E alla fine il Movimento divenne Casta - THE VISION

Domenica 15 novembre si sono conclusi, con una diretta streaming di circa quattro ore, gli stati generali del Movimento 5 Stelle, un congresso più volte posticipato per via della pandemia e del lockdown, che aveva lo scopo di riorganizzare il movimento dopo il periodo turbolento seguito alle dimissioni di Luigi Di Maio come capo politico e il passaggio dal governo giallo-verde a quello giallo-rosso, con una serie di evidenti contraddizioni e un numero crescente di dissidenti interni. Il documento finale di sintesi sarà pubblicato online fra qualche giorno e per diventare effettivo dovrà essere votato dagli iscritti al Movimento, anche se non è ancora chiaro in che modalità.

Luigi Di Maio

L’immagine che esce del Movimento da questo lungo confronto è quella di un “partito” anti-casta che ha ormai imparato bene le regole del gioco politico. Durante questi stati generali, infatti, non si è concretizzata nessuna scissione fra le due principali correnti in cui è diviso attualmente il Movimento, quella più istituzionale e “governista” – capeggiata da Luigi Di Maio e Vito Crimi – e quella più critica e ribelle guidata da Alessandro Di Battista e Davide Casaleggio – presidente dell’Associazione Rousseau, che però non ha preso parte ai lavori.

Alessandro Di Battista

Proprio quest’ultimo, in occasione del compleanno del Movimento il 4 ottobre 2020, aveva preso parola sul Blog delle stelle con un lungo intervento dai toni polemici e molto duri, in cui paventava la possibilità di una scissione imminente. Nelle parole di Casaleggio è sintetizzata la parabola che sta attraversando il Movimento in questi ultimi anni. La frattura, il punto di crisi, nasce proprio da un grande dilemma, da quella parola che per anni i grillini hanno avuto paura o evitato accuratamente di pronunciare: “partito”. Una promessa a cui il figlio di Gianroberto, mente e co-fondatore del Movimento, vorrebbe tener fede fino in fondo: “La prima [promessa] di queste è che non saremmo mai diventati partito, non solo come struttura, ma soprattutto come mentalità. Molti confondono la parola partito con una struttura organizzativa, ma in realtà è un’impostazione di potere. Il partito ha un gruppo di poche persone che decide tutto per tutti, le liste elettorali, le nomine, i programmi, i supporti elettorali nelle diverse città. Nel Movimento invece il potere si esercita dal basso e si trovano tutti i modi per garantire la trasparenza e la condivisione delle scelte tra gli iscritti”.

Davide Casaleggio

La risposta del Comitato di garanzia del M5S, composto da Vito Crimi, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancellieri, arrivata in serata attraverso il profilo Facebook del Movimento, ha messo però subito in chiaro chi prende le decisioni nel Movimento: “Il Blog delle Stelle è il canale ufficiale del Movimento 5 stelle e Davide Casaleggio non ricopre alcuna carica nel Movimento 5 Stelle. Il post pubblicato in data odierna sul Blog delle Stelle a firma Davide Casaleggio rappresenta una sua iniziativa, personale e arbitraria, diffusa attraverso uno strumento di comunicazione ufficiale del Movimento 5 Stelle”. Così, anche quella promessa, forse la più importante, alla base dell’identità del Movimento, sembra sgretolarsi e aprire inattesi e imprevedibili orizzonti.

Vito Crimi
Roberta Lombardi

L’era dei meet up e dei Vaffa day è ormai un ricordo lontano. Il passaggio dalla piazza ai palazzi del potere non è stato così traumatico come ci si sarebbe aspettati, è avvenuto – come da copione – in modo del tutto naturale, spontaneo. Era il 4 ottobre 2009 quando Beppe Grillo, parlando di democrazia diretta, di casta e di un generico quanto eloquente “mandarli tutti a casa” dal palco del Teatro Smeraldo di Milano, diede vita a quello che sarebbe diventato il movimento politico italiano più votato degli ultimi anni. Nel corso di questi 11 anni le battaglie, i proclami e le promesse urlate dai 5 Stelle dalle piazze dai palchi sono stati tanti e diversi, peccato che la maggior parte siano stati abbandonati e non mantenuti.

Beppe Grillo

Una volta entrati nei palazzi del potere, quelli che avrebbero dovuto “aprire come una scatoletta di tonno”, si sono trovati subito a loro agio e così dagli autobus e dalle biciclette alle auto blu il passo è stato breve. Oggi, infatti, con il Movimento saldamente al governo da due anni, le auto blu, o “auto di servizio”, come ora preferiscono chiamarle, sono diventate la prassi anche per i parlamentari grillini, che non si vergognano più di apparire in pubblico, partecipare a incontri e riunioni, scendendo dalle loro auto blu, abbottonati nei loro completi, con l’autista che li attende, proprio come tutti gli altri. Il pensiero va al febbraio scorso, quando i leader del M5S sono scesi in piazza contro i vitalizi, ma accompagnati dai propri autisti, nella veste di privilegiati contro i privilegi della casta. E anche se, come è stato dimostrato, il numero complessivo di auto blu non è aumentato dal 2014 a oggi – quindi anche prima dei 5 Stelle – ma anzi, sembrerebbe diminuito, i grillini non ne disdegnano l’utilizzo e non le hanno tantomeno abolite, come promesso. Anzi, pare si trovino molto bene a farsi fotografare in versione “manager impegnato”.

Più passava il tempo, più i veti e i divieti che il Movimento aveva imposto all’inizio, cadevano come birilli centrati da una palla da bowling. Dal limite del doppio mandato, abolito per ora solamente per i consiglieri comunali con la trovata pittoresca del “mandato zero”, al divieto di fare alleanza con gli altri partiti politici fino alla categorica contrarietà all’immunità parlamentare, saltata quando i 5 Stelle hanno votato contro l’autorizzazione a procedere su Salvini per il caso Diciotti. Proprio mentre si consumava l’assurda vicenda legata alla nave Diciotti, l’ex ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli pubblicava sul suo profilo Instagram foto spensierate della sua vacanza in Costa Smeralda con la famiglia scrivendo: “Qualche giorno di mare con la famiglia con l’occhio sempre vigile su ciò che accade in Italia”. Inutile aggiungere come quei post siano stati giustamente sommersi di critiche e giudicati totalmente fuori luogo.

Danilo Toninelli

Alla fine, anche il veto sui media e sulle tv, da sempre considerate “nemiche” del Movimento e della verità dei fatti, è caduto e i grillini hanno iniziato a sedersi sulle poltrone dei talk show, tanto quanto i loro avversari criticati e insultati in passato per la stessa cosa. E dalla tv ai red carpet il passo è stato breve: durante la settantasettesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, infatti, abbiamo visto sfilare sul tappeto rosso il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, raggiante e sorridente (cosa ci facesse là resta un mistero). Lo stesso Di Stefano che si era fatto notare un mese prima per un tweet, scritto in seguito all’esplosione a Beirut, in cui aveva confuso il popolo libanese con quello libico, e si era poi lanciato poco dopo in un discorso assurdo in cui aveva elogiato il regime cinese e si era assunto la paternità di iniziative che in realtà appartenevano al governo Renzi.

Manlio Di Stefano

Ma il picco della tragi-commedia grillina lo ha raggiunto l’ex capo politico e attuale ministro degli Esteri Di Maio, quando, dopo l’incontro dello scorso agosto con il suo omologo cinese Wang Yi, in cui aveva sfoggiato un’abbronzatura molto intensa, ha deciso di ripubblicare sui propri account social alcuni meme ironici, fra cui quello con un riferimento alla pratica razzista della blackface. Mentre Di Maio scriveva ingenuamente “Grazie ragazzi! Mi avete reso la giornata più leggera!”, il web si scatenava giustamente contro la mancanza di rispetto e la scarsa sensibilità su un tema del genere. L’eco è stata così grande che la vicenda è finita sul New York Times in un articolo a firma di Emma Bubola e Gaia Pianigiani. Un’altra medaglia al valore per il ministro da appuntarsi sul petto.

Mentre crollava il castello di carte della “democrazia diretta” messo insieme dai fondatori, con lui cadevano i principi fondamentali della stessa: viene istituito e poi sciolto un “direttorio” nazionale e uno locale, romano, per la sindaca di Roma Virginia Raggi e viene nominato Luigi Di Maio come capo politico del Movimento. L’antisistema si fa sistema.

Virginia Raggi

“L’Italia ha appena acquistato 90 nuovissimi F35. Il programma va molto bene”, dichiarava soddisfatto Donald Trump in una conferenza stampa il 16 ottobre 2019. L’ex presidente americano confermava che il programma sugli aerei da guerra, al quale il M5S era da sempre contrario, andava avanti. Nonostante i malumori interni al movimento, il premier Conte e la ministra della Difesa Trenta (che l’anno precedente si era detta contraria) avevano proceduto all’acquisto dei nuovi F35, perché i costi per scindere il contratto sarebbero stati troppo alti. Il costo dell’operazione, secondo i calcoli del Corriere, si aggirava intorno ai 14 miliardi di euro, con un ritorno solo parziale per l’industria italiana. Dopo la diffusione pubblica della notizia e la presa di posizione critica del capogruppo pentastellato in commissione Esteri, Gianluca Ferrara, Conte si è detto d’accordo a una rinegoziazione degli ordini, di cui ancora però non si conosce l’entità.

Elisabetta Trenta

Un’altra delle sconfitte più eclatanti è stata la battaglia sull’Ilva di Taranto, quella che da molti è stata definita il “funerale politico del M5S” e il momento di svolta, in cui il Movimento si è fatto a tutti gli effetti partito. Era l’agosto del 2019 e l’allora ministro dello Sviluppo Economico Di Maio definì l’assegnazione dell’acciaieria ad ArcelorMittal un “delitto perfetto”, legando addirittura a doppio filo il destino del governo alla vicenda dell’Ilva, eventualità, anche in questo caso scongiurata e ritrattata. Com’è andata a finire la storia, però, lo sappiamo tutti: con Di Maio che ratifica l’accordo già firmato dal suo predecessore Calenda, tradendo una delle più grandi promesse elettorali del Movimento, proprio a Taranto, città dove il M5S aveva fatto incetta di voti.

Una delle poche battaglie vinte dal M5S sembrerebbe essere stata quella relativa al Reddito di Cittadinanza, il provvedimento che Di Maio ha festeggiato con fin troppo entusiasmo dal balcone di Palazzo Chigi, nel settembre del 2018, gridando davanti a una piccola delegazione di deputati e senatori del Movimento l’ormai celebre frase “Abbiamo abolito la povertà”, che sembra uscita da un romanzo di Orwell. Peccato che, propaganda a parte, quei “30 miliardi di sprechi e privilegi” di cui parlava Di Maio a Piazza del Popolo il 2 marzo 2018 non siano mai stati trovati e l’introduzione dei navigator si sia rivelata macchinosa e ben poco efficace. Basti pensare che su 1,23 milioni di maggiorenni beneficiari del reddito di cittadinanza presi in carico, dall’introduzione dei navigator (settembre 2019) fino a settembre 2020, sono arrivate soltanto 220.048 offerte di lavoro e opportunità formative. A fine luglio, i patti sottoscritti erano 318.221 e solo 710mila persone (il 57,8% del totale) avevano ricevuto la prima convocazione presso i centri per l’impiego. Insomma, la povertà, sia assoluta che relativa, sembra tutt’altro che abolita.

Giuseppe Conte e Luigi Di Maio

“La coerenza è sicuramente un valore”, ha spiegato il premier nel suo intervento  “ma quando governi devi valutare la complessità, bisogna avere anche il coraggio di cambiarle le idee, quando ti accorgi che queste sono migliori di quelle che avevamo”. Eppure, anche la coerenza, da sempre cavallo di battaglia e Leitmotiv del Movimento, non sembra più essere un valore che contraddistingue i grillini: ne è la prova la vicenda che vede coinvolto l’eurodeputato Dino Giarrusso che rischia una pesante sanzione, che potrebbe costargli anche l’espulsione dal Movimento, perché, secondo la prospettiva accusatoria, avrebbe incassato contributi da lobbisti durante la campagna elettorale del 2019. Da anti-lobby duri e puri agli affari con gli stessi lobbisti.

Dino Giarrusso

Chi lo avrebbe mai detto. In queste parole, che suonano quantomeno ingenue, è riassunta la sfida del Movimento 5 Stelle verso il futuro, quella verità che in molti ancora si rifiutano di accettare e men che meno di pronunciare. Per restare a galla il Movimento 5 Stelle deve accettare la sua trasformazione e quindi, inevitabilmente, il tradimento dei suoi presupposti. L’idea, visionaria e utopica di essere allo stesso tempo dentro e fuori dalle istituzioni, di essere parte della casta ma contro la casta, è stata sconfitta dal principio di realtà e dall’arte del compromesso. Ora i “vaffa” sono rivolti anche a loro, a quelli che una volta facevano parte del “popolo” e che ora sono diventati come tutti gli altri dei “poltronari”.

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