Pochi giorni dopo l’approvazione delle unioni civili, nel maggio 2016, il comitato organizzatore del Roma Pride scelse per la parata di quell’anno lo slogan “Chi non si accontenta lotta”, a sottolineare che la legge Cirinnà era un passo importante, ma insufficiente. Un anno e mezzo dopo e ancor prima di conoscere il risultato delle elezioni, possiamo già tranquillamente affermare che, se ci sarà lotta per i diritti Lgbt dopo il 4 marzo, sarà fuori dal Parlamento. Dentro le Aule al massimo si discuterà di togliere diritti, non di aggiungerli, come ha già minacciato di fare parte del centrodestra, tra proclami e smentite. Con qualche lodevole eccezione – essenzialmente due: +Europa di Emma Bonino e Liberi e Uguali di Grasso – la questione dei diritti omosessuali è non pervenuta nei programmi elettorali dei maggiori partiti. Come peraltro era già facilmente immaginabile guardando le candidature.
C’è di più. Nonostante dichiarazioni e programmi palesemente contrari ai diritti delle persone Lgbt, diversi segnali tra cui un sondaggio di Euromedia Research evidenziano una vicinanza significativa di parte dell’elettorato gay-friendy ai partiti del centrodestra, Fratelli d’Italia in testa, ma anche Lega. Ancor più significativo è il sostegno al Movimento Cinque Stelle, ovvero uno dei partiti maggiormente responsabili dell’approvazione di una legge sulle unioni civili monca della parte riguardante i figli delle persone omosessuali. La cosa sarebbe abbastanza sorprendente se non fosse già acclarato che il voto omosessuale ha ingrossato il consenso del Fronte Nazionale in Francia, o quello di Trump in America, dove una figura come Milo Yiannopoulos racconta molte cose interessanti. Notista di punta di Breitbart, gay dichiarato e allo stesso tempo critico feroce del femminismo e dei movimenti per i diritti civili, Yiannopoulos è la migliore esemplificazione di una tendenza oramai decennale, ovvero lo spostamento verso la destra populista e anti-immigrazione dei maschi bianchi omosessuali più integrati nella società occidentali. Sono persone che percepiscono se stesse – nel caso italiano a mio parere sbagliando – come perfettamente integrate e accettate nella società in cui vivono. Per loro le società multietniche sono un rischio perché temono soprattutto l’avanzata dell’Islam che considerano incompatibile con la loro differenza sessuale, mentre faticano a condividere le battaglie di altri pezzi del movimento Lgbt tutt’ora fortemente discriminati, come le persone transgender. Non è un tema nuovo, spunta fuori a ogni Pride, quando c’è sempre qualche illuminato omosessuale pronto a chiedere parate “dignitose” e non “carnevalate” in nome di una accettabilità che sa tanto di ansia di accettazione, di ricerca di una nuova norma che include un pezzo dell’universo Lgbt per continuare a escluderne altri.
Che tiri una brutta aria, lo si sta vedendo già nella compilazione delle liste. La storia più bella è quella di Bologna: da mesi si inseguivano le voci per cui il prezzo che il Pd avrebbe dovuto pagare per l’alleanza con il partito della ministra Beatrice Lorenzin comprendeva la candidatura di Pierferdinando Casini a senatore nel collegio del capoluogo emiliano. Mossa particolarmente indigesta alla comunità Lgbt, non solo perché qui ha sede il Cassero, uno dei primi e più attivi centri del movimento, ma perché a Bologna nel 2013 è stato eletto senatore Sergio Lo Giudice, presidente onorario di Arcigay, papà della legge sulle unioni civili e in predicato di candidatura nel listino proporzionale. Poiché Casini e Lo Giudice erano previsti entrambi in corsa al Senato, il rischio sarebbe stato di trovarseli appaiati uno accanto all’altro sulla stessa scheda elettorale, il fermo oppositore della causa omosessuale Casini nella casella dell’uninomiale e la sua nemesi Lo Giudice nel listino. Per qualche settimana è così andato in scena a sinistra l’eterno dibattito sul voto con il naso turato, dilemma risolto brillantemente dalla dirigenza nazionale del Partito Democratico quando il 27 gennaio ha infine deciso di confermare Casini e cancellare invece il nome di Lo Giudice dalle liste, presumibilmente convincendo gli elettori vicini al movimento Lgbt a spostarsi un po’ più a sinistra, oppure a restarsene a casa il giorno del voto. Il presidente del Cassero ha creato un hashtag ad hoc per scoraggiare il voto Lgbt bolognese al Partito Democratico, #casinate.
Negli altri partiti, in realtà, va pure peggio. Almeno il Pd ha confermato la relatrice della legge sulle unioni civili, Monica Cirinnà, e Alessandro Zan a Padova, anche se quest’ultimo in posizione difficilmente eleggibile essendo il Veneto terra di conquista del centrodestra. Silvia Maria Fiengo, mamma arcobaleno, è candidata alle Regionali in Lombardia. Ci sono anche Ivan Scalfarotto e Tommaso Cerno, sulla cui rappresentatività per il movimento Lgbt sono però in molti a lamentarsi: dell’uno perché relatore di una legge sull’omofobia molto contestata, dell’altro perché feroce oppositore della maternità surrogata, anche con toni moto duri. Il M5S, che era già riuscito nel miracoloso risultato statistico di piazzare un’infornata di deputati e senatori nelle ultime elezioni e nessun omosessuale (dichiarato almeno), si appresta a fare il bis dello 0%. Nel centrodestra, nemmeno a parlarne. Si sorride solo a sinistra (Marco Capogna e Luca Trentini in Leu) e in +Europa, che piazza i vertici dell’associazione Certi Diritti a correre per le nazionali (Leonardo Monaco) e nelle Regionali in Lombardia (Yuri Guaiana).
Stante queste candidature, il risultato è che dal programma del Partito Democratico è scomparso qualsiasi riferimento al matrimonio egualitario e si parla in maniera molto generica di adozioni, ma non di diritti per le famiglie arcobaleno che già ci sono, e i cui figli nati attraverso tecniche di procreazione medicalmente assistita non sono previsti dalla legge sulle unioni civili. Nel programma c’era anche uno strafalcione, poi corretto, dove si definisce la transessualità un orientamento sessuale anziché un’identità. Una svista, certo, ma significativa. Nei venti punti di M5S i diritti civili non compaiono mai. Nei programmi del centrodestra nemmeno, ma in questo caso si fanno largo piani di sostegno alla famiglia con accenti più o meno insistiti alla “famiglia tradizionale”, di cui è alfiera la madre non sposata Giorgia Meloni.
Tra le associazioni è già scattato l’allarme rosso. Arcigay ha varato un sito per valutare ogni candidato sulla base di una propria piattaforma in cinque punti e, ovviamente, per segnalare ai propri soci e simpatizzanti i rischi dell’appoggiare determinati partiti e politici. Intanto si compilano le liste di quello che manca: il matrimonio egualitario, certo. Ma anche l’accesso all’eterologa per le coppie lesbiche, il riconoscimento dei figli alla nascita per le famiglie arcobaleno, il contrasto all’omofobia nelle scuole, il divieto di mutilazioni per le persone intersex nei primi anni di vita, norme più rigide a difesa delle persone transgender che in Italia sono vittime di violenza con una frequenza senza uguali in Europa. Sono temi presenti in larga parte solo nel programma di +Europa e in parte LeU. Altrove, buio fitto con pochi sprazzi di luce. Anche in casa Pd, che pure ha il grande merito di essere stato il perno che ha permesso l’approvazione della legge sulle unioni civili. A destra, infine, diverse minacce di passi indietro.
Ovviamente potremmo attaccare a dire quanto sia omofobo e arretrato il panorama politico italiano, che è verissimo come ben documentato dal libro di Filippo Maria Battaglia, Ho molti amici gay. In questo caso, temo però sia un discorso in parte fuorviante: nei programmi non ci sono i diritti delle persone Lgbt così come c’è poco spazio per gli immigrati, i carcerati, le persone con handicap, i malati terminali. Le minoranze, insomma, che in tempo di populismo finiscono nel dimenticatoio quando va bene, nel mirino quando va male. Il populismo – che in diverse dosi è presente in quasi tutti i partiti che si presentano alle elezioni – azzera le identità e minoranze in nome di una massa omogenea, il popolo, che si arroga il diritto di parlare per tutti, dando per scontato che le sue rivendicazioni e le sue problematiche siano le rivendicazioni e le problematiche di tutti, a esclusione di minoranze ed élite considerate parassitarie. Lo spiega bene un libro uscito due anni fa, The populist explosion.
Da questo punto di vista, più dell’esclusione di Sergio Lo Giudice dalle liste del Pd è significativa quella di Luigi Manconi, impegnato nell’ultima legislatura a favore dello ius soli, ma anche nella riforma del regime penitenziario. Tutte cose che, a mezza voce oppure ufficialmente, gran parte degli schieramenti presenti alle elezioni preferisce accantonare in nome del vecchio adagio per cui “alla gente non importa, ci sono cose più importanti”. Il M5S è costruito su questo principio, come dimostra il sistematico accantonamento dei temi sensibili, fino a ironizzare con parole infelici sulla battaglia dei radicali per la legge sul fine vita. A destra la pulsione populista sta imboccando la via della demonizzazione, attraverso la pretesa di cancellare dalle scuole qualsiasi piano di educazione alla diversità degli orientamenti sessuali, mentre si fanno insistiti i richiami a dividere nettamente tra unioni omosessuali e matrimoni.
Ma quello gentista è un tic diffuso anche a sinistra e che attraversa, ad esempio, la sinistra di LeU che pure ha una piattaforma sui diritti Lgbt molto avanzata. Esiste un’anima della galassia che compone il partito di Grasso che vive convinta dell’idea che la sinistra debba parlare solo di lavoro e diritti sociali, essendo quelli civili roba da ricchi. Sembra preistoria, ma non è così. Basta ricordare che Massimo D’Alema nel 2006 sbottò così parlando dei Pacs: “Ci siamo fatti incastrare a discutere di questioni marginali rispetto ai problemi del Paese”.
Questo è lo stato dell’arte, oggi. E se il populismo attecchisce anche tra gli elettori gay – perché è poi chiaro che bisogna imparare a distinguere tra movimento Lgbt e semplice orientamento sessuale – non capisco perché i partiti a caccia di consenso, perlopiù ossessionati dall’idea della gente, di quello che interessa la gente, sempre e solo la gente, senza mai distinzioni e minoranze, dovrebbero volersi occupare di diritti.