Dopo uno stato catatonico segnato da immobilismo e disparate analisi della sconfitta, il Partito Democratico sembra uscire dalla fase di coma, cinque mesi dopo le elezioni nazionali che hanno portato la destra al potere. Ormai pensavamo che l’attesa del Congresso fosse essa stessa il Congresso, in un canovaccio kafkiano osceno, dove nonostante l’elettorato e la base avessero ampiamente sfanculato la classe dirigente del partito, il segretario ha finto dimissioni senza dimettersi, si sono fatte promesse di tabula rasa mantenendo le medesima nomenclatura e le medesime facce e, soprattutto, si è mostrata una passività preoccupante di fronte a un governo già attivo nello spostare le lancette verso la Repubblica Fiorentina di Girolamo Savonarola. Adesso siamo giunti alla fase finale delle primarie del partito. Per qualcuno si tratta di un’autoreferenzialità priva di prospettive ma la scelta in palio è più importante di quanto si possa immaginare.
Il voto degli iscritti ha decretato l’uscita di scena degli altri candidati – Gianni Cuperlo e Paola De Micheli – e il testa a testa decisivo tra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein. Su circa 150mila votanti, Bonaccini ha ottenuto il 52% e Schlein il 34%. Adesso la partita si gioca tra i gazebo, dove potranno votare i non iscritti al partito. In una scena del film Aprile del 1998, Nanni Moretti teneva un comizio nello Speaker’s corner di Hyde Park davanti ad alcuni confusi passanti londinesi, urlando: “Per noi italiani di sinistra il modello deve essere l’Emilia Romagna”. Spiegava come la roccaforte rossa avesse i migliori asili del mondo e servizi sociali all’avanguardia. Venticinque anni dopo, l’Emilia Romagna è una delle poche regioni rimaste ancora in mano al centrosinistra, con al timone lo stesso Bonaccini e, dal 2020 al 2022, Schlein come vice governatrice. Bonaccini e Schlein hanno sì lavorato insieme – alimentando quel modello giustamente osannato da Moretti, ma con gli anni sempre più scricchiolante (alle ultime elezioni nazionali c’è stato il sorpasso del centrodestra anche nella storica regione rossa) – però rappresentano due entità politiche estremamente diverse per il modo che hanno di intendere la visione di un partito di centrosinistra nel 2023. È su queste divergenze che deve basarsi la riflessione sul futuro del PD, e l’unico nome possibile per ravvivare un centrosinistra in fase terminale non può che essere quello di Elly Schlein.
La sua corsa alla segreteria, però, è stata osteggiata in ogni modo. C’è chi in rete le ha rivolto insulti antisemiti per le sue origini ebraiche, chi l’ha accusata di essere una borghese radical chic solo perché proveniente da una famiglia colta e benestante. Pazienza se Schlein ha impostato tutta la sua carriera politica sulle lotte per il lavoro, il salario minimo, la difesa degli ultimi e le battaglie per l’ambiente: per alcuni sarebbe il prolungamento del partito delle ZTL, in quanto i suoi genitori non lavorano in fabbrica. Qualcuno forse dimentica la storia dei principali esponenti comunisti e socialisti italiani: Berlinguer era figlio di un avvocato discendente da una famiglia nobile; Togliatti di un contabile del Regno; Gramsci di un funzionario pubblico, arrestato per peculato e concussione a seguito di un’ispezione da cui scaturì un procedimento penale; Turati di un alto funzionario di Stato ultraconservatore. L’idea per cui la leadership della sinistra debba spettare solo al figlio di un metalmeccanico e di una mondina non ha senso: contano le idee e soprattutto il modo in cui vengono applicate. Lo stesso Bonaccini, pur senza mai attaccare Schlein sul personale, ha rimarcato il fatto di essere figlio di un camionista e di un’operaia. Per ingraziarsi gli iscritti ha rispolverato il suo passato comunista e messo in naftalina le vicinanze alle correnti renziane del PD. Si è persino presentato ai cancelli di Mirafiori come fece Berlinguer nel 1980. Considerando che continua a essere ambiguo sul Jobs Act e che Schlein in passato non si è fatta problemi a smarcarsi dal partito proprio per le frizioni legate alle politiche sul lavoro, credo che agli operai però non interessi l’albero genealogico dei politici, ma i risultati che ottengono, e che davanti a una fabbrica sia molto più credibile Schlein.
D’altronde, siamo di fronte a un revival di termini novecenteschi ormai in disuso: se Bonaccini è riformista, Schlein è movimentista. Quest’ultima in tutte le interviste ha ribadito la necessità di riportare il PD a una dimensione più di sinistra, distaccata da un neoliberismo economico e sociale che ha disorientato l’elettorato portando il fu proletariato a votare a destra. Dall’altro lato, il cavallo di battaglia di Bonaccini è quello della “buona amministrazione” di sindaci e governatori, con il tentativo di portare su scala nazionale la formula locale che ancora tiene in vita il PD. È però un déjà vu: anche Zingaretti e Renzi arrivarono al vertice della segreteria come amministratori illuminati, con la chimera dell’appartenenza territoriale come valore da ampliare. Schlein ha fatto notare che è finito il tempo del provincialismo e degli amministratori factotum, e che questa visione deve essere non solo nazionale, ma globale: un buon sindaco non diventa automaticamente un buon segretario, per lo stesso motivo per cui un ottimo amministratore di condominio non ottiene gli stessi risultati da Presidente della Repubblica. Schlein punta sull’inclusività e sul rilancio di una politica dei giovani per i giovani. Anche Bonaccini nei suoi discorsi cita gli ultimi e i penultimi, ma non potrà mai avere le credenziali della sua collega, che già agli esordi combatteva in prima linea a costo di venir emarginata dai ruoli di comando interni (come dimostra l’esperienza di Occupy PD). Bonaccini sarebbe un segretario sul solco di un percorso ormai compromesso; non il suo, ma quello di una forza politica senza linfa. Il PD avrebbe bisogno di una terapia d’urto, di una figura realmente fuori dalle intelaiature che hanno portato il centrosinistra italiano a diventare una riproposizione sbiadita della Democrazia Cristiana o un animale da governo per inerzia. Perché, parliamoci chiaro, chiunque vincerà dovrà contrastare il governo Meloni senza remore, non di certo tentare qualche escamotage per tornare al potere infischiandosene dell’umore del proprio elettorato. E Bonaccini, ultimamente, ha dimostrato di non essere il più feroce degli oppositori di Meloni.
Pur avendo criticato l’operato del governo, ha infatti dichiarato che Meloni “è molto capace e non è fascista”. Frasi che sono arrivate dopo quelle ancor più incomprensibili di Enrico Letta al New York Times, dove ha spiegato che Meloni è forte e sta governando meglio del previsto. Schlein ha ricordato che Meloni in pochi mesi di governo ha già operato contro i ceti meno abbienti, le donne, le minoranze, i migranti e in generale “le fasce più fragili della società”. Poi, Bonaccini è certamente libero di esprimere il suo pensiero e di non considerare Meloni vicina al fascismo, ma il suo pensiero personale rimane tale mentre un’analisi politica che tenga conto della formazione e del percorso di militanza sarebbe quella che ci aspetteremmo. Per contrastare la destra in un periodo storico così delicato è necessaria una figura ben più decisa, martellante, agli antipodi con il conservatorismo di Fratelli d’Italia. Non che Bonaccini sia un oscurantista, ma Schlein segnerebbe un punto di rottura più netto con la politica triviale della destra. E non solo per le ideologie, comunque da non sottovalutare in quanto determinanti per orientare il vento della nazione, ma anche e soprattutto per i temi. Schlein, quindi, da un lato spezzerebbe la tendenza di un PD sempre al maschile e, dall’altro, si avvicinerebbe a quelle fasce che il partito sembra aver dimenticato – se si considera che ormai i voti giungono dai grandi centri più agiati e non dalle periferie. Non bisogna sostenere Schlein in quanto donna o perché giovane: anche Meloni lo è. Il genere e il dato anagrafico devono essere accompagnati da un riscontro sul campo, e mentre Meloni agisce contro alcuni diritti delle donne ed è imbevuta di quella cultura maschilista che dagli esordi nel MSI ha sempre assorbito, Schlein può essere il ponte verso un futuro dove i principi egualitari non possono che essere le stelle polari di una politica nuova, quella che ormai il PD ha messo in cantina.
Bonaccini – che comunque non è uno sprovveduto – sarebbe inevitabilmente il vecchio che avanza, “l’uomo forte”, la versione più a sinistra della muscolarità di Salvini e Meloni. Non ci sarebbe una vera e propria frattura con il passato del partito, solo l’affidamento a un altro presunto salvatore della Patria. Non abbiamo però bisogno di un uomo della provvidenza, semmai di una persona immersa nel presente e attenta ai bisogni della comunità nazionale e internazionale, che possa uscire dagli schemi partitici della sopravvivenza e del tirare a campare. E non servono slogan di facile appiglio o attacchi frontali: nello stesso confronto televisivo su Skytg24, Schlein non ha mai attaccato Bonaccini, consapevole che anche il lessico è importante e va abbandonato quello della demonizzazione dell’avversario in favore di uno teso a spiegare progetti concreti. Schlein ha capito, infatti, che al momento è più utile far luce sulle pecche del suo stesso partito piuttosto che tirare acqua al suo mulino facendo la guerra all’avversario delle primarie. Autocritica, quella che un PD vanesio ha sempre rigettato. Lei invece non si è nascosta, perché è inutile puntare il dito sui difetti altrui se non si è in grado di analizzare le proprie nefandezze. In questo caso quelle dell’unico partito che non riesce nemmeno a fare il mestiere più facile del mondo: l’opposizione. Ciò che ha fatto salire alla ribalta il M5S, la Lega e adesso Fratelli d’Italia – spesso aggrappandosi al più bieco populismo – non è mai riuscito al PD, che già dai tempi dell’Ulivo non riusciva a contrastare nemmeno un bersaglio facile come Berlusconi, e che in cinque mesi di governo Meloni ha sonnecchiato in attesa di ritrovare se stesso.
Bonaccini è favorito contro Schlein, non si può negare. Probabilmente vincerà e potrà pure fare meglio di un Letta strategicamente deficitario e con poco mordente. Non ci sarà però nessuna rivoluzione nel centrosinistra e questa sarà l’ennesima occasione persa di rinnovare un contenitore politico che, in questa forma, non ha più nulla da dare se non l’illusione di un passato di cui si è indebitamente attestato un’eredità, senza mai dar prova di poter portare il peso dell’effige. In via del Nazareno resterà la foto di Berlinguer appesa alla parete e intanto tutte le Elly Schlein del partito verranno usate come specchietti per le allodole, perché la modernità non è di casa nel partito che preferisce Casini al cambiamento. Qualcuno ha persino proposto di cambiare nome al partito per dare una ventata di novità. Io un suggerimento ce l’avrei: Partito del Gattopardo, perché tutto cambia affinché nulla possa cambiare.