L’Italia di oggi rispecchia poco la “Repubblica fondata dalla Resistenza”. I vecchi partiti dell’arco costituzionale sono scomparsi, e persino i loro eredi postmoderni sono andati incontro a un rapido declino. Durante la settimana della Festa della Liberazione, il presidente Mattarella probabilmente inviterà i partiti a ispirarsi allo spirito di unità nazionale che ha contraddistinto l’era della Resistenza. Ma qualunque governo riuscirà a nascere nelle prossime settimane, difficilmente manterrà molto delle aspirazioni di quel periodo.
Quando l’ex partigiano Sandro Pertini divenne presidente 40 anni fa, la Prima Repubblica emersa dalla lotta partigiana versava già in condizioni critiche. Durante la sua presidenza, il Paese dovette fare i conti con gli strascichi dell’assassinio di Aldo Moro, il collasso del compromesso storico tra comunisti e democristiani e i sempre più numerosi attacchi terroristici dei fascisti, delle Brigate Rosse e di altri gruppi militanti. Intransigente nella propria condanna delle Br, Pertini parlava con l’autorevolezza di un uomo che aveva vissuto in prima persona la Resistenza. Era stato un personaggio chiave nella lotta contro il fascismo, reduce da tredici anni di reclusione e di confino sotto il regime di Mussolini, ma era anche il “presidente partigiano” – attivo dai tempi della Resistenza a Porta San Paolo, fino all’evasione socialista del gennaio 1944 e alla liberazione di Milano, il 25 aprile dell’anno seguente.
C’è un episodio all’inizio del suo mandato che illustra molto bene la peculiarità di un capo di Stato con una simile storia di militanza e reclusione. Quando le Br assassinarono il sindacalista Guido Rossa, il 24 marzo 1979, Pertini fu tra i 250mila che presenziarono al suo funerale. Chiese di poter parlare con i camalli del porto di Genova e, quando sentì che molti degli scaricatori simpatizzavano con le Br, rispose che era proprio quello il motivo per cui li voleva incontrare. L’intransigenza nei confronti delle Br lo portò, nel 1979, a rifiutare i negoziati nell’ambito del caso Moro, e tale atteggiamento emerse anche nel suo discorso agli scaricatori genovesi. Stando al racconto del suo collaboratore Antonio Ghirelli, Pertini “saltò letteralmente sulla pedana” e disse: “Non vi parla il Presidente della Repubblica, ma il compagno Pertini. Io le Brigate Rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!”
L’applauso suscitato da queste parole rifletteva la stima che i lavoratori nutrivano per i trascorsi del vecchio partigiano. Trascorsi che iniziarono a Ventotene, dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943, e che lo portarono fino a Roma. Nominato vicesegretario del Partito Socialista, formò un comitato di Resistenza con Riccardo Bauer, del Partito d’Azione, e il comunista Luigi Longo, entrambi conosciuti mentre si trovava al confino. Il futuro presidente partecipò alle prime operazioni della Resistenza armata contro l’invasione tedesca dell’8 settembre. Soldati sbandati, ufficiali patriottici e civili antifascisti combatterono duri scontri contro la Wehrmacht intorno alla capitale, sebbene l’Alto comando li avesse abbandonati. Dopo aver guadagnato una medaglia d’argento durante la Grande Guerra, ottenne una medaglia d’oro al valore militare per il ruolo giocato durante la battaglia cruciale a Porta San Paolo.
Pertini dovette presto fare i conti con il regime di occupazione nazista. Il 15 ottobre venne arrestato dalle SS insieme a Giuseppe Saragat. Furono detenuti nel terzo braccio tedesco del carcere Regina Coeli, in attesa di una morte apparentemente certa. Come ricordò poi Saragat: “Da quel braccio si usciva in un modo solo: per andare di fronte al plotone di esecuzione.” Questo nello scenario migliore: “Qualche volta si poteva uscire già morti per le percosse subite dagli aguzzini durante gli interrogatori.” I compagni di Pertini, però, non vollero rassegnarsi a un simile scenario. Anche il medico penitenziario Alfredo Monaco era un socialista, e con l’aiuto di un cancelliere del Palazzo di Giustizia riuscì a fare trasferire Pertini e Saragat al sesto braccio, ancora controllato dagli italiani. Da lì fu più semplice ingannare le autorità: dei documenti di scarcerazione falsificati e una telefonata del giovane avvocato Filippo Lupis (che finse di essere il Questore) permisero loro di tornare in libertà, il 24 gennaio 1944.
Fu un grande successo per i socialisti, ma quando Pertini tornò nel suo partito, questo stava già attraversando un periodo di crisi. Solo due giorni prima della sua liberazione, gli Alleati erano sbarcati ad Anzio – fatto che inasprì ulteriormente i dibatti degli antifascisti sul possibile passo successivo. Non era chiaro se l’arrivo degli Alleati nella Capitale implicasse il ritorno del Re, o se i partiti democratici potessero dichiarare autonomamente un nuovo governo. Tale incertezza diede il via a confronti accesi all’interno di un Partito Socialista che stava iniziando a ritrovare la propria direzione politica dopo due decenni di repressione. Il vicesegretario del partito, Carlo Andreoni, aveva più volte detto di essere turbato dall’atteggiamento passivo che il Comitato di Liberazione Nazionale ebbe nei confronti della monarchia, e dal fallimento dei socialisti nel contrastarlo. A gennaio Andreoni uscì dal partito per andare a formare un suo movimento partigiano autonomo.
Di fronte alla spaccatura degli antifascisti romani, Pertini si posizionò nel mezzo, supportando un fronte che comprendeva tutti i partiti democratici, ma che si rifiutava di riconoscere la legittimità del Re, di Pietro Badoglio e del Regno del Sud. Tenendo una linea analoga, il Partito Socialista raccomandò che il Cln si dichiarasse governo provvisorio, che dunque non si sarebbe più fondato sull’apparato monarchico ereditato dall’epoca fascista. Tale speranza venne infranta alla fine di marzo, quando il leader del Pci, Palmiro Togliatti, tornò da Mosca e annunciò che il proprio partito avrebbe aderito al governo Badoglio. Pertini, come altri socialisti, criticò duramente la svolta di Salerno, ritenendola un tradimento degli ideali di trasformazione portati avanti dai partigiani. La nuova democrazia sarebbe stata ricostruita partendo dalle vecchie fondamenta. Di fatto, però, i Socialisti e i loro alleati del Cln dovettero unirsi presto al nuovo governo, non avendo le risorse per formare una propria coalizione indipendente. Sandro Pertini non partecipò direttamente al nuovo governo, retto da un equilibrio precario di funzionari monarchici e di ministri scelti tra le fila dei partiti opposti al ritorno del Re. Sarebbe però rimasto un personaggio chiave della Resistenza, dalla partecipazione alla liberazione di Firenze fino al ruolo giocato come segretario del Partito Socialista nell’Italia occupata.
Mentre ricoprì la carica viaggiò per tutto il nord del Paese, arrivando persino in Francia e risultando una presenza decisiva per la liberazione di Milano. Dopo aver costituito una giunta comunale con Emilio Sereni del Pci e Leo Valiani, del Partito d’Azione, fu proprio Pertini, il 25 aprile del 1945, a trasmettere un discorso via radio in cui invocava uno “sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine.” Quella data sarebbe entrata nella storia come il momento della liberazione definitiva, quando il Cln per l’Alta Italia dichiarò la propria autorità sul resto del territorio controllato dai tedeschi. Oltre sette decenni dopo la si ricorda ancora come una giornata all’insegna dell’unità nazionale.
Il 25 aprile di ogni anno celebriamo lo spirito che fece sì che gli italiani si unissero in uno sforzo collettivo per difendere il territorio e le vite italiane dall’occupazione nazista e dai suoi complici fascisti. Ciononostante, la venerazione che le istituzioni nutrono per la Resistenza rischia di farla passare per l’oggetto di un superficiale consenso. Sebbene un uomo di Stato come Pertini avesse preso effettivamente parte all’organizzazione della lotta armata, questo non è altrettanto vero per la maggior parte degli altri leader della “Repubblica nata dalla Resistenza”. Cosa ancora peggiore, le commemorazioni del 25 aprile sono state utilizzate per richiamare all’”unità nazionale” proprio contro quegli ideali di trasformazione sociale diffusi tra le fila dei partigiani.
Cinque anni fa come oggi, arriviamo alla Festa della Liberazione senza sapere quale sarà il prossimo governo italiano. Nel 2013 il presidente Giorgio Napolitano, pronunciando il discorso del 25 aprile a Villa Tasso, un tempo “dimora” di Sandro Pertini, colse l’occasione per invitare i partiti a rifarsi al “coraggio, fermezza e senso dell’unità che furono decisivi per vincere la battaglia della Resistenza.” Enrico Letta, Mario Monti e Silvio Berlusconi furono senz’altro bersagli insoliti per un simile richiamo, essendo in trattative per formare una coalizione all’insegna dell’austerità. In realtà, gli ideali della Resistenza erano stati accantonati già nell’epoca della presidenza Pertini. La Repubblica riuscì a sopportare l’ondata di violenza politica che raggiunse l’apice nel 1980, ma sia l’ordinamento democristiano che la speranza comunista di rimpiazzarlo avevano cominciato a indebolirsi. L’humus sociale in cui si erano radicati i partiti della Resistenza si stava sgretolando, e lo stesso ordine della Guerra Fredda stava giungendo a termine.
E oggi ci troviamo a fare i conti con il collasso di quel mondo. Di sicuro la Repubblica di oggi rispecchia ben poco quella per cui hanno combattuto i partigiani; le forze politiche non si azzardano nemmeno a dire di avere l’ambizione o gli ideali di quell’epoca. E mentre il malessere sociale aumenta, i partiti che più ne traggono beneficio vedono la storia della Resistenza come semplice lascito di un sistema partitico in crisi, o si oppongono apertamente al consenso antifascista. Il 25 aprile molti italiani ricorderanno il ricordo di una grande lotta. Ma si tratta sempre più di questo: un ricordo.