È una tattica politica legittima cercare tra i ministri giallo-verdi quelli segretamente omosessuali, o bisessuali, e svelarne pezzi della vita privata per far esplodere le contraddizioni rispetto alla retorica pro-famiglia e omofoba propria del leghismo? Dovremmo fare outing al governo dei populisti? Fino a oggi, denunciare pubblicamente l’omosessualità di politici e uomini famosi, tirandoli fuori dall’armardio da cui non sarebbero mai usciti da soli, è sempre stato un atto condannato dalla maggioranza del movimento Lgbt italiano. E con buone ragioni: l’outing è una forma di violenza nei confronti di persone omosessuali tanto più efficace quanto più una società è omofoba. Utilizzare il pregiudizio contro gay e lesbiche per far campagne a favore dei diritti Lgbt porta poco lontano.
Se questo è generalmente vero, ci sono però casi specifici che ci permettono di derogare? Il governo giallo-verde è uno di questi? Intanto il gossip nei confronti del Movimento 5 Stelle è già partito, alimentato da persone molto lontane dal movimento Lgbt. Vittorio Sgarbi ha parlato della presunta omosessualità del nuovo leader del M5S in televisione, subito prima che Luigi Bisignani, ampiamente ripreso da tutti i giornali di destra, scatenasse il sospetto contro presunte lobby gay, “cerchi magici” che punterebbero occultamente a influenzare il movimento. La vicenda è esemplificativa dei rischi legati all’outing: invece di dissipare le nebbie intorbidisce le acque, contribuendo a una rappresentazione dell’omosessualità negativa, non dissimile al sospetto che ancora talvolta grava sugli “ebrei ricchi e potenti”.
L’outing è una pratica che nasce negli Stati Uniti. Ne parla un articolo del Time già nel 1990 intitolato “Ethics: Forcing Gays Out of the Closet”. “Frustrati dalla lentezza con cui vengono approvate leggi a tutela dei diritti civili dei gay e dall’indifferenza del governo rispetto all’epidemia di Aids,” scrive William A. Henry III, “un numero crescente di attivisti adesso rivendica un diritto morale a costringere le persone a dichiarare la propria omosessualità, in parte per forzarli ad aiutare il movimento e in parte per annientarli quali oppositori. Gli obiettivi principali sono i pubblici ufficiali e i leader religiosi che potrebbero avere una vita privata omosessuale ma che pubblicamente sostengono misure contro i gay a tutela della loro carriera”.
Negli Usa non si contano le carriere politiche, soprattutto repubblicane, stroncate da gossip su vere o presunte relazioni omosessuali. Ma si dirà, ed è vero, che negli Usa il confine tra pubblico e privato è più blando. Lo si vede, ad esempio, nel modo con cui viene affrontata la questione della salute dei politici: durante l’ultima campagna elettorale sapevamo tutto sulle difficoltà di Hillary Clinton – la polmonite, i timori per una malattia neurologica – e adesso, allo stesso modo, medici e media compulsano i video del presidente Trump alla ricerca di malattie degenerative. E se negli Stati Uniti c’è stato un movimento di opposizione ai diritti gay molto rumoroso e verbalmente violento, soprattutto negli ambienti evangelisti, in Italia per anni si è dovuto principalmente combattere contro la congiura del silenzio.
Entrambe le cose, però, stanno cambiando. La lotta di Emma Bonino – ma anche di Nadia Toffa – contro il tumore, lotta che diventa argomento di dibattito sui media, esemplifica un cambio di sensibilità sulla frontiera di cosa è pubblico e cosa è privato. E i due film di Sorrentino su Berlusconi cosa sono se non un gigantesco outing sulle preferenze sessuali dell’ex Cavaliere, preferenze che da almeno dieci anni sono interamente parte del dibattito pubblico nazionale?
D’altra parte, per la prima volta nel nostro Paese un partito – la Lega – fa dell’omofobia un tratto identitario della sua piattaforma politica, imbarcando tra i suoi deputati esponenti di primo piano della galassia reazionaria pro-famiglia come Simone Pillon e stringendo importanti legami con una rete internazionale che ha nella Russia di Putin il suo centro e che mira a compattare le forze anti-liberali nel nome dell’opposizione ai diritti Lgbt e delle donne.
Oggi quel partito si prepara ad andare al governo, un suo esponente potrebbe diventare ministro degli Interni, posizione da dove, per fare un esempio, può intervenire sulle scelte dei Comuni rispetto alla registrazione all’anagrafe dei figli di persone omosessuali. Nel contratto di governo non sembra esserci una sola parola che lasci immaginare l’intenzione di intervenire nel campo dei diritti Lgbt con misure repressive, o reazionarie rispetto al quadro attuale, ma se mai dovessero esserci, si potrebbe evitare di ricorrere alla diffusione di notizie relative a situazioni contraddittorie tra dichiarazioni pubbliche e vita privata all’interno di un consiglio dei ministri che quelle misure deve discutere e approvare?
Una sentenza della Cassazione del 2012 conferma quello che tutti gli studenti di giornalismo dovrebbero già sapere: un’intromissione nella vita privata è ammissibile solo quando ci sia, nella divulgazione della notizia, un evidente interesse pubblico. Tuttavia i confini dell’interesse pubblico si spostano velocemente nel momento in cui il leader della Lega Matteo Salvini posta sui social network una foto della sua compagna Elisa Isoardi a casa che stira e, così facendo, ci racconta che la sua è proprio una famiglia tradizionale, dove la donna sa stare al suo posto. Se questa, per scelta dello stesso leader della Lega, diventa una dichiarazione politicamente rilevante, allora lo è anche il fatto che un ipotetico ministro del nuovo governo decida di non postare la foto sua e del suo compagno a spasso con il cane, non per legittima scelta personale ma perché immagine politicamente inopportuna ai tempi del governo populista.
Ci sono almeno due casi su cui dovremmo ragionare molto laicamente, uno francese e uno italiano. Quello francese è la vicenda Philippot.
Florian Philippot è stato – prima di dimettersi dopo la sconfitta alle ultime presidenziali – l’uomo che ha creato il fenomeno Marine Le Pen, l’artefice del nuovo Front National. Nel 2014 una rivista scandalistica, Closer, lo ritrasse in prima pagina mano nella mano con il suo compagno giornalista, mentre camminava per le strade di Vienna sotto il titolo “Sì all’amore per tutti!”, mettendo così fine al silenzio ipocrita sul suo orientamento sessuale, che lui non aveva mai negato ma nemmeno dichiarato pubblicamente. Lo scoop fu condannato da destra e da sinistra, con poche eccezioni.
Ian Brossat, un assessore comunista di Parigi, commentò: “Si dica quel che si dica, ma il miglior rimedio contro l’outing è sempre il coming out…”. Parole sagge, ma non si può obbligare nessuno. E però l’orientamento sessuale di Philippot è un dato politicamente neutro?
Al contrario di altre forze nazionaliste e populiste europee, come la Lega in Italia, oppure Orban in Ungheria, il
di Marine Le Pen non ha mai abbracciato pienamente la retorica omofoba, nonostante Manif pour tous abbia il suo cuore proprio in Francia e il cattolicesimo reazionario sia un bacino di voti importante. Possiamo discutere pubblicamente e liberamente del fatto che questo sia dovuto anche all’influenza di Philippot o questo deve rimanere un discorso fatto a mezza bocca a tutela della vita privata di quello che era il vicepresidente del Front National?La vicenda italiana riguarda invece l’ex presidente della Regione Roberto Formigoni, il Celestissimo che nella sua stagione di parlamentare twittava contro “checche varie” alle prese con “crisi isteriche gravi” durante la discussione della legge Cirinnà. Personalmente non ho elementi per discettare dell’orientamento sessuale di Formigoni, e tuttavia non mi pare del tutto fuori luogo ricordare l’imbarazzo dei giornalisti nel raccontare le vicende che hanno poi portato alla condanna in primo grado del politico a una pena di sei anni di reclusione nel processo per il caso Maugeri. I giudici indagavano, tra le altre cose, sulla compravendita di una villa in Sardegna che era stata acquistata da Alberto Perego per 3 milioni. Parte dei soldi per l’acquisto gli erano stati girati dallo stesso Formigoni. Chi è Perego? Nel 2012 Paolo Colonnello, uno dei migliori giornalisti di giudiziaria del nostro Paese, per raccontarlo impiega un attacco di cinquecento battute per formulare questa descrizione: “È sempre stato l’interfaccia di Roberto Formigoni: Alberto Perego, l’amico fidato, il compagno di viaggi, vacanze e avventure, il coinquilino discreto con cui condividere casa e fede come ‘memores domini’, il collaboratore fidato. Per la Procura, adesso, anche qualcosa di più: un vero e proprio complice, anzi, un coindagato come si evince dall’invito a comparire recapitato l’altro ieri al Governatore della Lombardia per corruzione aggravata”.
Se Formigoni non avesse partecipato plurime volte al Family Day – in un caso spedì il gonfalone della Regione Lombardia – non ci sarebbe molto da discutere sui rapporti tra lui e il suo collaboratore e coinquilino, ma la verità è che Formigoni, nel suo ruolo politico, ha iniziato a solleticare un sentimento omofobo che è cresciuto in Lombardia e anche altrove diventando uno dei bacini di riferimento del nuovo leghismo. A quella vicenda, che era interamente politica, non sarebbe stato legittimo rispondere allora questionando sulla distanza tra la retorica pubblica e vita privata in maniera più netta di quanto non sia stato fatto? Anche solo sottolineando come chiunque, meno ricco e potente di lui, nelle stesse circostanze, sarebbe stato vittima di quel pregiudizio pubblico che si alimenta anche con i tweet contro “le checche” e i gonfaloni sbandierati al Family Day. Questo a prescindere dall’orientamento sessuale reale di Formigoni, che non conosciamo.
Anni dopo la questione non può che riproporsi amplificata, qualora le pulsioni illiberali della Lega non saranno frenate all’interno del governo da un M5S che, pur con tutte le sue ambiguità, è comunque il partito da cui viene una delle giunte comunali più gay friendly d’Italia, quella di Torino. Speriamo tutti che non serva, ma se il Viminale leghista, dopo gli immigrati, metterà nel mirino il mondo Lgbt, qualcuno si chiederà se non sia arrivato il momento di una lotta politica fatta a colpi di outing. E la risposta non può che essere un no scontato in nome del rispetto della vita privata dei politici.