La notte dell’8 novembre 2016, mentre venivano conteggiati i voti che avrebbero permesso al Collegio elettorale di eleggere Donald J. Trump alla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America, molti analisti politici e commentatori hanno cercato, forse troppo tardi, di dare una spiegazione legittima a quanto stava succedendo: vivisezionando la campagna della Clinton, immaginando come sarebbero andate le cose se a vincere le primarie fosse stato Bernie Sanders, o più semplicemente prendendosela in modo generico con i social network – senza entrare nel merito di quanto è stato poi reso pubblico sugli ads russi diffusi su Facebook.
Alcune testate sono state però più rapide a trovare la risposta: è stata colpa di Obama. L’ha detto il Guardian in un editoriale dell’ 11 gennaio 2017, che ha spiegato lo switchover da un presidente democratico a uno repubblicano – o più o meno tale – in questi termini: “Un’agenda politica orribile resa possibile dai fallimenti di quella precedente”. L’ha poi ribadito il Telegraph in un articolo originariamente pubblicato il 13 febbraio del 2016 e riproposto il 20 gennaio del 2017, in seguito alla vittoria di Trump. Nel pezzo, le responsabilità di Obama venivano ricollegate a interventi economici secondo l’autore Simon Heffer poco efficaci, una politica estera molto maldestra e un generico clima di aspettative poi (parzialmente) disattese.
Seguendo la stessa logica, si potrebbe dire che il trionfo dei democratici alle general elections dello scorso 7 novembre – si votava in numerosi Stati, tra cui Virginia, New Jersey, New York, Ohio e Maine – sia imputabile a un unico, fondamentale fattore: Donald J. Trump e la sua politica. Questo non dopo due mandati, ma dopo meno di un anno alla presidenza.
Per quanto possa sembrare un ossimoro, a far riguadagnare punti ai democratici – soprattutto in New Jersey e Virginia – sarebbero state proprio le politiche discriminatorie e la retorica sfacciata e arrogante del Presidente. Nella gran parte dei casi, tutto ciò che riprendeva aspetti del programma politico di Trump è stato rifiutato con decisione. Gli elettori ne hanno quindi prediletto l’opposto speculare, in quella che il Washington Post ha descritto come “la giornata politicamente migliore per i Democratici, da quando Obama è stato rieletto nel 2012”. I conservatori, infatti, avevano riportato vittorie decisive nelle elezioni del 2014, del 2015 e del 2016.
La vera protagonista di queste elezioni è stata probabilmente la Virginia, dove si votava anche per il nuovo governatore. Qui ha vinto per 8,9 punti percentuali il democratico Ralph Northam, medico veterano di 58 anni, che si è aggiudicato la carica portandosi a casa più voti di qualsiasi altro precedente candidato governatore in quello Stato. Il suo sfidante, Ed Gillespie, ha cercato invano di prendere le distanze da Trump, finendo per essere ripudiato non solo dai suoi elettori, ma dallo stesso Presidente, che dopo aver espresso il proprio endorsement su Twitter, ha avuto la prontezza di biasimarlo – sempre su Twitter – poche ore dopo, a sconfitta avvenuta.
Restando in Virginia, Danica Roem, ex giornalista 33enne, ha sconfitto il rivale repubblicano Robert G. Marshall, diventando la prima donna dichiaratamente trans a venire eletta in un congresso statale statunitense. Marshall, il suo avversario in carica da 26 anni (avendo servito 13 mandati), stando a quanto riportato da varie testate tra cui l’Independent e Quartz, si è autodefinito “il capo degli omofobi” della Virginia. Evidentemente questa immagine non è risultata vincente tra gli elettori. La vittoria diventa ancora più significativa se poi si pensa che Marshall, a gennaio 2017, aveva cercato di introdurre una proposta di legge transfobica, uno dei famigerati bathroom bill, che avrebbe concesso alle persone di utilizzare i bagni pubblici solo in base al sesso dichiarato sul certificato di nascita. Proposta di legge che è poi stata bocciata dai suoi stessi compagni di partito.
Sempre in Virginia, Hala Ayala ed Elizabeth Guzman diventano invece le prime donne di origine latinoamericana ad aggiudicarsi un posto nel Congresso della Virginia. E, altra grande sorpresa, come delegato del 50° distretto nel Congresso statale, è stato eletto Lee Carter, socialista democratico di appena 30 anni, nonché ex marine. Forse un preludio a una ricandidatura di Bernie Sanders alle presidenziali del 2020, o almeno si spera.
Una storia curiosa che arriva dal New Jersey, invece, è quella di Ashley Bennett, centralinista presso una linea telefonica di emergenze psichiatriche di 32 anni, che fino a martedì non aveva mai ricoperto cariche politiche. Tutto in realtà è stato messo in moto da John L. Carman, politico repubblicano presso la contea di Atlantic. Durante la Women’s March dello scorso marzo, Carman avrebbe preso in giro le dimostranti con la seguente battuta: “Chiedo soltanto, ma le donne che stanno marciando alla protesta torneranno in tempo per cena?”. La Bennett non ha particolarmente gradito, e sebbene non avesse potuto partecipare alla Marcia per impegni lavorativi, ha seguito la protesta in TV ed è rimasta tanto sbalordita dalla battuta di Carman da decidere di sfidarlo, candidandosi come democratica alle elezioni di Quest’anno, e vincendo. Ecco un bel piatto di “te lo sei cercato” servito ben caldo. O per citare Trevor Noah: “Carman, meet karma.”
Sempre il New Jersey ha eletto Phil Murphy, ex banchiere democratico senza alcuna precedente esperienza politica, che ha battuto di 13 punti il vice del governatore uscente – Chris Christie, famoso per aver preso il sole in una spiaggia che aveva precedentemente chiuso al pubblico, e per aver visto più di 130 concerti di Springsteen. Il margine è lo stesso della vittoria della Clinton alle presidenziali del 2016, ma è una consistente inversione di tendenza, se si pensa che, quattro anni prima, Christie era stato rieletto con un margine di 22 punti percentuali. I democratici si aggiudicano comunque il pieno controllo del Congresso del New Jersey.
Ugualmente in rotta di collisione con l’agenda politica trumpiana troviamo il Maine, che ha approvato un’estensione del programma federale sanitario Medicaid, nonostante la decisa opposizione dei repubblicani. La misura ha vinto con un margine di 22 punti, il che significa che 70mila cittadini a basso reddito avranno finalmente una copertura sanitaria. Tutto questo mentre la Trumpcare è rimasta arenata in Senato e l’Obamacare è più in forze che mai, nonostante l’attuale amministrazione abbia ripetutamente cercato di impallinarla.
La giustizia cosmica ha poi fatto il suo corso anche in Montana, dove il rifugiato liberiano Wilmot Collins, fuggito dalla guerra civile, ha sconfitto il sindaco della capitale Helena, in carica da quattro mandati e notoriamente contrario all’immigrazione. Dopo aver perso due fratelli in guerra, e dopo che la sua casa negli Stati Uniti è stata vandalizzata con le scritte “KKK” e “Tornatene in Africa”, Collins diventa il primo sindaco nero a essere eletto in quello Stato.
L’ultimo aneddoto di rivalsa arriva da Minneapolis, dove Andrea Jenkins, 56 anni, si è aggiudicata un posto nel consiglio comunale, prendendo circa il 73% dei voti nell’ottavo distretto della città. Jenkins è la prima donna afroamericana dichiaratamente trans a ricoprire un incarico pubblico negli Stati Uniti.
Storie simili hanno contrassegnato tutte le elezioni locali del 7 novembre 2017, ma oltre alle vittorie elettorali più peculiari e galvanizzanti, non bisogna dimenticare il ruolo cruciale dell’elettorato. Il caso della Virginia è paradigmatico: non solo l’affluenza è nettamente cresciuta dopo le presidenziali del 2016 (l’astensionismo dei democratici è stato un fattore cruciale nel portare Trump alla Casa Bianca), ma sono cresciute alcune sue componenti chiave: le donne bianche con un diploma universitario hanno preferito Northam su Gillespie, con 58 punti percentuali contro i 42 che si è aggiudicato il secondo. Fatto rilevante se si pensa che il margine di vittoria è due volte quello della Clinton nel 2016, con il 50% dei voti contro il 44% di quelli dei repubblicani. La percentuale di votanti afroamericani ha raggiunto il 21%, con l’aggiunta dei latinos si arriva a un 28% di votanti non bianchi: cifre importanti, considerato che i primi hanno preferito Northam per 33 punti percentuali, mentre gli Ispanici per 22 punti. Sempre dalla Virginia arriva un altro dato importante relativo all’elettorato: il 37% dei votanti si sarebbe infatti recato ai seggi solo per esprimere la propria opposizione a Trump, solo la metà (17%) per comunicarne il supporto. In generale, come ha scritto Politico, queste elezioni sono state “un messaggio per Trump“.
Commentando queste elezioni, Trevor Noah ha detto che il vero vincitore in questo caso sarebbe stato il karma. E visti gli esempi di Danica Roem, Wilmot Collins, Ashley Bennett e Andrea Jenkins, sembrerebbe proprio che Donald e la sua amministrazione abbiano finalmente incontrato il proprio. Rimane forse una sola nota dolente: il vero responsabile del nuovo afflato di vitalità dei democratici sembrerebbe proprio essere stato il primo anno di presidenza Trump.