Quando si pensa alla morte di una democrazia è facile cadere automaticamente nell’immagine di un golpe; un colpo di Stato quasi teatrale nella sua messa in atto, il cui impatto emotivo è talmente forte sulla psiche pubblica da finire per rappresentare l’unica modalità di sovversione di un ordine democratico.
Questi eventi epocali però non capitano improvvisamente, senza essere giustificati e preparati da dinamiche politiche antecedenti: molte volte sono la conseguenza, più o meno spettacolarizzata, di un lungo processo di erosione delle istituzioni democratiche, che si verifica all’interno dell’ambito della legalità. Non sono i colpi di Stato che uccidono le democrazie. Semmai, le democrazie si logorano da sé, aprendo le porte a istanze e figure che, piegando a poco a poco le regole del sistema a proprio favore, ne stravolgono completamente il volto.
In How Democracies Die Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, politologi e professori di Scienze del governo all’Università di Harvard, analizzano questo processo di erosione endogena di queste forme di governo, individuando quattro indicatori chiave per l’identificazione di un politico o di partiti antidemocratici: è il caso di preoccuparsi se questi rigettano, a parole o nei fatti, le regole di funzionamento di un sistema democratico; se negano la legittimità degli avversari; se tollerano o incoraggiano l’utilizzo della violenza; se mostrano la volontà di limitare la libertà e i diritti civili degli avversari, media inclusi.
Levitsky e Ziblatt riportano sia esempi storici che recenti, dall’Argentina di Perón alla Turchia di Erdogan, dalla Germania nazista all’Ungheria di Orbán, cercando di dedurne una matrice applicabile all’attuale “recessione democratica” globale, come descritta dal politologo della Stanford University Larry Diamond. Le loro conclusioni vengono logicamente applicate allo scenario partitico statunitense, ma rimangono di rilievo per la maggior parte delle democrazie occidentali.
Secondo i due studiosi, la discesa verso regimi autoritari avviene a piccoli passi, spesso ritenuti legittimi dalle stesse istituzioni. Queste iniziative, molto frequentemente, vengono giustificate come tentativi di migliorare un ordinamento democratico: eliminando la corruzione, rendendo l’apparato giudiziario più efficiente, oppure “ottimizzando” il processo elettorale. E così la transizione politica diventa molto più insidiosa e difficile da fermare in tempo utile, poiché non esiste un preciso momento in cui un individuo o un partito diventa antidemocratico in modo manifesto. Sono spesso élite e partiti del mainstream politico che mancano di esercitare il ruolo di custodi e garanti dell’ordinamento corrente e finiscono per cooptare e normalizzare istanze chiaramente antisistema e populiste. Sperando di recuperare la propria presa sull’elettorato, partiti che non sono più in grado di interpretare le necessità di una società in transizione finiscono per aprire le porte a candidati dai programmi politici nebulosi, ma che in virtù del proprio orientamento manifestatamente populista si auto-conferiscono il ruolo di “voce del popolo”, giocando sull’emotività, le paure e i rancori della gente. Una volta concesso l’ingresso nel mainstream politico agli estremismi, le istituzioni democratiche finiscono facilmente per diventare armi nelle mani di chi è al potere, da puntare contro l’opposizione.
Sono tre le tappe obbligatorie, secondo Ziblatt e Levitsky, affinché un politico autoritario consolidi il proprio potere. Prima di tutto deve premurarsi di porre sotto il proprio controllo “gli arbitri” del gioco politico: il sistema giudiziario, l’apparato di intelligence, le forze dell’ordine, per citarne alcuni. Intese come forze neutrali a difesa dell’ordinamento politico, una volta politicizzate a proprio favore queste istituzioni finiscono per garantire l’impunità dell’autocrate. Levitsky e Ziblatt citano l’esempio dell’Ungheria, dove Viktor Orbán ha ampliato la Corte Costituzionale a 15 membri, modificando poi le norme per la nomina dei giudici, così che il suo partito, Fidesz, potesse riempirla di magistrati fedeli alla linea di governo. La mossa successiva consiste nello spingere ai margini dello scacchiere i principali avversari politici – operazione estremamente delicata da compiere, se non si vogliono attivare i campanelli d’allarme dell’opinione pubblica. Le moderne autocrazie non cancellano completamente ogni traccia di dissenso: si limitano a infliggere colpi esemplari contro alcuni avversari, disincentivando gli altri dall’esporsi. Con il controllo sull’apparato giudiziario è ovviamente tutto molto più semplice.
L’esempio attualmente più paradigmatico, secondo gli autori, arriva dalla Turchia di Erdogan: il colosso delle telecomunicazioni Doğan Yayın controllava circa il 50% del mercato dei media turchi, tra cui il giornale più letto del Paese, Hurriyat. Unico problema: le emittenti gestite dal gruppo erano tendenzialmente laiche e liberali, caratteristica che le metteva in rotta di collisione con il programma dell’AKP, il partito del Primo ministro. Il problema si è risolto nel 2009, quando il governo ha multato Doğan Yayın per 2.5 miliardi di dollari in seguito a una presunta evasione fiscale. La somma superava quasi il valore netto della società, che si è trovata costretta a vendere gran parte dell’impero mediatico. Gli acquirenti? Imprenditori fedeli all’AKP. Meccanismo seguito più volte anche da Putin nei confronti di emittenti televisive e di oligarchi a lui non favorevoli. Bastano un paio di “punizioni” esemplari di questo tipo per indurre all’autocensura gran parte dell’opposizione rimanente. A questo punto un leader anti-democratico consolida il vantaggio acquisito cambiando le regole del gioco: il partito Fidesz di Orbán, dopo essersi aggiudicato una maggioranza di due terzi nelle elezioni del 2010, ha sfruttato il vantaggio per riscrivere la Costituzione e modificare le leggi elettorali. Risultato: nel 2014 Fidesz manteneva la maggioranza di due terzi, sebbene le preferenze conquistate dal partito fossero scese dai 53 punti percentuali del 2010 al 44.5%.
Molti politologi si chiedono se stiamo davvero assistendo a una “recessione democratica”. La verità è che il numero di governi democratici non è diminuito negli ultimi anni. Piuttosto, è rimasto stabile dopo il picco del 2005. La spinta della terza ondata di democratizzazione – iniziata nel 1974 con la Rivoluzione dei garofani in Portogallo – si sta lentamente spegnendo. E la colpa non è da imputare a un nemico esterno, ma agli stessi attori interni ai regimi democratici. La lotta politica è ormai diventata un gioco a somma zero, in cui un partito non accetta di riconoscere la legittimità delle posizioni dell’altro. Il principio di mutua tolleranza, norma basilare per il funzionamento di un ordine democratico, viene accantonato, lasciando spazio a ostruzionismo e intransigenza. La società è sempre più spaccata in fazioni antagoniste e concorrenti, e il dibattito politico ha ormai preso tinte identitarie che rendono la reciproca accettazione un miraggio. Le emergenze sociali ed economiche dei primi anni 2000 hanno fornito innumerevoli pretesti a governi illiberali per erodere lo spazio delle libertà civili – ironicamente – in nome della salvaguardia della democrazia. La politica dello shock, come l’ha definita Naomi Klein, o dell’emergenza, è una tattica di governo da manuale, il cui uso nell’ultimo periodo è diventato sempre più frequente, spianando la strada agli attuali Trump, Erdogan, Orbán. La grande ironia di questo momento storico è che la principale minaccia per la democrazia non arriva da fuori, da un nemico “altro” o esterno, ma dalla democrazia stessa.