Era finito col diventare quasi una figura cinematografica: la nemesi del protagonista in certi thriller di serie b. Quella che non sapevi mai se fosse stata sconfitta sul serio. Quella che ti aspettavi sarebbe spuntata fuori da qualche altra parte. Sotto altre spoglie. In un finale che non vuole arrivare mai.
Dispiace per la metafora grossolana, ma prima del 4 marzo Massimo D’Alema aveva fatto di tutto, ma proprio di tutto, pur di allontanare gli elettori. Incarnazione del reggente di partito che non accetta il tramonto, alla continua ricerca di affermazione tra poltrone e microfoni, sorda ai richiami di un mondo che ne invoca la pensione.
Forse bisognerebbe ripercorrere davvero le contraddizioni e le premonizioni di D’Alema, provando a vederle non solo come un grande magma scomposto, scorso lungo oltre quarant’anni di politica, ma come il riflesso della storia di un Paese, dei suoi brevi anni d’oro e poi del suo pesante, inarrestabile e schizofrenico declino. Morto il leader Maximo, viva D’Alema? Non proprio. Diciamo, un elogio funebre per un bipolarismo ideologico che non potrà più esistere.
Basta cominciare da un flashback di mezzo secolo fa, a Pisa, quando D’Alema è uno studente di Lettere e Filosofia alla Normale – già iscritto al Pci dall’età di quattordici anni, già elogiato come enfant prodige da Palmiro Togliatti. Arriva il Sessantotto, con tutta la sua burrascosa ventata di innovazione e di disordine, e lui ne è travolto insieme a Fabio Mussi, compagno di studi e amico per una vita. Nelle austere sale dell’università si organizza la protesta. I due discutono contro regolamenti percepiti come ingiusti, si esercitano a fare i coordinatori e i capi. Mentre altri militanti del Pci sono in vacanza loro trascorrono l’estate da soli tra gli occupanti, perdono sessioni d’esame e il sonno.
Ma lo spirito dalemiano – caratterizzato dal contrasto e dalla contraddizione tipiche dei più grandi eroi controversi della mitologia – si esprime fin da subito in tutta la sua ambiguità. E infatti, quello stesso D’Alema è colui il quale, all’indomani della Primavera di Praga e l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche, sente di dover difendere il suo partito dalle spinte troppo velleitarie dei coetanei. Da quel movimento studentesco che, in Italia, e in Europa rischia di incrinare una certa architrave di autorevolezza. E così i giovani dirigenti del Pci, per un crudele paradosso, hanno meno fair play degli anziani: se un fanatico come Giulietto Chiesa afferma che i gruppi di estrema sinistra che guidano le occupazioni “contano anche sull’appoggio di masse di studenti qualunquisti,” D’Alema se la prende con i “sedicenti rivoluzionari”. Una durezza che non impedirà al Pci di raccogliere alle elezioni successive più voti tra i giovani di qualunque altro partito, ma che creerà anche le condizioni per una frattura culturale drammatica, che si paleserà solo più in là nel tempo.
Ma ecco una caratteristica comune di tutti i partiti in cui ha militato D’Alema, che poi sono le diverse incarnazioni della sinistra e del centrosinistra italiano: sono anche i partiti in cui si discute di più, su cui si sentono più giudici, su cui si formulano più critiche. Anche e soprattutto verso la seconda metà dei Settanta, quando il Pci arriva a un soffio dalla vittoria, ma viene battuto da una Dc costretta a fare il suo record di voti per non perdere il governo. È il “turiamoci il naso” di montanelliana memoria. È il momento del sostanziale pareggio e del compromesso storico. La sinistra più radicale non ci sta, i sindacati sono costretti a durissimi compromessi, mentre l’ala andreottiana della Dc – la più ambigua, clientelare – prende il sopravvento. Il Pci è potentissimo ma in una crisi d’identità drammatica.
In questo contesto che segnerà l’inizio del definitivo declino italiano, con un Sud affidato ai potentati e la sinistra che sembra perdere il filo della globalizzazione, D’Alema diventa segretario della Federazione dei giovani comunisti italiani. Lo ricordiamo in un’assemblea del 1977 che farà storia, all’apice della cultura movimentista, quella dell’Autonomia e di Radio Alice, e dei convegni sulla repressione più numerosi di un concerto di Vasco. Lui ha scelto di interloquire con i “compagni che sbagliano”, di fare da tramite tra il Pci e i giovanissimi. Accanto al funzionario baffuto prende la parola uno strano personaggio: ha una maschera bianca in volto e una sorta di tuba irlandese per cappello. Si fa chiamare Gandalf il Viola. Si presenta così: “Parlerò a titolo strettamente personale,” e recita una lunga fila ipotetiche tribù di indiani metropolitani. D’Alema non fa una grinza, smorza la sigaretta in una ceneriera, dice la sua.
Eppure quell’apertura a sinistra, che di fatto si risolve in un mucchio di parole e poco altro, gli costa caro. Il suo capo, Enrico Berlinguer, gli vuole bene ma è quasi costretto a mandarlo in Puglia, che è come una punizione. Massimo D’Alema però non si abbatte, si riorganizza. Si farà le ossa. Lì saranno gettate le basi per la Puglia di Vendola e di Emiliano. E i dalemiani di allora non lo molleranno mai: come adulatori o come sicofanti. Con la sua innata abilità a tessere trame improbabili, riesce a trasformare un fortino della Dc in una regione tripolare dove i comunisti, a seconda della convenienza, si alleano un po’ con il centro un po’ con i socialisti. Impara a fare i comizi scaldando il cuore alle persone e nel 1983 rientra a Roma per far parte della direzione nazionale.
Berlinguer del resto lo aveva già premiato spedendolo, poco più che venticinquenne, a Pechino dopo l’arresto della “Banda dei Quattro”, per cercare di ricucire i rapporti con i comunisti cinesi. Tutto si può dire di lui tranne che non abbia avuto un’abnegazione totale, sacrale, per il partito: come quando, tre anni prima, appena eletto consigliere comunale a Pisa, la nomenclatura da Roma gli avrebbe imposto di sposarsi con una ragazza più giovane di lui, per evitare pettegolezzi sulla sua condizione di convivente (il matrimonio durerà un anno e mezzo). Disciplina e ricompense: così funziona il Pci. E sarà D’Alema il prescelto per seguire Berlinguer in un viaggio a Mosca nel 1984, per i funerali del segretario del Pcus, Jurij Andropov. Il racconto – rievocato dallo stesso D’Alema in un libro edito vent’anni più tardi – è uno spaccato di grande politica. I due comunisti arrivano in Russia con l’aereo presidenziale, “scortati” da Pertini, il ministro degli Esteri Andreotti, due cardinali e mezza dozzina di diplomatici. D’Alema appunta su un taccuino le atmosfere, i volti, le caratteristiche del cerimoniale sovietico: a omaggiare il defunto, secondo un rigido protocollo, vanno prima i governanti dei Paesi del socialismo reale, in ordine di lealtà; poi i capi dei partiti comunisti del Terzo Mondo, quelli dei partiti comunisti occidentali e solo per ultimi i leader del “mondo libero”. Annota D’Alema: “Il compagno Barrilli, che rappresenta i Partito Comunista di San Marino, precede di molte lunghezze il vice presidente americano George Bush.”
Davanti al gotha sovietico, in quell’universo affascinante e insieme decadente, D’Alema coglie forse il senso della congiura che lo perseguiterà per i decenni a venire: se il presente del socialismo è in disfacimento, quando saranno pronte le condizioni per il nuovo? L’intuizione resta senza risposta, di fronte al silenzio di una Storia beffarda. Arriva la morte, prematura e scioccante, di Berlinguer. D’Alema si ritrova impreparato. Non è, non può essere ancora il suo momento. Così la leadership passa a Natta, che dopo qualche vittoria effimera accompagnerà il partito verso il declino, e poi a Occhetto – che lo liquiderà. Ma tra i lasciti del “più amato” tra i segretari c’è un concetto che tornerà sulle bocche di tutti trent’anni più tardi: l’austerità. Che allora però è intesa come questione morale, come l’opposto del consociativismo, della corruzione. Ma soprattutto è la consapevolezza dei limiti sociali allo sviluppo, della caduta tendenziale del saggio di profitto al tempo della mondializzazione; di una limitatezza che va assunta come prospettiva, come orizzonte in cui muoversi, se non si vorrà essere travolti dal risentimento della classe media. Paradossalmente, c’è più Berlinguer nei discorsi di Grillo sulla “decrescita felice” (ancora nel 2012 o 2013) che nei soliti bignamini New Age del comico genovese.
In quel momento come negli anni a venire, D’Alema si autoproclama traghettatore: barometro vivente della modernità che incombe, ma troppo restio a lasciarsi i vecchi lidi alle spalle. Queste antinomie alla lunga non saranno gestibili, e finiranno per comprimere la sua figura. Non ha nemmeno quarant’anni, in compenso ha già “nemici” che gli dedicano interviste al vetriolo: uno dei più acerrimi, il riformista Napoleone Colajanni, rimprovera ai “giovani” dirigenti come lui e Occhetto, che ora hanno raggiunto il vertice, di non avere una visione. Una volta la selezione passava attraverso la fame, attraverso i dibattiti in assemblea e anche attraverso la polizia di Scelba. Prima, nel dopoguerra, affluiva nel Pci una leva altamente qualificata di giovani per i quali la milizia comunista coincideva con una scelta di vita. D’Alema invece no: adesso lui incarna la svolta antropologica. Non più rivoluzionari di professione ma dirigenti stipendiati. Paragonabili ad amministratori pubblici, ai funzionari dei sindacati. Quel che oggi conta è la disciplina. In sostanza, il conformismo, mentre già prima del crollo del Muro il partito sembra non avere una linea, né riferimenti culturali. Il loro traguardo, ripetono i maligni, è solo uno scranno in Parlamento.
Il problema è che il governo non arriva mai: a Palazzo Chigi, quando non ci va la Dc, travolta dallo scandalo P2, ci vanno i repubblicani, poi i socialisti. Però D’Alema non ci sta, alla stampa che segnala il clamoroso calo delle iscrizioni, lui risponde: guardate che non è un problema solo del Pci né solo italiano, ma riguarda tutti i partiti di massa nel mondo occidentale. E il paragone scontato con i partiti avversari: “Vorrei sapere quanti iscritti hanno la Dc e il Psi… i quali sfuggono a questa discussione non perché anch’essi non abbiano problemi di questo tipo, ma semplicemente perché non sono trasparenti. E invece noi lo siamo.” Gli altri, secondo D’Alema, fanno tesseramento attraverso la distribuzione di pacchetti di tessere, mentre i comunisti hanno una forma moderna di iscrizione individuale e volontaria. Ma intanto l’Urss crolla, due anni dopo c’è la svolta traumatica della Bolognina. La strada per il Parlamento seguirà vie inaspettate.
Si dice che D’Alema detesti – ricambiato – i giornalisti, ai quali riserva sempre una parola di scherno o di alterigia. Lui ci tiene ogni volta a negarlo, ma c’è un’intervista a Lucia Annunziata, del 1995, sensazionale per la sua lucidità, circa i rapporti tra “poteri forti” e informazione italiana. L’allora segretario nazionale del Partito Democratico della Sinistra spiega come la stampa abbia perso i suoi referenti storici – un sistema politico solido, che garantiva chiarezza di schieramento – e come la “nuova anarchia” venutasi a delineare abbia il segno della “destrutturazione qualunquistica della democrazia politica”.
“I ‘poteri forti’ giocano allo sfascio della politica?”, chiede Annunziata. “Non c’è dubbio”, risponde D’Alema. “L’informazione è stata un formidabile strumento che ha concorso alla disgregazione e alla perdita di autorevolezza del potere politico. Nessun potere politico può sopravvivere a un’informazione che lo spia dal buco della serratura mentre va alla toilette.”
Tuttavia, lo stesso D’Alema che non ha mai fatto mistero di avere poca simpatia per il grande pubblico, lo stesso che crede in un’idea di politico sacro e lontano, in qualche misura da sottrarre alla visibilità e al gossip, lo stesso che chiede ripetutamente, senza ottenerlo, l’allontanamento dei giornalisti dal Transatlantico di Montecitorio, capisce che i tempi sono cambiati. Che quella concezione di ceto politico un po’ etereo non ha più cittadinanza. E allora prova a concedersi – vuoi per un cambio di passo comunicativo, vuoi per vanità – al voyeurismo mediatico. Nel salotto politico di “Porta a porta”, sotto lo sguardo gongolante di Bruno Vespa, il leader che sta affrontando una crisi e la Bicamerale, che sta cesellando il semipresidenzialismo, appare impietosamente immortalato da una telecamera amatoriale, maniche di camicia e grembiule bianco, mentre piange tagliando le cipolle (titolo in sovraimpressione: “Che commozione!”) e poco viene raggiunto in studio dall’amatissimo chef Vissani, finendo a dibattere di cotenna di maiale, soffritto e vino rosso.
Pochi anni dopo è addirittura ospite di Gianni Morandi del suo show, impegnato a cantare a squarciagola C’era un ragazzo. I due si erano conosciuti a una partita di beneficenza tra Nazionale giornalisti e nazionale politici – altro inaspettato cedimento del segretario: “D’Alema fece un gran gol… ci lasciò di sasso. Perfino Fini si alzò dalla panchina per applaudire,” racconterà Morandi. È un D’Alema che cerca goffamente di sembrare più umano, più pop: fa sapere quale marca di cravatte indossa, dove compra le scarpe, che va come tutti allo stadio a vedere la Roma, che non è vero che la barca è l’hobby dei ricchi. I risultati sono quantomeno altalenanti, e in molti casi gli si ritorcono contro. Ma non è la dannazione di ogni leader del centrosinistra – incluso Renzi – quella di sembrare o troppo comunista o troppo elitario?
Renzi: così distante da D’Alema, che sembra quasi provenga da un’altra dimensione. E per questo sottovalutato. Eppure, a un certo punto, corre l’anno 1999, D’Alema annusa il futuro prossimo. È ancora presidente del Consiglio e nel marzo di quell’anno, al congresso nazionale dei Verdi, delinea la liquidazione di un ipotetico soggetto politico: il Partito democratico. Roba che passa inosservata nella noia della burocrazia partitica. Molti anni dopo, però, il video viene ripescato dal Post, e quell’ammonimento (“chi può essere contro un prodotto così straordinariamente perfetto? C’è tutto dentro. Auguri. Però io non ci credo”) ha un altro sapore.
D’Alema non ci crede perché sa che quell’ipotesi è incompatibile, prima ancora che con la sua persona, con l’esperienza della Storia. Lui è convinto che l’Italia sia un Paese strutturalmente di destra, che un partito ex comunista da solo, al governo, in un sistema maggioritario non ci potrà mai andare. E se anche ci dovesse andare, un indottrinamento ossessivo e violento da parte di stampa e tv finirebbe per distruggerlo, togliendo al suo leader ogni carisma: come insegna una delle più dannose e vigliacche trasmissioni di sempre, Striscia la notizia, che per anni accompagna le trattative tra Berlusconi e D’Alema con puerili tormentoni, aventi il secondo per protagonista: si parla di conflitto d’interesse? Ecco Antonio Ricci saltar fuori con Cascina D’Alema, finta sit-com dove Gene Gnocchi (Veltroni) e Tullio Solenghi (D’ Alema), prendendo a modello Vianello e Mondaini, dormono nello stesso letto (uno sfoglia le figurine dei calciatori, l’altro sbuffa “che barba, che noia” prima di addormentarsi). Dall’altra parte, a sinistra, non va meglio, con una stampa intrisa di estremismi moralistici, con un Espresso che pubblica come scoop la metratura della sua nuova casa con tanto di prezzo.
D’altro canto, D’Alema è stato vittima della sua stessa concezione religiosa, intoccabile del potere: verso la metà degli anni Novanta viene alla luce un numero indecifrabile di appartamenti degli enti previdenziali dati in affitto a potenti politici (e non solo) di destra e sinistra. A goderne è stato anche lui, che era andato a occupare un immobile dell’Inpdap. La stampa non smetterà mai di ricordarglielo.
Quando, nell’autunno del 2012, tra mille ostilità, il Pd accetta di sperimentare lo strumento delle primarie, D’Alema vuole difendere le vecchie tradizioni di partito: culturali, politiche, ideologiche. Non accetta di convertire il partito storico dei lavoratori alle pratiche un po’ plastificate della politica obamiana: quelle forse andranno bene per Veltroni, ma non per lui. D’Alema sembra in effetti impersonare la distanza siderale tra quei due modelli. Se a ogni convention democratica il partito viene quasi resettato, e i keynote speech vengono affidati ad amministratori giovanissimi, in Italia, prima di Renzi, i dibattiti del centrosinistra sono organizzati con gli stessi intellettuali di riferimento degli anni Ottanta-Novanta: Eugenio Scalfari, Curzio Maltese, Mario Pirani, Luciano Cafagna, Michele Salvati, Alberto Asor Rosa. I partiti sembrano proprietà privata dei leader pro tempore, chiese guidate da sacerdoti infallibili, aziende personali.
Quanto è stato a suo agio D’Alema, in questo mondo? Molto, probabilmente, quando forse ha creduto di poterlo controllare: quando ha potuto fare l’eminenza grigia e il regista delle sorti della sinistra senza aver mai essere stato candidato premier (facendo impazzire di rabbia Berlusconi, che voleva confrontarsi con lui e non Prodi, venendo però quasi sedotto dall’organizzazione e dalla sagacia dell’ex comunista). Meno, molto meno, quando è stato costretto in una posizione defilata, o quando i suoi avversari gli rinfacciano tutte le incoerenze: l’addio al posto fisso e il rapporto succube col sindacalista Cofferati; la simpatia per i palestinesi e quel “Bye-bye Condi” diretto al telefono all’allora segretario di Stato americano, in modo da farsi sentire dai giornalisti; l’orgoglio comunista e quel conflitto di interesse mai approvato in cinque anni di governo, quel “Mediaset patrimonio da difendere”, pronunciato durante la fase di dialogo con Berlusconi.
“Se da un lato a Veltroni e D’Alema può essere rimproverata una certa concezione oligarchica del partito e della politica, dall’altro lato andrebbe loro riconosciuto che in questo modo anche i conflitti interni a quel gruppo dirigente non hanno mai preso la forma di guerre tribali, come è accaduto nel Pd dai tempi delle primarie Bersani-Renzi in poi,” mi spiega Francesco Cundari, autore di libro Déjà-vu, in cui che racconta venticinque anni di sinistra italiana, e grande conoscitore del personaggio D’Alema. Secondo Cundari più che l’arrivo di Renzi, è stata l’importazione del modello partitico americano a segnarne la spaccatura definitiva.
Tutto passato, verrebbe da dire, con il “No” secco al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che è stato l’inizio del crollo dei rottamatori di D’Alema e del loro partito irriconoscibile. Con una seconda Repubblica prima imbalsamata e poi buttata via – come il cane Bendicò del romanzo Il Gattopardo: “in un mucchietto di polvere livida” – senza che la Terza abbia accennato a delinearsi. Come vivrebbe D’Alema un accordo col M5S, o almeno di un parte del Pd con i Cinque Stelle, nella definitiva eclissi del partito che lo ha rigettato come un corpo estraneo? Difficile fare previsioni. Sappiamo come lo definirebbe il D’Alema di quell’intervista del ‘95. Ma vacci a capire il D’Alema di domani, quale D’Alema sarà.