La mattina del 10 settembre del 1994 il centro di Milano è teatro di una piccola guerriglia urbana. Pochi giorni prima è stato sgomberato per l’ennesima volta il Leoncavallo, centro sociale simbolo della città. La manifestazione di protesta che segue si conclude con scontri, sassaiole e manganellate – il bilancio è di qualche decina tra feriti e contusi.
Il sindaco leghista della città, Marco Formentini, è per il pugno duro e il Comune decide di costituirsi parte civile. “Per quelli del Leoncavallo non c’è posto, cacceremo via questi randagi dalla città,” dichiara il primo cittadino, protagonista in quegli anni di una vera e propria crociata contro il centro sociale. Tra lettere a Dario Fo e Franca Rame in cui chiedeva di non esibirsi in quello spazio perché “La frequentazione delle strutture del centro mette seriamente a repentaglio l’incolumità delle persone” e una serie di sgomberi che portarono la nuova sede prima in via Salomone, poi in via Watteau, la politica locale di Formentini aveva proprio nel Leoncavallo il suo principale nemico.
“Gli incidenti sono avvenuti per colpa di pochi violenti, mentre i quindicimila giovani che hanno manifestato avevano ragioni giuste e condivisibili, ma sono stati strumentalizzati.” A parlare pochi giorni dopo gli scontri, di fronte a Formentini e al resto della giunta, è un 21enne consigliere comunale di Milano. Fa parte della Lega Nord dal 1990, ma si porta dietro un’ideologia differente dalla linea del partito – nel 1997 entrerà non a caso nel movimento dei comunisti padani. Il suo nome è Matteo Salvini. “Chi non ha mai frequentato un centro sociale? Io sì, dai 16 ai 19 anni, mentre frequentavo il liceo, il mio ritrovo era il Leoncavallo. Là stavo bene, mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni…” motiva davanti alla giunta comunale.
Fa un po’ impressione sapere che frasi di questo tipo siano uscite dalla bocca di chi oggi invoca le ruspe “su campi nomadi e centri sociali” e parla di “centri sociali conigli, forse campano con la camorra”. Da chi, ancora, dichiara solidarietà ai poliziotti condannati per la morte di Federico Aldovrandi e promette che “con noi la polizia avrà mano libera”. Certo, sono passati vent’anni, ma almeno a un primo sguardo il Matteo Salvini di allora era sotto molti aspetti differente da quello di oggi, tant’è che Repubblica nel 2004 gli dedicava un articolo dove lo definiva “Il ragazzaccio del Carroccio”.
Quando non trascorreva le serate sottocassa ad ascoltare drum and bass, il Salvini degli anni novanta era “un ragazzo di sinistra folgorato dal progetto dell’autonomia territoriale,” scrivono Alessandro Franzi e Alessandro Madron nel libro Matteo Salvini #ilMilitante. Un comunista-leghista, sospeso tra i due schieramenti dai quali prendeva in modo equo ispirazione: indipendenza della Padania, ma con un occhio di riguardo al proletariato, agli operai, ai marginali. Tracce del Matteo Salvini di oggi, che si mescolano con quelle di una persona che nel 2018 sembra non esserci più.
Nel 1997 Salvini partecipò alle elezioni del Parlamento Padano, organismo consultivo istituito dalla Lega Nord e aperto a tutti i cittadini padani, al di là del loro orientamento politico. La sua lista si chiamava Comunisti Padani e sullo stemma comparivano la falce e il martello. “Scrivere il programma fu facile, di comunismo ne avevamo masticato assai da queste parti: tra i punti forti mettemmo l’assistenza ai bisognosi e il credito a basso costo per le piccole e medie imprese, pur nel rispetto dell’obiettivo finale dell’indipendenza della Padania,” racconta Mauro Manfredini, fondatore della lista. Per quanto riguarda il rapporto con il tema immigrazione, l’occhio di riguardo era certamente per gli italiani, ma non c’era ostilità nei confronti di quegli immigrati che fossero riusciti a ottenere un permesso di soggiorno, in ragione di un regolare inserimento lavorativo. I comunisti padani ottennero cinque seggi quell’anno, uno riservato proprio a Matteo Salvini.
“Leader della falce e martello verdi, Salvini ha cavalcato le zone grigie su cui la sinistra ha glissato. Parliamo di difesa del territorio, dell’italianità e del diritto al lavoro e alla casa dei lavoratori, prima degli italiani e poi degli stranieri, battaglie che ai tempi erano condivise anche dai comunisti italiani,” scrive Eleonora Bianchini in Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere. Se la sinistra non dava risposte, i comunisti padani facevano presa sul popolo arrabbiato, deluso, risentito. Si facevano cioè catalizzatori del voto di protesta degli elettori di sinistra insoddisfatti.
Fu in questa fase di ascesa politica a livello regionale che però qualcosa si ruppe in quel perfetto equilibrio salviniano tra comunismo e leghismo, a favore del secondo. “Preparava i banchetti contro l’apertura di una moschea (…) Andava a fare sopralluoghi nei campi rom,” raccontano Franzi e Madron, che ricordano anche quando nel 1998 istituì un numero telefonico per segnalare casi di delinquenza legati agli immigrati clandestini. Eccolo qui l’altro Salvini, il nostro Salvini. Le priorità stavano cambiando, il flusso migratorio cresceva, la questione della sicurezza – o della sua percezione – stava sempre più a cuore ai cittadini. Tappare i buchi lasciati dalla sinistra non era più necessario, il lavoro fatto fino a quel momento aveva già portato dei risultati. Era arrivato il momento di cambiare strategia, serviva offrire una spalla su cui piangere a un altro, nuovo grande esercito di insoddisfatti.
Ecco chi era – chi è – Matteo Salvini. Un camaleonte, o un grillo, che saltella da una parte all’altra alla perenne ricerca di un malcontento a cui offrire il megafono. Un mago Houdini che sa cambiare veste in un battito di ciglia, lasciando la platea spaesata, quasi incredula. Ma anche un personaggio sopra le righe, provocatorio, che afferma di aspirare a governare il Paese, ma che nella realtà dei fatti deve il suo successo alla sua figura di oppositore per eccellenza.
Favorevole alla legalizzazione della cannabis quando il dibattito in Italia è ancora agli albori, contrario quando inizia a parlarsene seriamente con tanto di legge per la discussione alla Camera. Frequentatore dei centri sociali durante gli anni della repressione milanese di queste realtà, in prima linea nel condannarli quando le acque si calmano – già nel 1995 se la prendeva con gli occupanti e con la loro resistenza rientrare in un ambito di legalità. Leghista-comunista in un momento in cui nella destra c’era ancora chi si svegliava di notte sudato e palpitante pensando all’Unione Sovietica, felice di sfoggiare la sua maglia con falce e martello barrati qualche anno dopo. Una figura imprevedibile, ma pronta a indossare l’abito più conveniente al momento opportuno. “Mai più schiavi di Berlusconi!” gridava nel 2016 da Pontida, dentro alla coalizione del centro-destra capitanata dallo stesso Berlusconi un anno dopo. “Prima il nord” rivendicava su Facebook qualche anno fa, “Prima gli italiani” scrive oggi un po’ ovunque, viaggiando per le città del Mezzogiorno nel suo tour elettorale.
“Salvini incarnava la figura dell’eterno oppositore, sia che la Lega si trovasse all’opposizione che fosse in minoranza,” spiegano Franzi e Madron a proposito del suo atteggiamento degli anni Novanta. “Rapido nell’organizzare la protesta. E facile bersaglio di accuse di opportunismo da parte degli avversari”. Il Salvini di ieri era già il Salvini di oggi. Certo, il suo atteggiamento non è tanto diverso da quello della restante classe politica – basti pensare a Stefano Parisi, che in una settimana è passato dal rivendicare orgoglioso l’uscita dal centro-destra a esserne il candidato ufficiale alla Regione Lazio. Allo stesso modo, criminalizzare Salvini per essere passato da frequentatore a nemico dei centri sociali non ha molto senso – sono passati vent’anni, gli ideali cambiano nel corso di una vita.
Eppure la storia dell’evoluzione della coscienza, della maturazione ideologica, non convince. Il Leoncavallo, la falce il martello, la legalizzazione della cannabis, sono le prime tracce del Salvini-pensiero, un marchio fondato sull’imprevedibilità, la provocazione e il trasformismo che andava formandosi negli anni Novanta e che oggi – beati noi – possiamo osservare in tutta la sua maturità e splendore.
La Lega ha fatto propria la pratica di dire un giorno una cosa e smentirla il giorno dopo, scrive Marco Aime in La Lega vista da un antropologo. “Generare confusione, per rendere vana ogni critica ragionata”. Con il suo trasformismo, la sua imprevedibilità, Matteo Salvini è probabilmente il leghista più leghista che ci sia mai stato.