C’è un famoso proverbio cinese che recita: “Se il dito indica la Luna, lo stolto guarda il dito”. È quello che ci inducono a fare i media mainstream davanti alle proteste degli attivisti climatici, dato che i principali giornali nazionali e i telegiornali non aprono spesso un serio dibattito sulle ragioni della mobilitazione, limitandosi a parlare delle azioni dimostrative in termini paternalisti, quando non denigratori, sminuendone i contenuti, come tende a fare il governo, che nel frattempo ha emesso l’ultimo decreto sicurezza, braccio operativo del clima di criminalizzazione del dissenso in atto da tempo.
Il disegno di legge sulla sicurezza, approvato dalla Camera a fine settembre, contiene circa trenta tra nuovi reati, ampliamenti e aggravanti di reati. Tra i temi coinvolti emerge l’accanimento sui manifestanti: dall’aggravante di violenza e minacce in caso di danneggiamento di cose mobili e immobili durante le manifestazioni che si svolgono all’aperto – con multe fino a 15mila euro e reclusione da un anno e sei mesi – a quello di deturpamento e imbrattamento contro beni adibiti alle funzioni pubbliche al fine di “ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene”, con reclusione da sei mesi a un anno e mezzo e multe da mille a 3mila euro. E via così, fino all’inasprimento delle pene per resistenza a pubblico ufficiale e alle aggravanti per chi protesta per impedire un’opera pubblica strategica e per chi blocca strade e ferrovie, che rischia da sei mesi a due anni di carcere, con un’iniziativa che è stata subito ribattezzata “anti-Gandhi”, perché colpisce modalità non violente di esprimere dissenso.
È proprio questo, il dissenso, a essere chiaramente nel mirino: che sia quello contro la guerra a Gaza o quello contro l’inazione climatica. Lo testimonia, per esempio, Amnesty International, secondo cui anche in Italia, come a livello globale, è in atto un’erosione degli spazi a disposizione della società civile per esprimersi, attuata con varie strategie, dall’emanazione di leggi criminalizzanti fino al divieto stesso di svolgimento delle manifestazioni; è stato fatto, per esempio, dalla Questura di Torino, che pure non è riuscita a impedire il corteo nel primo fine settimana di ottobre. A Roma, invece, la polizia ha fatto posti di blocco e controlli a tutti i punti di accesso della capitale per impedire che i manifestanti raggiungessero l’inizio del corteo, allontanando preventivamente circa 200 persone e firmando un foglio di via da Roma per 51 di loro, in via preventiva. Tra gli strumenti usati sempre più spesso, infatti, c’è il ricorso a provvedimenti amministrativi che, come emerge dal report “Diritto, non crimine” promosso dalla Rete InDifesaDi e da Osservatorio Repressione, ha visto negli ultimi mesi un’impennata di azioni legali e amministrative contro individui e gruppi, inclusi arresti, multe e misure preventive come fogli di via e DASPO.
È un concetto controverso di prevenzione: già nel 2021 alcuni attivisti di Extinction Rebellion a Torino erano stati fermati per reato di accensioni pericolose di fumogeni; a essere sanzionati, in quel caso, furono comportamenti non pericolosi di per sé, ma che avrebbero potuto esserlo. Così si rende sempre più labile il confine tra prevenzione e repressione del dissenso pura e semplice, quasi un minority report sociale in cui non ci si pone nemmeno più il problema di quanto un comportamento possa effettivamente essere pericoloso, se la pericolosità non si è manifestata nel concreto. A venire repressi, quindi, non sono più tanto i comportamenti pericolosi, quanto, a monte, le iniziative.
A rafforzare l’effetto della repressione c’è, poi, la narrazione che ne fanno i media principali, uno strumento potente per trainare l’opinione pubblica, infondendole paura verso persone immigrate e attiviste, diffondendo il sospetto nei confronti dell’Unione Europea e, sempre di più, delegittimando le proteste. Purtroppo, infatti, a una maggiore visibilità sui media non corrisponde, come dovrebbe, l’apertura di un dibattito costruttivo sulle rivendicazioni dei manifestanti; lo rileva il report “Barometro dell’odio” di Amnesty International, da cui emerge che, tra le voci che trovano spazio nei servizi dei telegiornali, pochissime sono quelle di chi manifesta, in particolare in ambito ambientalista, come pure degli esperti sui temi oggetto di rivendicazione. Questo non stupisce, se persino durante un servizio del TG1 dedicato al meteo tra le parole di un esperto come il fisico Antonello Pasini vengono tagliate proprio quelle che facevano riferimento alla crisi climatica.
In compenso i giornalisti – quelli di Rete 4 e Canale 5 in testa, seguiti da Studio Aperto e TG La7 – non si risparmiano parole come “ecovandali”, “eco cretini” e “delinquenti”. La ripetizione di termini come questi – usati dagli stessi esponenti del governo –, le accuse di integralismo nei confronti di chi non fa altro che chiederci di ascoltare gli scienziati e la quasi totale assenza, in televisione soprattutto, di approfondimenti sulle motivazioni degli attivisti contribuiscono a una generale percezione dell’argomento che concorda, tutto sommato, con la narrativa dominante sulle manifestazioni di dissenso, presentate come azioni repressive della libertà altrui – e, quindi, come nocive per l’interesse della collettività. Per di più, sia in televisione che sui giornali maggiori si mette costantemente l’accento su ciò che garantisce click e ascolti, perché punge sul vivo la sbandierata identità italiana, che tanto si vanta del nostro patrimonio culturale: e allora via libera agli sproloqui sui presunti danni ai monumenti causati dagli attivisti e sui costi per ripulirli. Ovviamente dimenticando di citare i soldi spesi per sostenere le aziende agricole piegate da siccità e alluvioni o i costi degli eventi climatici estremi, che nell’Unione Europea nel solo 2022 sono stati circa 41 miliardi di euro in perdite economiche. Anche sui social, le azioni dimostrative che coinvolgono monumenti e opere d’arte sono tra quelle che suscitano più odio, trasformando tutti magicamente in appassionati d’arte e difensori della proverbiale bellezza italiana; è un dettaglio, poi, che il vero pericolo per quegli stessi monumenti sia rappresentato proprio dalla crisi climatica: ad esempio, più del 23% dei beni culturali italiani è minacciato dalle alluvioni, senza contare gli altrettanto gravi effetti di inquinamento e overtourism.
Ma è più facile individuare i singoli colpevoli di un’azione dimostrativa antipatica che mettere in dubbio tutto un sistema che, per chi ha il potere politico ed economico, tutto sommato funziona. Questa narrativa non si è imposta dal nulla, ma si costruisce nel tempo, sfruttando – e cambiando – il significato delle parole, come si è visto quando la ministra Eugenia Roccella ha rovesciato il senso del termine “censura” dopo essere stata contestata allo scorso Salone del Libro di Torino, come se non sapesse che la censura è la repressione delle opinioni operata dall’alto, utilizzando i media. Tanto da riuscire a influenzare in questo senso i cittadini: come evidenziano le stesse analisi di Amnesty, infatti, sui media mainstream e sui social dilaga l’hate speech, costante dal 2019, ma dal 2023 di nuovo in crescita, arrivando a oltre il 15,3% sul totale dei contenuti, con incitazioni all’odio, alla discriminazione e alla violenza. Tra i post analizzati da Amnesty che hanno generato una più alta incidenza di hate speech sui social media, in particolare, prevalgono i contenuti relativi ad azioni per la giustizia climatica, come quella di Extinction Rebellion che nel 2023 colorò di verde il Canal Grande a Venezia. A questo si aggiunga che gli algoritmi delle piattaforme sfavoriscono i contenuti a difesa dei diritti umani, nascondendoli agli utenti – come si è visto nei mesi scorsi nel caso delle storie Instagram che denunciavano le violenze israeliane ai danni dei cittadini palestinesi – e il risultato è un ulteriore appiattimento del dibattito sulla sostanza delle proteste, che si ferma, invece, alla forma.
E, parlando delle forma, dilagano i discorsi su decoro, buonsenso e sicurezza, usati come pretesti per mettere a tacere le voci scomode, presentate come una minaccia alla pacifica convivenza che la democrazia garantisce. Nella realtà, come sottolinea Donatella Della Porta, docente in Scienza politica alla Normale di Pisa, non sono le azioni di disobbedienza civile a erodere lo stato di diritto, ma se mai il contrario: l’incapacità dello Stato di ascoltare e accogliere le voci critiche è espressione di un’incapacità di funzionare in modo democratico. Sostenere continuamente il contrario contribuisce a giustificare gli interventi repressivi e criminalizzanti, facendo apparire come pericolose le manifestazioni di dissenso. Che, invece, sono un ingrediente così importante della democrazia che anche la Costituzione sancisce il “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Se lo si impedisce, si sminuiscono i temi sui quali gli attivisti richiamo l’attenzione pubblica e si soffoca il dialogo e, con questi, si minano non solo le speranze che ancora ci restano di poter adattare la nostra società alle nuove condizioni climatiche, ma anche la tenuta stessa della nostra democrazia. I media hanno un’enorme responsabilità in questo: dovrebbero smettere di gridare allo scandalo per della vernice lavabile sui palazzi storici, quando lo Stato abusa di strumenti repressivi e il governo si dimostra incapace di rapportarsi con chi non si allinea. Allora forse anche i cittadini imparerebbero a guardare la luna e non il dito.