Quando penso all’idea di democrazia del M5S non mi viene in mente un ”Parlamento aperto come una scatola di tonno”, come amava dire qualche tempo fa Beppe Grillo, ma una delle tante famiglie disfunzionali dei film di Gabriele Muccino. Anche nel Movimento urlano tutti, ma non è questa la similitudine. La metafora con il padre autoritario che mal tollera il dissenso, riguarda più l’atteggiamento con cui il partito-non-partito di Luigi Di Maio nega il dialogo con le altre forze politiche e la retorica con la quale il M5S dipinge l’idea di popolo italiano.
Una delle caratteristiche dei Cinque Stelle – che in questo usano l’arma del populismo come l’ex Cav e il suo “Me lo chiede il Popolo” e come il Pd renziano della rottamazione per conto della gente – è infatti quella di identificarsi con la quasi totalità o maggioranza del popolo italiano. ”Noi siamo il popolo sovrano” è uno degli slogan più amati dai suoi rappresentanti. Oppure: “Il popolo è il nostro unico lobbista”,“Faremo gli interessi del popolo italiano” e “Non provocate oltre il popolo”. Slogan che di volta in volta chiamano in causa “i cittadini” o “la gente”. Ma un movimento che raggiunge il 28% dei consensi dei votanti, secondo le ultime percentuali, può parlare come se rappresentasse la maggioranza del popolo italiano? Può cioè parlare da “popolare” piuttosto che da “populista”? E basta dire che tutti i partiti sono illegittimi, corrotti, impuri, o minoritari per cancellare automaticamente i voti e gli interessi degli altri elettori e degli altri italiani?
Credo che proprio il complicato rapporto tra i Cinque Stelle e il concetto di pluralismo democratico sia il punto più debole di una forza politica che in qualche modo ha portato anche degli elementi nuovi nello scenario italiano e che ha intercettato in maniera lungimirante molte esigenze di cambiamento autentiche dell’elettorato – tra queste, il desiderio di rinnovamento della classe politica e la richiesta di un nuovo rapporto tra quest’ultima e la morale.
Contemporaneamente, però, ha tradotto questi bisogni in un’ideologia che rischia di essere totalitaria e antidemocratica, perché antipluralista, dalla quale dobbiamo diffidare prestando attenzione proprio nel momento in cui si arroga il diritto di parlare per tutti e di cancellare ogni forma di dialogo con l’altro.
Dire “Noi siamo il Popolo” invece di “Noi siamo anche il popolo” – come sottolinea sia il politologo Jan-Werner Müller nel suo libro What is Populism sia Alessandro Dal Lago in Populismo digitale – ha infatti diverse conseguenze. La prima è che racconta della falsa omogeinetà della società. Una massa unita dagli stessi interessi e fatta della stessa natura sociale e politica. Una massa pura, priva di interessi specifici, competente su tutto, onesta per genesi e che per questo non ha bisogno dei corpi intermedi, di specialisti, o di rappresentanti.
La seconda conseguenza è che per tenere insieme una moltitudine così diversa di persone senza perdere consenso, il discorso politico e il fare politica passano sempre in secondo piano, nel senso di concretezza delle proposte, di compromessi fatti per ottenere la realizzazione del proprio indirizzo politico, di capacità di incidere e amministrare, rispetto all’etica assoluta dell’onestà e della moralità indefessa. Sono soprattutto le sentenze fuori dai tribunali – in questo non sono nuovi – il richiamo alla purezza d’animo e l’indignazione – almeno fino al prossimo scandalo rimborsi – a tenere insieme un elettorato così diverso.
La terza conseguenza è che un atteggiamento del genere – “Solo noi possiamo parlare e rappresentare le persone’”– non fa altro che polarizzare lo scontro su dei presupposti fuorvianti. “Con noi o contro di noi?”, “Con il popolo o contro il popolo?”, “Con il Bene o con il Male?”, “Con i tanti o con i pochi?”, è la narrativa principale con cui si scontra chiunque provi a criticare le ragioni dei Cinque Stelle. Ma questa è una narrazione propria del populismo, che fa della maniera dualista di concepire la società uno dei suoi pilastri. Una visione che però non appartiene affatto alla dialettica democratica. La democrazia, che è pluralista, è invece quel posto dove una guerra in modalità Highlander – “Ne rimarrà soltanto uno” – non solo non è necessaria, ma è anche pericolosa perché non fa altro che aumentare il contrasto sociale nella premessa che una e una sola ideologia possano trovarvi posto annullando di fatto tutte le altre.
C’è da dire anche che lo scontro politico acceso e il populismo non sono certo prerogativa dei Cinque Stelle. Anche la retorica del “prima gli italiani” leghista è fatta dello stesso populismo spicciolo, e praticamente tutti i partiti si sono fatti attrarre dai suoi linguaggi semplicistici ma accattivanti, a diversi livelli e con diverse intensità. Ma è con i Cinque Stelle che lo scontro è arrivato al punto da annullare totalmente la legittimità dell’avversario che siede in Parlamento e a negare, almeno in un primo momento, qualsiasi dialogo. Tutto bene così? No, assolutamente. Negare che il pluralismo sia un metodo di decisione collettiva ideato per tenere insieme le diversità senza violenza che non può prescindere dalla negoziazione e dal riconoscimento della varietà dell’elettorato, delle differenze di interesse degli elettori e dell’eterno gioco opposizione-maggioranza, credo rappresenti il vero lato oscuro dei Cinque Stelle e la caratteristica che li differenzia negativamente da altri leader antielitari – Sanders e Corbyn per esempio – che pur parlando secondo gli interessi della classe popolare non sono affatto antidemocratici e antipluralisti.
Ricordiamoci sempre però che sono stati i regimi totalitari a caratterizzarsi nella Storia per la cancellazione del pluralismo democratico, per la negazione di ogni forma di opposizione e per aver messo il partito sopra lo Stato e sopra i metodi di decisione democratici. Sono “istruzioni per l’uso” importanti, anticorpi da tenere presente in ogni caso.
Ora, le prossime elezioni rappresentano per il Movimento una concreta possibilità di abbandonare le storture del populismo, anche se per ora sembra che le due anime dei Cinque Stelle, populismo e prospettiva di governo, siano furbescamente sdoppiate in due leader che hanno il compito di mantenerle vive entrambe senza scegliere. Da un lato i comizi di Di Battista che interpretano l’animo più extraparlamentare ed eversivo del Movimento, dall’altra il più moderato Di Maio che dialoga con gli imprenditori. Sembra il gioco del poliziotto cattivo e di quello buono, il cliché di tanti film americani, e la strategia potrebbe persino funzionare.
Non è un buon motivo per non restare vigili. Perché è proprio dal populismo e da chi si arroga il diritto di parlare per tutti in questi termini, cioè semplificando la complessità e la pluralità dell’elettorato, sostenendo di essere l’unico a poter correttamente rappresentare la sua vastità e soprattutto trattandolo come una massa omogenea da unificare con moralismo, giustizialismo o xenofobia, che dobbiamo ben guardarci. Meglio invece diffidare, oggi come ieri, non dal popolo inteso come espressione della maggioranza o della classe popolare, ma da quell’ideologia che ne cancella ogni diversità e che pretende di sapere di default, senza dialettica democratica, cosa è meglio per ciascuno. Dire che popolo e populismo non sono la stessa cosa serve quindi per non far tornare echi parafascisti, totalitari e autoritari dei quali davvero dobbiamo avere ancora orrore specialmente in un momento come questo di fragilità estrema della nostra democrazia.