europeo, che vede in Netanyahu un alleato in Medio Oriente. Ma davvero al leader leghista premono così tanto le sorti del Medio Oriente, e proprio questa settimana? È difficile immaginare che la sorte della Spianata delle Moschee gli interessi più del centro di Bologna, dove le sue provocazioni ancora non sfondano, ma in città si trovano ancora alcuni studenti fuorisede filopalestinesi con la kefiah. Se solo si riuscisse a farli incazzare a portata di videocamera, magari nello storico campo di battaglia tra via Irnerio e Piazza Verdi, sarebbe un grande colpo mediatico: un modo fantastico di terrorizzare i bolognesi benpensanti e mandarli a votare i candidati della Lega. E invece no, Piazza VIII Agosto si riempie, ma delle placide Sardine che di Gerusalemme non si preoccupano, come di tanti altri problemi.
A indignarsi rimane soltanto una piccola frangia di osservatori professionisti o appassionati, quei pochi che ancora in Italia si ostinano a considerare la marginalizzazione dei palestinesi un problema e non una soluzione. Combattuti, anche questi ultimi, tra la necessità morale di non prendere il troll sul serio e il richiamo della foresta, se non il fascino dell’abisso: perché ci sono livelli sotto i quali ancora nessuno era davvero sceso, e Salvini li sta raggiungendo in caduta libera. Lui ha davvero cercato di rifarsi una verginità morale invitando a un convegno sull’antisemitismo Liliana Segre, che prontamente ha declinato l’invito. Ha davvero raccontato a un giornale israeliano che l’antisemitismo in Italia lo hanno portato gli immigrati islamici – e questo malgrado l’osservatorio sull’antisemitismo continui a registrare con cadenza quotidiana episodi che hanno protagonisti nomi e cognomi italianissimi. Salvini, il più celebre tra i propagatori italiani di complottismi su George Soros, ha davvero affermato di non avere nulla a che fare con l’antisemitismo della “destra tradizionalista”. Lo ha fatto proprio mentre il comune di Verona, con una giunta a trazione leghista, intitolava una via a Giorgio Almirante, fascista repubblichino e poi fondatore del Movimento Sociale Italiano. Forse ignora che la leggenda nera sul governo mondiale occulto del perfido Soros non è che la rielaborazione postmoderna di idee che nel 1938 si potevano leggere sulla Difesa della Razza, rivista ufficiale del razzismo fascista dove Almirante era il segretario di redazione.
Qualcuno ha già sottolineato il cinismo con cui Salvini si è rivolto a Israele, mostrando di considerarlo, più che una nazione sovrana, un ente morale deputato a rilasciare “una patente di rispettabilità politico-religiosa”. Certo, perché il giochino funzioni bisogna che dall’altra parte qualcuno si presti e Benjamin Netanyahu ha già dimostrato una certa disponibilità in questo senso: ha ricevuto il filippino Rodrigo Duterte ed è andato a trovare Viktor Orbán, quindi nulla gli impedisce di accostarsi anche a Salvini. Per Netanyahu la Storia è subordinata alla politica: ogni nemico di Israele può essere paragonato a Hitler, se necessario – mentre paradossalmente Hitler può essere ridimensionato: non più ideatore della Shoah, ma semplice artefice dei piani genocidi del Gran Muftì. Netanyahu ha un’agenda che a differenza di Salvini non si esaurisce nel vincere le prossime elezioni: da un punto di vista culturale, il suo obiettivo è includere nella definizione di antisemitismo qualsiasi forma di critica a Israele.
Se vuole definirsi amico di Israele, Salvini non solo deve promettere di trasferire l’ambasciata italiana a Gerusalemme, come ha già fatto Trump, ma anche impegnarsi a chiedere a Bruxelles di proibire il boicottaggio dei prodotti israeliani. Promessa molto difficile da realizzare, non solo perché Salvini a Bruxelles ci va il meno possibile, disertando in particolare qualsiasi riunione possa ottenere risultati concreti, ma soprattutto perché un boicottaggio è una forma di protesta non violenta e passiva. Il movimento Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) può anche essere definito antisemita e messo fuori legge (si discute sull’ipotesi sia negli Stati Uniti che in Germania), ma nessuna direttiva comunitaria può costringere i consumatori europei a comprare i pompelmi israeliani, se non li vogliono. L’obiettivo di Netanyahu è convincere gli europei che chi non compra i pompelmi israeliani è antisemita tanto quanto il complottista che ricicla i Protocolli dei Savi di Sion o il nazista che vandalizza i monumenti dedicati alla Shoah.
Quello che a noi europei può sembrare una strumentalizzazione ha comunque un senso storico (e geografico). Netanyahu è il primo ministro di un Paese che vive il ricordo della Shoah in modo diverso da come lo si percepisce in Europa. Per noi europei il 27 gennaio è la ricorrenza annuale del senso di colpa collettivo, il giorno in cui ricordiamo di essere portatori neanche troppo sani di malattie che hanno sconvolto il mondo: nazionalismi, fascismi e xenofobia. Gli israeliani non possono e non devono viverlo con lo stesso senso di colpa: il loro 27 gennaio non può che rafforzare la loro idea che se 80 anni fa Israele fosse esistito la Shoah non sarebbe accaduta. Questo può spiegare perché per un sionista come Netanyahu la memoria della Shoah combaci totalmente con la difesa a oltranza delle politiche di Israele, come l’occupazione militare dei territori palestinesi e l’appoggio a oltranza degli insediamenti illegali dei coloni.
Un po’ meno spiegabile è che un aspirante leader di una nazione come l’Italia non faccia una piega nel fargli da megafono: Netanyahu vuole i Bds fuori legge? Salvini andrà a Bruxelles a chiedere i Bds fuorilegge. Tutto questo dopo aver sibilato per anni contro i politici europei servi di una fantomatica lobby pluto-giudaico-massonica. Un bel paradosso, se solo se ne fosse reso conto. Ma anche se così fosse, non ha molto senso mettere Salvini di fronte alle sue contraddizioni. In fondo, continuerà a comportarsi come un troll.