La recente storia politica italiana si basa su tentativi, spesso riusciti, di rendere credibile un paradosso. Ci stupiremmo tutti se la Chiesa nominasse come nuovo Papa una donna lesbica o se Viktor Orbán fondasse il partito “Forza Soros”. Eppure abbiamo assorbito, facendola passare come un’evoluzione arzigogolata, la transizione della Lega da partito secessionista a nazionalista.
La strategia attuata da Salvini per risollevare il Carroccio e rivitalizzare un partito agonizzante, preso quando aleggiava intorno al 4% dei consensi, non è altro che la storia di un’abiura. Occorreva rinnegare il passato della Lega, ma soltanto in superficie. Dunque defenestrare Bossi, ma dargli un posto sicuro al Senato e non denunciarlo per la vicenda dei 49 milioni di euro. Togliere la parola “Nord” dal nome, ma giurare fedeltà alla Repubblica con la cravatta verde e la spilla di Alberto da Giussano. Promettere vesti e facce nuove, e poi far sedere Calderoli al tavolo per il contratto di governo. Poteva sembrare un azzardo, una tattica suicida di politicanti alla deriva, la narrazione distorta a cui gli italiani non avrebbero mai creduto.
Invece ha funzionato, e noi ci siamo dimostrati un popolo senza memoria.
“Da questa sera alle ore 24 diventa operativa la Repubblica federale padana, inizia il passaggio dalle chiacchiere ai fatti”. Con queste parole, davanti al suo popolo munito di elmetto e ampolle con acqua del Po, radunatosi a Venezia, Umberto Bossi proclamò la Padania. Era il 1997.
“Il tricolore sarà il simbolo delle ambasciate napoletane. Se ci sarà il Napoli italiano che mette fuori il tricolore lo valuteremo come la bandiera di una ambasciata”. Pronunciando queste frasi, scandite dagli applausi e dagli schiamazzi di sedicenti vichinghi, si accorse di una bandiera italiana esposta su un balcone. Un atto di resistenza di una giovane donna, proprio di fronte alla marea verde dei leghisti. Bossi interruppe il protocollo del comizio – per quanto potesse essere definito “protocollo” la sequela di insulti segnata all’ordine del giorno – e urlò: “Il tricolore, signora, lo metta al cesso!”. Rincarò poi la dose durante un altro comizio, in provincia di Como, sentenziando: “Quando vedo il tricolore mi incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo”.
Inutile girarci intorno: i leghisti, per lo meno quelli duri e puri, non si sono mai sentiti italiani. Alle feste di partito uno dei cori più gettonati era: “Siamo padani, abbiamo un sogno nel cuore, bruciare il tricolore”. Il senso di appartenenza a una terra inventata (la Padania, appunto), non era altro che il rifiuto dell’identità nazionale. Non a caso, durante la festa della Repubblica del 2005, Roberto Calderoli affermò: “Oggi non c’è nulla da festeggiare, personalmente non ho mai sentito questa festa del 2 giugno”. L’anno prima il suo collega, Roberto Castelli, saltellava con spregio davanti al Parlamento cantando “Chi non salta, italiano è!”. Entrambi sono stati ministri della Repubblica italiana, che ci crediate o no.
Qui entra in gioco Salvini, con tutta la sua arguzia da mistificatore. La sua ragion d’essere politica, negli ultimi anni è stata quello di far credere che lui non c’entrasse nulla con quel losco passato, che fosse uscito con lo smoking bianco dal fango e dalla congrega dei suoi compari abbonati alle accuse di vilipendio. Creare una distinzione tra “lui” e “gli altri”, tra colui che nelle interviste si è sempre premurato di nominare Catanzaro, Foggia o Avellino – parole che suonavano straniere nella sua bocca – e quelli che invece quelle città le avrebbero volentieri annesse all’Africa.
Avendo individuato un pertugio nell’elettorato di centrodestra, ovvero lo spazio lasciato scoperto dal declino di Berlusconi e dall’inconsistenza dei partiti neofascisti, ci si è tuffato attingendo da quei temi che non gli erano mai appartenuti, a partire da un concetto di Patria vagamente mussoliniano su cui basare la sua nuova propaganda. Eppure, Matteo Salvini non è diverso dagli “altri”, dai figli di Pontida che hanno fatto dell’oltraggio alla nazione il loro vanto. La sua storia parla da sé.
Nel 2011 Salvini, ai microfoni della “Zanzara” di Radio24, dichiarò: “Il tricolore non mi rappresenta, non la sento come la mia bandiera. Il tricolore è solo la nazionale di calcio, per cui io non tifo”. Ma già nel 2015 indossava, con tronfia teatralità, il tricolore in tv, e diventare un tifoso della nazionale, almeno a parole e più per convenienza elettorale che per una conversione fuori tempo massimo.
Questo apparente bipolarismo non è altro che un’occasione politica, una furbizia da annoverarsi tra i contorsionismi in bilico tra un ideale e il suo opposto. Perché secessionismo e nazionalismo sono evidentemente due contrari, incompatibili per definizione e per natura.
Matteo Salvini è stato per cinque anni il direttore di Radio Padania, nonché conduttore di diverse trasmissioni dell’emittente radiofonica. Una di queste si chiamava Mai dire Italia, dove veniva ribadito l’odio viscerale per la nazionale di calcio. Durante la finale degli europei del 2000, Salvini tifava per la Francia, durante la semifinale dei mondiali del 2006, per la Germania. Questa estate ha dichiarato, durante i mondiali in Russia, di tifare per chiunque tranne la Francia.
“Come si cambia, per non morire”, cantava la Mannoia. Se non avesse attuato questa metamorfosi, Salvini oggi sarebbe in qualche bettola lungo il Po a cantare inni contro i napoletani. E non è detto che non lo faccia ancora, in privato.
Di certo non gli manca la flessibilità necessaria per seguire gli umori del popolo. Anche la sua grande battaglia contro gli immigrati, consumata in passato dalla Lega senza celare più di tanto i sottotesti xenofobi, ne è un esempio. Quando si scaglia contro di loro, usando il suo ruolo per dimostrazioni di forza a fini mediatici, vuole nascondere l’indole del leghista, l’avversione atavica di un partito che paragonava gli africani alle scimmie. Parla invece di difendere i confini della nazione, si erge a paladino dell’Italia sulla pelle di questi disperati che gli fanno, loro malgrado, da sua linfa elettorale. Se prima lo faceva perché fiero padano, nemico dei terroni, degli immigrati e dell’Italia, adesso lo fa strizzando l’occhio a un tricolore in cui non ha mai creduto, a una protezione idealizzata e non richiesta, a quei confini dentro i quali si è sempre sentito uno straniero. E continua a perseverare, per mantenere saldo anche il vecchio elettorato, quello del Nord più viscerale e chiuso in se stesso. Giusto lo scorso anno, in occasione della festa del 2 giugno, ha scritto ai sindaci e agli amministratori leghisti una lettera-direttiva, riassunta in questi punti: “Il 2 giugno tenetevi lontani da qualsiasi celebrazione. Non c’è nulla da festeggiare”. Nazionalista a intermittenza.
Le sirene del sovranismo, quei venti che fischiano sempre di più in Europa e nel mondo, gli hanno dato l’opportunità di aggrapparsi a questo espediente e mutare la sua pelle. Ha capito che detestare l’Italia, e continuare a inseguire i deliranti piani secessionistici, sarebbe stato l’ultimo chiodo sulla bara della Lega. Ha compreso dunque la convenienza di sostituire la felpa “Padania is not Italy” con quella dedicata a qualche paesino del Sud, per inventarsi una nuova immagine e ripulirsi dalla testa ai piedi.
Avere la Lega come primo partito d’Italia – così almeno dicono i sondaggi – è il sintomo di un’illogica confusione nazionale, di uno smarrimento collettivo che disintegra il ruolo della politica e innalza il vessillo del paradosso. È come se il leader turco Erdogan diventasse il nuovo leader del popolo curdo, o Farage andasse in giro con la bandiera dell’Europa. Inverosimile. Eppure, da noi è accaduto.
È bastato fingere di essere un altro partito e di avere un leader estraneo alle vergogne del passato, una bugia, un susseguirsi di toppe su buchi simili a voragini, un rapporto con gli elettori che si avvicina a una circonvenzione di incapaci. La conseguenza di queste tattiche non è altro che la presenza come ministro dell’Interno di un soggetto che ha più volte sputato sulla nostra nazione, e che ora pretende di rappresentarla. No, grazie.