Nei mesi iniziali della Prima Guerra Mondiale, quando lo sciovinismo che corrodeva l’Europa era all’apice, la poetessa Dorothea Hollins della Women’s Labour League propose di costituire una “forza di spedizione femminile in missione di pace”, composta da 1000 donne, che attraversasse i campi di battaglia del continente e si interponesse tra gli eserciti in lotta nelle trincee. Il grande piano di Hollins non si concretizzò, ma non era stato concepito dal nulla; l’aveva alimentato un secolo di attivismo per buona parte fondato sull’amore materno. O, come scrisse Helena Swanwick, un’altra attivista per la pace, nutrito dalla preoccupazione condivisa che in guerra “le donne muoiono e vedono i propri figli morire, ma la loro non è gloria; è solo orrore e inesprimibile vergogna”.
Swanwick aiutò a fondare la Lega Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà, un’organizzazione finalizzata a eliminare le cause di conflitto. Sperava che in un futuro non troppo lontano nel mondo non sarebbe rimasto nemmeno un soldato. Molti attivisti erano convinti che se le donne fossero state al potere, non ci sarebbero state guerre. Ma quanto è vera questa affermazione? L’incidenza di conflitti violenti cambia quando una donna sale al potere, o quando aumenta la loro percentuale di rappresentanza parlamentare? In che modo le donne generano guerre?
Se facessi queste domande ad alta voce, non passerebbe un minuto prima che qualcuno nominasse Margaret Thatcher, il Primo ministro inglese che diede inizio a una guerra nelle Falkland, vista con il massimo favore in patria e in grado di portarla a stravincere alle elezioni del 1983. Ma la Thatcher non è sicuramente l’unica donna al mondo riconosciuta per la sua bellicosità. Pensate a Budicca, la regina guerriera degli Iceni, tribù dell’Inghilterra orientale, che guidò una rivolta popolare contro gli invasori romani; o a Lakshmi Bai, regina di Jhansi e condottiera dell’ammutinamento indiano del 1857-58 contro gli inglesi; o anche a Emmeline Pankhurst, che guidò le suffragette inglesi in una campagna militante di scioperi della fame, incendi dolosi e finestre rotte; poi, nel 1914, divenne un’accalorata sostenitrice dell’entrata in guerra del Regno Unito.
Ma questi esempi sono solo aneddoti, perché nel corso della storia i leader donna sono stati estremamente rari. Tra il 1950 e il 2004, stando ai dati raccolti da Katherine W. Phillips, professoressa di Leadership ed etica alla Columbia Business School, su 188 Nazioni, solo 48 capi di Stato – meno del 4% di tutti i leader – sono state donne. La cifra include 18 Presidenti e trenta Primi ministri. In due Paesi – l’Ecuador e il Madagascar – i rispettivi capi di Stato, di sesso femminile, hanno servito per due miseri giorni prima di essere rimpiazzate da un uomo.
Dato un campione così piccolo, ha senso chiedersi se le donne siano meno bellicose degli uomini, se messe in posizione di potere? L’antropologa medica Catherine Panter-Brick, che dirige il Programma di conflitto, resilienza e salute presso il MacMillan Center for International and Area Studies all’Università di Yale, dice di no. “Una domanda di questo tipo stereotipizza i ruoli di genere e dà per scontato che la leadership sia una dinamica semplice”, dice. Forse si riferisce a pensatori come Steven Pinker. Ne Il declino della violenza (2013), uno studio sullo sviluppo della violenza nel corso degli anni, Pinker scrisse: “Le donne sono state, e saranno, la forza pacificatrice”. Questa supposizione non sempre si basa su dati reali, dice Mary Caprioli, professoressa di Scienze Politiche presso la University of Minnesota Duluth.
Affiancata da Mark A Boyer della University of Connecticut, Caprioli ha contato dieci crisi militari nel XX secolo che coinvolsero quattro donne leader (sette degli episodi esaminati sono stati gestiti da Golda Meir, Primo ministro israeliano dal 1969 al 1974). Secondo loro, per valutare il comportamento dei capi di Stato donna durante fasi di crisi, serve un campione più vasto – “che la storia non può fornire”.
Oeindrila Dube, professoressa di Studi di conflitti globali alla University of Chicago, e S. P. Harish della New York University, hanno studiato quattro secoli di avvicendamento tra re e regine europei. Nel loro paper, non ancora dato alle stampe, hanno esaminato i regni di 193 monarchi in 18 sistemi di governo tra il 1480 e il 1913. Sebbene solo il 18% dei regnanti fossero donne – cosa che ha reso la loro analisi meno affidabile sotto un profilo statistico – i due studiosi hanno rilevato che i sistemi governati da regine avevano il 27% delle probabilità in più di entrare in guerra a seguito di un attacco, forse perché venivano percepiti come più deboli.
Il timore di apparire fragili, secondo Caprioli, tocca anche le donne attualmente al governo. Questo le porta, forse, a compensare in modo eccessivo in tema di sicurezza e difesa. Caprioli fa notare che “le donne che emulano uomini”, come la Thatcher, la Meir, e il Primo ministro indiano Indira Gandhi (1980-84) – che sostenne di essere un “umano biforme”, né uomo né donna – hanno più probabilità di essere guide politiche di successo. Devono peraltro fare i conti con gli stereotipi negativi coltivati dalle proprie controparti di sesso maschile: ad esempio, Yahya Khan, ex presidente del Pakistan (1969-71), disse che avrebbe risposto con meno violenza nella guerra indo-pakistana del 1971 se l’India fosse stata governata da un uomo. “Se quella donna [Indira Gandhi] pensa di potermi intimidire, mi rifiuto di lasciarglielo fare”, disse.
Dube e Harish hanno rilevato che era molto più probabile per le donne fare il primo passo in un conflitto, se condividevano il potere con uno sposo, come nel caso di Isabella I e Ferdinando V, i quali co-governarono sul Regno di Castiglia e Léon tra il 1474 e il 1504. Un esempio degno di nota è poi quello di Caterina la Grande, che divenne Imperatrice di Russia nel 1762 dopo che il marito Pietro III venne assassinato, le cui campagne militari ampliarono i territori russi di 520mila chilometri quadrati, riuscendo a incorporare la Crimea e buona parte della Polonia.
Perché le donne possano finire alla guida di uno Stato, spesso è necessario che inizino dalla partecipazione politica – candidandosi per il Parlamento statale o nazionale, dirigendo campagne elettorali, organizzando gruppi femminili perché le donne coinvolte possano a loro volta presentarsi come candidate. Nel 2017, la percentuale media di donne in Parlamento è pari al 23.3% – un avanzamento del 6.5% rispetto all’ultimo decennio. Questo aumento è significativo: i dati di Caprioli mostrano che, quando il numero di donne in Parlamento aumenta del 5%, è cinque volte meno probabile che uno Stato ricorra alla violenza per gestire una crisi internazionale (forse perché le donne tendono ad applicare un “metodo collettivo o di consenso” alla risoluzione dei conflitti).
È inoltre più verosimile che si giunga a una pace duratura dopo i conflitti, se le donne sono invitate ai tavoli di negoziazione. Sebbene il numero di donne coinvolte nelle trattative di pace sia infimo (uno studio delle Nazioni Unite ha rilevato che solo il 2.4% dei mediatori e il 9% dei negoziatori sono donne, le quali costituiscono solo il 4% dei firmatari di 31 processi di pacificazione), l’inclusione delle donne può fare una grossa differenza. La pace ha più probabilità di durare: un’analisi fatta dalla no-profit statunitense Inclusive Security su 182 accordi di pace firmati tra il 1989 e il 2011 ha rilevato che un trattato ha il 35% di possibilità in più di durare almeno 15 anni se delle donne vengono incluse come negoziatrici, mediatrici e firmatarie.
Le donne sono ottime mediatrici e negoziatrici proprio grazie a qualità che sono tradizionalmente percepite come femminili e materne. Nell’Irlanda del Nord, in Somalia e in Sud Africa, le donne che hanno partecipato ai processi di pace si sono guadagnate la reputazione di alimentare il dialogo e di coinvolgere tutte le parti in causa. Spesso, sono viste anche come broker oneste, più affidabili e meno intimidatorie, poiché agiscono al di fuori delle strutture di potere formale. E tuttavia, nonostante quest’immagine di gentilezza e malleabilità, le loro azioni molte volte rispecchiano idee diametralmente opposte. Nel 2003, l’attivista per la pace liberiana Leymah Gbowee capitanò una coalizione di migliaia di donne musulmane e cristiane che, a suon di picchetti, preghiere e digiuni, contribuì a porre termine a una brutale guerra civile, iniziata 14 anni prima. Soprannominata “una guerriera di pace”, Gbowee ha condiviso il Premio Nobel per la pace con altre due attiviste.
Termini come “guerriero”, “armi” e “rivoluzione” spesso vengono utilizzati per gruppi che si battono per la pace, tra i quali le donne continuano a essere “rappresentate in maniera sproporzionata”, secondo l’ONU. In Israele, l’organizzazione Women Wage Peace programma delle proteste volte a fare pressione sul governo e a spingerlo verso un accordo di pace attuabile. In Argentina, le “Madri di Plaza de Mayo” hanno rivoluzionato l’idea della maternità, con dimostrazioni per la scomparsa dei propri figli durante la “guerra sporca” argentina, avvenuta dal 1977 al 1983, trasformando l’essere madri da un ruolo passivo a uno di forza pubblica.
La “militarizzazione” di concetti tradizionali legati alla femminilità è stata anche una componente notevole del Women’s Peace Camp di Greenham Commo, nel Regno Unito. Dopo aver dato vita nel 1981 a una protesta contro l’arrivo di 96 missili Tomahawk in una base di aviazione militare americana nel Berkshire, queste donne circondarono e tagliarono le recinzioni della base, scavalcarono la barriera vestite da orsi di pezza e attaccarono vestiti da neonato, biberon, pannolini e foto di famiglie al filo spinato. La loro battaglia non fu meno militante della guerra di Thatcher nelle Falkland, la quale liquidò però le donne come “un gruppo di eccentriche”.
Sembra che le donne, sia che combattano per la pace o per la guerra, debbano anche contrastare l’assunto secondo cui, per prime, sono per natura passive, deboli o “pittoresche”. La storia ci mostra come ciò non sia vero e che, nel caso di Isabella I e di Ferdinando V, sappiano anche essere spietatamente crudeli: non solo la coppia di regnanti guidò la conquista spagnola del Regno Islamico di Granada nel 1492, cacciando dal territorio sia musulmani che ebrei; torturarono anche coloro che vi erano rimasti, li convertirono al cristianesimo o, in alcuni casi, li misero al rogo.
E anche se la loro storia personale suggerirebbe il contrario, non sempre le donne rimangono pacifiche: Aung San Suu Kiy, leader de facto del Myanmar e destinataria del Premio Nobel per la pace del 1991 “per la sua lotta non violenta per la democrazia e i diritti umani”, è stata ampiamente condannata per non aver denunciato l’esercito nazionale per la sua campagna di pulizia etnica contro il popolo perseguitato dei Rohingya, una minoranza musulmana dello Stato settentrionale birmano di Rakhine. Secondo Human Rights Watch, dal 25 agosto 2017 più di 400mila musulmani rohingya si sono rifugiati in Bangladesh, per fuggire allo sbarramento di roghi, atrocità e stupri messo in atto dall’esercito.
Come fa notare Caprioli: “Le donne al potere possono essere energiche, di fronte a situazioni internazionali violente, aggressive e pericolose.” Ma possono anche essere battagliere nella loro lotta per la pace. E, di fatto, liquidare le donne come intrinsecamente pacifiche altro non è che uno stereotipo bello e buono. Come scrisse Swanwick in The Future of Women’s Movement (1913): “Intendo confutare del tutto l’assunto che sta alla base delle conversazioni femministe di questi anni.” Cioè, “l’assunto secondo il quale gli uomini sono sempre stati i barbari che amano la forza fisica, e che solo le donne sono civilizzate e civilizzatrici. Non ci sono prove di questo nella letteratura o nella storia”.
Questo articolo è stato tradotto da Aeon.