Era il 17 maggio 1981 quando i cittadini italiani furono chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari. Uno di questi, promosso dal Movimento per la vita, proponeva di abrogare quasi completamente la legge n. 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), concedendo solo la possibilità di praticare l’aborto terapautico, ossia quello che si rende necessario quando la madre è in pericolo di vita o il feto risulta affetto da gravi patologie o malformazioni. Questo tentativo, al tempo, fallì: il 68% dei votanti bocciò la proposta, salvando il diritto all’aborto, acquistato solo tre anni prima e già messo in discussione. Oggi, invece, più di quarant’anni dopo, il partito di estrema destra Fratelli d’Italia, guidato da Giorgia Meloni e noto per la sua vicinanza alle associazioni pro-vita – è risultato il più votato alle elezioni politiche, in Europa continuano a rafforzarsi i regimi autoritari e le minoranze vengono rilegate sempre più ai margini della società. Sembra si sia insomma diffusa la volontà di togliere diritti piuttosto che crearne di nuovi e il desiderio non troppo celato di revocare libertà ottenute dai cittadini in passato. Viene allora da domandarsi quale sarebbe il risultato se il referendum voluto dal Movimento per la vita si tenesse oggi: non possiamo avere una risposta, ma la sola domanda spaventa.
In Italia l’interruzione volontaria di gravidanza è legale dal 1978, quando fu approvata, nel pieno del tumulto che seguì il rapimento di Aldo Moro, la legge n. 194. Il testo permette alle donne di abortire fino al novantesimo giorno successivo al concepimento, per motivi di salute, economici, sociali o familiari. Oltre questo limite, in Italia, è invece concesso esclusivamente solo l’aborto terapeutico. Nella tornata referendaria del 1981 furono presentati due quesiti sul tema: uno, proposto dal Partito Radicale, proponeva di liberalizzare completamente l’aborto, eliminando le restrizioni e i controlli in vigore; un’altro, promosso dal Movimento per la vita e diametralmente opposto al primo, voleva invece sopprimere il diritto concedendo solo ed esclusivamente l’aborto terapeutico. Entrambi vennero bocciati, il primo con l’88% dei voti contrari, e il secondo, con il 68%. Oltre ventun milioni di persone si recarono ai seggi per difendere la legge 194, più del doppio di coloro che votarono a favore della sua quasi totale eliminazione.
Recentemente, però, le democrazie occidentali sembrano essere influenzate, e a volte cedere, alle sirene del sovranismo. Dall’elezione di Donald Trump nel 2016, alla consolidazione del potere di Viktor Orbán in Ungheria e del partito conservatore Diritto e Giustizia in Polonia, passando per il 41% dei voti ottenuti da Marine Le Pen in Francia – sufficienti per sfiorare, ma non vincere, la presidenza del Paese lo scorso aprile – fino alle elezioni italiane del 25 settembre, quando l’ondata della destra ha vinto la maggioranza in Parlamento e raggiunto il 44% dei voti a livello nazionale. La percezione di una società che regredisce è confermata anche da un report del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che già nel 2017 denunciava come negli ultimi anni fossero tornati a diffondersi in molti Paesi europei “gravi minacce per la salute e i diritti sessuali e riproduttivi delle donne”, con in particolare con “l’introduzione di restrizioni all’accesso all’aborto e alla contraccezione”.
Pur con alcune differenze, i leader dell’estrema destra europea hanno sempre mostrato scarsa tolleranza per le persone appartenenti alla comunità LGBTQ+ e per i diritti delle donne, viste come madri e mogli prima che come individui indipendenti. In Ungheria, per esempio, di recente il regime di Orbáan – riconosciuto come antidemocratico anche dal Parlamento europeo – ha deciso che le donne dovranno auscultare il battito del feto prima di poter effettuare l’intervento, un chiaro tentativo di manipolazione psicologica. La campagna elettorale di Fratelli d’Italia è invece stata caratterizzata da un atteggiamento controverso nei confronti dell’aborto. Giorgia Meloni ha infatti più volte ripetuto che non intende modificare la legge 194, ma “applicarla totalmente” per garantire alle donne “il diritto a non abortire”. I dati e le vicende degli ultimi anni mostrano però che in Italia il miglior modo per rendere più difficile l’accesso all’aborto è proprio questo: applicare alla lettera la legge che lo regolamenta, potenziando le “attività di prevenzione” nei consultori e difendendo strenuamente il diritto all’obiezione di coscienza.
D’altra parte, fin dalla sua genesi la legge 194 ha seguito un percorso travagliato e litigioso, con battaglie dentro e fuori dal Parlamento, dove era osteggiata soprattutto dalla Democrazia cristiana e dal Movimento sociale italiano, il partito di ispirazione neofascista il cui simbolo, la fiamma tricolore, campeggia ancora oggi nel logo di Fratelli d’Italia. Di conseguenza, la legge che abbiamo tuttora è il risultato di un compromesso tra obiettivi inconciliabili, che cerca di tenere insieme la necessità di proteggere la vita ma anche il diritto delle donne a decidere della propria. Secondo i movimenti femministi dell’epoca la legge 194 avrebbe dovuto essere “un primo passo”, uno strumento normativo da migliorare, che però non è mai stato adeguato e perfezionato. Oggi, infatti, pur essendo passati più di quarant’anni e diversi governi – almeno in teoria – progressisti, la legge è ancora piena di falle e viene spesso mal applicata. Così, in Italia, abortire si rivela spesso un’impresa piena di ostacoli, di cui nemmeno alla politica di centrosinistra è mai sembrato importare particolarmente.
Un primo elemento ambiguo della legge 194 si riconduce in parte a quanto detto da Meloni in campagna elettorale: i consultori familiari, che dovrebbero informare, guidare e sostenere le donne nel percorso di gravidanza o eventualmente nelle procedure abortive, in Italia nella maggior parte dei casi non funzionano a dovere, soprattutto a causa dello scarso radicamento sul territorio. Secondo una legge del 1996, sul territorio nazionale dovrebbe essere attivo un consultorio ogni 20 mila abitanti. In realtà, l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità ha rilevato che in media è attivo un consultorio ogni 35 mila abitanti, quasi la metà della frequenza stabilita. Le regioni più virtuose sono la Valle d’Aosta, con una struttura ogni 10mila abitanti, e la Basilicata, con una ogni 16mila. A queste si aggiunge la provincia autonoma di Bolzano, che ha il tasso migliore in tutta Italia: un consultorio ogni 9.751 abitanti. In alcune regioni invece, come la Lombardia e il Friuli Venezia-Giulia, il tasso sale oltre i 50mila abitanti, con un picco di 66mila abitanti per consultorio in Molise.
I consultori fanno anche i conti con la mancanza cronica di personale, tanto che in alcuni casi medici e psicologi devono spostarsi continuamente da una sede all’altra per garantire i servizi minimi. Secondo le linee guida del Ministero della Salute, i consultori dovrebbero anche rilasciare le certificazioni necessarie per abortire e gestire le procedure per l’aborto farmacologico in day hospital, ossia quello che non prevede interventi chirurgici ma avviene per via farmacologica orale. Nell’agosto del 2020, il Ministero della Salute ha modificato le linee guida per l’aborto farmacologico, stabilendo che questo può essere effettuato fino a 63 giorni dopo il concepimento – al posto dei 90 in vigore per l’intervento tradizionale – sia in ospedale che nei consultori, senza necessariamente dover ricorrere all’ospedalizzazione. Di fatto, però, non tutte le regioni hanno recepito il cambiamento nelle normative, e ancora oggi l’aborto farmacologico senza ricovero è possibile solo in poche aree del Paese, come il Lazio e, da questa settimana, l’Emilia Romagna. La procedura è considerata sicura e meno invasiva, eppure nel 2020 solo il 35,1% delle Ivg è avvenuta con tecnica farmacologica, anche a causa della reticenza degli enti locali che dovrebbero assicurare il servizio e alla possibilità di sottoporvisi entro una finestra di tempo limitata.
In tutti gli altri casi è necessario ricorrere al regime in day hospital o all’aspirazione, situazioni che espongono le donne a inutili complicazioni psicologiche, facendo crescere l’ansia e il senso di inadeguatezza. Negli ospedali, così come nei consultori, infatti, non è raro incappare nei presidi organizzati dalle associazioni pro-vita, che cercano fino all’ultimo di dissuadere le donne, puntando anche sulla colpevolizzazione infondata delle loro scelte. In Liguria, lo scorso maggio proprio Fratelli d’Italia ha depositato una proposta di legge per istituire sportelli “pro-vita” in tutte le strutture ospedaliere in cui si effettuano Ivg. Ad aprile, invece, la regione Piemonte, governata dal forzista Alberto Cirio, ha istituito un fondo da 400mila euro per sostenere le attività di queste associazioni. Oltre a favorire l’accesso all’Ivg, i consultori familiari dovrebbero anche informare le donne sui loro diritti e sulle opzioni a disposizione, assisterle durante la gravidanza e, come afferma l’articolo 2 della legge 194, “contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”. È questo quello a cui fa riferimento Meloni quando parla di “applicare interamente” la legge: rafforzare il sistema di prevenzione dei consultori non tanto per offrire capillarmente servizi ginecologici alle donne e far valere i loro diritti, ma per “aiutarle” a convincerle a non abortire.
Se quindi l’applicazione della prima parte della 194 ha ampi margini di miglioramento, la seconda risulta invece magistrale: gli obiettori di coscienza, infatti, protetti dall’articolo 9 del testo, sono ovunque e sono tantissimi, e il problema sembra essere sotto gli occhi di tutti tranne che della politica. Secondo gli ultimi dati del Ministero della Salute, nel 2020 il 64,6% dei ginecologi presenti sul territorio nazionale erano obiettori di coscienza, e in alcune regioni, soprattutto al Sud, il dato superava l’80%; mettendo a rischio, in modo del tutto legale, il diritto di migliaia di donne. È il caso per esempio dell’Abruzzo, del Molise, della Basilicata e della Sicilia, ma anche della provincia autonoma di Bolzano, dove l’84,5% dei ginecologici si rifiutava di praticare l’Ivg. In altre parole, solo il 35% dei ginecologi attivi in Italia pratica l’aborto.
Alla luce di tutto ciò, non si può prevedere cosa succederebbe se il referendum del 1981 per l’abrogazione dell’aborto si tenesse oggi, anche se è assolutamente possibile che i cittadini decidano di salvaguardare, ancora una volta, questo diritto tormentato, a prescindere dal loro schieramento politico. A vederlo ora, però, il risultato di quarantun anni fa appare come un successo enorme, ma allo stesso tempo fragile e contingente, legato a tempi e contesti diversi da quelli attuali. Se da sempre la legge 194 è rimasta debole e indecisa, a causa della scarsità dei consultori, dell’eccessivo ricorso all’obiezione di coscienza in molte regioni e del lavoro svolto dalle associazioni pro-vita, lo spostamento verso destra dell’opinione pubblica italiana – e in molti casi anche europea – contribuisce a gettare ombre su un testo che andrebbe tutelato e migliorato, cose che ora sembrano difficili da fare. L’Italia sembra andare indietro invece che avanti, si discute continuamente di togliere diritti, invece che aggiungerne di nuovi o di renderli più inclusivi.