L’estate sembra essere diventata la stagione delle crisi di governo. Il casus belli balneare può essere un mojito di troppo o la consapevolezza di essere arrivati al capolinea, come nel caso del Movimento Cinque Stelle. La scelta di Giuseppe Conte di non votare la fiducia sul decreto Aiuti arriva in seguito a quella che appare come una strategia elettorale per recuperare i voti dilapidati: inscenare il teatrino di chi è contro il sistema mollando l’esecutivo e denunciandone i difetti. Peccato che in quattro anni e mezzo il M5S, come forza di maggioranza in Parlamento, sia stato il vertice del sistema, governando con la destra, con la sinistra, con il centro, con i tecnici e rinnegando tutti i suoi “ideali”. Uscirsene a meno di un anno dalle elezioni per farsi qualche mese di battaglia all’opposizione, comoda posizione accumula-consensi, fingendo che il resto della legislatura non sia mai esistito, è l’ennesimo scivolone di una forza politica che si è dimostrata incoerente e inadeguata.
Quando cadde il secondo governo Conte, il M5S decise di appoggiare il nuovo esecutivo con a capo Mario Draghi parlando di senso di responsabilità, in quanto il Paese non poteva permettersi ulteriori scossoni in piena emergenza Covid. Oggi, alla pandemia si è aggiunta la guerra in Ucraina e un dissesto economico, tra inflazione galoppante e rincari di ogni tipo, che sta mettendo in ginocchio gli italiani. Quel senso di responsabilità sbandierato all’alba del governo Draghi adesso sembra essere svanito, e il M5S ha iniziato la sua campagna elettorale sulla pelle dei cittadini e di una nazione che non ha al momento la struttura portante per riuscire a reggere un’altra crisi di governo. È vero, in 76 anni di Repubblica abbiamo avuto ben 67 esecutivi, ma se nella legislatura dove il M5S ha avuto più parlamentari di tutti ed è stato sempre al governo ci sono state tre fratture del genere, la creatura di Grillo deve quantomeno recitare un mea culpa.
Non c’è stata una vera e propria miccia a far divampare l’incendio. Se il Conte I è terminato per il protagonismo di Salvini che voleva passare all’incasso con il foglietto dei sondaggi nella faretra e il Conte II per un machiavellico disegno di Matteo Renzi, il governo Draghi ha pagato a scoppio ritardato l’implosione del M5S, cominciata nel momento stesso in cui i grillini hanno messo piede nelle stanze del potere. Se proprio dobbiamo trovare un momento in cui la macchina della demolizione si è messa in moto, questo non può che essere il cortocircuito nato in seguito all’invasione dell’Ucraina. Come ampiamente documentato, il sodalizio del M5S con il partito di Putin ha favorito l’ascesa dei grillini. Una volta esploso il conflitto in Ucraina, all’interno del movimento c’è chi ha mantenuto delle posizioni in linea con quelle governative, dunque a favore di un sostegno alla resistenza ucraina anche attraverso l’invio di armi, e chi invece si è ricordato il M5S d’antan, quello delle battaglie contro le sanzioni alla Russia, delle trasferte a Mosca e del supporto a testate come Sputnik e RussiaToday. Così da un lato c’è chi ha abbandonato la nave, ovvero l’ala filogovernativa di Luigi Di Maio; dall’altro si è restaurato quel collante se non anti-NATO perlomeno parecchio accomodante con il Cremlino. La scissione di Di Maio, certamente dettata anche da interessi personali e giochi politici, ha fatto perdere ulteriori parlamentari al M5S, per quella che dal 2018 è una diaspora tra deputati e senatori, e ha messo all’angolo i vertici di fronte a una decisione che non poteva più contemplare posizioni pilatesche. Ovvero scegliere da che parte stare nello scacchiere internazionale. Così il M5S si è seduto al tavolo di Alessandro Orsini.
La cartina di tornasole per comprendere le mosse del M5S è sempre stata la linea di quello che è il suo organo di stampa ufficioso: Il Fatto Quotidiano. Il giornale ha subito assunto Orsini, per poi iniziare una campagna palesemente antigovernativa nella quale venivano esposti più i difetti di Zelensky che quelli di Putin, con la logica dell’appeasement a regnare su ogni pensiero. Addirittura Alessandro Di Battista ha annunciato urbi et orbi il suo viaggio da inviato in Russia, come un Salvini qualsiasi ma con la pretesa del giornalista d’assalto. Se il M5S votava controvoglia le misure del governo per la guerra in Ucraina, dietro le quinte si tesseva una tela che avrebbe poi portato alle prime frizioni di Conte contro Draghi. L’ex premier ha infatti contestato l’invio di armi in Ucraina usando gli stessi termini portati in voga da Orsini: frasi come “evitare l’escalation” fanno ormai parte del gergo dei mistificatori della guerra in atto. È ironico che in quattro anni e mezzo il M5S abbia ceduto su tutto, tra TAV, TAP, alleanze e promesse non mantenute, ma che l’intransigenza sia riaffiorata solo al momento di non infierire su Putin.
Tra spaccature interne, un ruolo nel governo sempre più marginale e i sondaggi ai minimi storici (attualmente un 10% destinato a calare ulteriormente), Beppe Grillo è tornato a farsi sentire per invertire la rotta. Se lo scorso anno Conte per lui era inadatto, adesso gli affida il ruolo di timoniere per portar fuori il movimento dalla stagnazione. Così quest’ultimo ha consegnato un documento a Draghi con i nove punti fondamentali del M5S per cambiare l’Italia. È stato premier in due diversi governi, poteva pensarci prima. Il documento alterna momenti da discorso-di-Miss Italia (“Stop alla precarietà”, “Aiuti a famiglie e imprese”, manca solo la pace nel mondo) a rivendicazioni sul Superbonus 110% e sul Reddito di Cittadinanza. Dal canto suo, Draghi ha parlato di convergenze con il testo presentato da Conte, spiegando anche di non volere un Draghi II o un governo ricreato senza i grillini. La crisi era però già programmata: essendo ormai da anni un partito zombie, consapevole di sopravvivere solo come fantasma del suo passato e non come rappresentazione di un consenso popolare legato all’attualità, il M5S ha deciso di giocarsi l’ultima carta tornando a far quello che gli riusciva meglio: non governare.
È infatti sul concetto di antipolitica che il M5S ha fatto le sue fortune. L’anomalia di un movimento nato per contestare più che per costruire si è palesata quando questa forza è arrivata al governo, dimostrandosi del tutto incapace di gestire la cosa pubblica, non avendo nel suo DNA le stimmate del legislatore, quell’istituzionalità che comporta anche decisioni impopolari per il bene del Paese. Avendo fallito su tutti i fronti nelle posizioni di comando, adesso i grillini tentano un tardivo ritorno alle origini, sperando in un “effetto Meloni”, ovvero ingraziarsi le simpatie del popolo stando dall’altra parte della barricata. Non funzionerà, perché questa è e sarà ricordata come la legislatura del M5S, e non basteranno alcuni mesi da incendiari fuori dalla maggioranza per far dimenticare i travagli di questi anni. Inoltre hanno deciso di attuare questa strategia con tempistiche sbagliate, quando il Paese aveva bisogno di tutto tranne che di un’altra crisi del genere. E non perché questo sia il “governo dei migliori”: non lo è, in quanto composto prevalentemente da un miscuglio tra i peggiori elementi della Seconda Repubblica e alcuni inquietanti spettri della Terza. Draghi è soltanto una figura di spicco messa lì per cercare di sanare i conti e gestire i fondi europei post-pandemia, rappresentando un volto rispettato all’estero. Ma le dinamiche dei ministri e dei parlamentari, così come i giochi di partito, sfuggono alle sue competenze, e quindi l’ipotesi di un voto anticipato è dietro l’angolo. Questa rottura mette anche a rischio l’idea del “campo largo progressista” promossa da Letta con il M5S. C’è solo una postilla: dobbiamo prepararci a cinque anni di Meloni premier, Salvini ministro dell’Interno e Berlusconi ancora a muovere i fili. E no, non potrebbe andare peggio nemmeno se dovesse piovere.