È facile sentirsi depressi. I Cinque Stelle possono insistere che non si tratta di una coalizione – “È solo un contratto” – ma, a partire dalla vicenda Savona, è stato Matteo Salvini a stabilire i toni. La disputa sull’attracco dell’Aquarius ha evidenziato la capacità del ministro dell’Interno di imporre il suo programma andando ben oltre il suo incarico, mentre Giuseppe Conte e Danilo Toninelli sembrano stare ingenuamente al suo gioco. I rifugiati nel Mediterraneo sono stati le prime vittime. Ma fin dalle elezioni, gran parte della stampa ha descritto l’Italia come un Paese abbandonato alla deriva. Marco Damilano ha parlato de “La notte più oscura della Repubblica”. Per molti, il duo M5S-Lega non è soltanto troppo morbido nei confronti di Vladimir Putin, ma vorrebbe governare l’Italia secondo linee simili. Luigi de Magistris è solo una delle tante figure ad aver definito la nuova coalizione “il governo più di destra nella storia repubblicana”.
In effetti, c’è motivo di allarmarsi. Andare alla ricerca di dichiarazioni di Marco Minniti contro l’immigrazione e dire che non è cambiato nulla è un atteggiamento troppo passivo. Il razzismo e il disprezzo nei confronti dei migranti non sono certo una novità. Ma il governo M5S-Lega è di sicuro più radicalizzato e dà sfogo in modo più esplicito a questi impulsi. Possiamo aspettarci ulteriori casi come quello della nave Aquarius, strumentalizzati per giustificare un autoritarismo più ampio e per alimentare una guerra tra poveri.
La disperazione non è in grado di fare breccia. Anche negli anni Novanta, di fronte al berlusconismo, l’affermazione che l’Italia fosse “un Paese di destra”, in cui i progressisti affrontavano una lotta all’ultimo sangue per la democrazia, è servita da collante per il passaggio dei Ds verso il centro neoliberale. La chiamata all’unità contro Berlusconi sembrava aver messo in secondo piano qualsiasi riconoscimento dei problemi sociali più profondi dell’Italia. Con il peggiorare della crisi, una classe operaia atomizzata e non rappresentata si è invece rivolta al M5S. Ed eccoci qui.
Un certo tipo di pessimismo, che descrive la situazione attuale come senza speranza, presenta implicitamente la Prima Repubblica come l’età d’oro di unità e fratellanza, in cui la retorica della Costituzione si traduceva in pace e progresso per tutti. Ma in realtà, fin dalla fondazione della Repubblica, si è dovuto costantemente lottare per difendere i principi della Costituzione, davanti a forze determinate a contrastarla. E di fronte al governo più di destra dal 1945, si è concretamente combattuto per difenderla.
L’esecutivo di Fernando Tambroni, formato nel marzo del 1960, non venne dal nulla. Anche quando la Costituzione entrò in vigore, il 1° gennaio 1948, le forze che avevano contribuito a scriverla si trovarono con le spalle al muro. Le crescenti tensioni della Guerra Fredda avevano costretto i socialisti e i comunisti a uscire dalla coalizione nel maggio dell’anno prima. La polizia in Italia si arrogava regolarmente il diritto di scavalcare gli articoli costituzionali fondamentali, come quello di riunirsi in assemblea, soprattutto nelle regioni in cui si consumavano violente rappresaglie di mafiosi e proprietari terrieri contro i braccianti impegnati nei movimenti di occupazione.
La politica del decennio successivo fu modellata dalla volontà dei democristiani di guadagnare una certa stabilità al potere, usando il collante dell’anticomunismo. La legge truffa del 1953, progettata per consentire alla Dc di governare da sola, fu un attacco al principio costituzionale della proporzionalità della rappresentanza. La reazione politica ed elettorale lasciò la Dc incapace di mantenere la maggioranza in Parlamento e dipendente dagli alleati. Questo a sua volta mise a rischio il cordone sanitario contro l’estrema destra.
Il Movimento Sociale Italiano, fondato nel 1946, fu inizialmente caratterizzato da un forte antiamericanismo ereditato dalla guerra, e dalla compresenza di tendenze che rivendicavano continuità con gli elementi apparentemente “antiborghesi” di Salò. Ma sotto la guida di Arturo Michelini, che coinvolse i monarchici, il movimento si avvicinò alla tradizionale destra conservatrice, cercando un accordo con la Democrazia Cristiana.
Negli anni Cinquanta anche alcune figure del Vaticano come Don Luigi Sturzo spinsero verso una riconciliazione delle destre. Quando, nel 1958, il vicepresidente regionale della Dc Silvio Milazzo formò una curiosa coalizione in Sicilia, che includeva rappresentanti del Msi e del Pci, il primo ministro e leader della Dc nazionale Amintore Fanfani lo espulse. Fu la scissione siciliana della Dc. In risposta alla questione, la Chiesa ribadì la scomunica nei confronti dei comunisti, ma non dell’Msi.
L’Msi aveva già votato per il governo Segni II del 1959-60, ma vista la ristretta maggioranza sul nuovo governo monocolore della Dc guidato da Fernando Tambroni, il 4 aprile 1960, il sostegno da parte del partito neofascista si rivelò decisivo per sostenerlo. Rifiutando di servire un esecutivo dipendente dall’Msi, alcuni ministri si dimisero. Quando il premier a sua volta presentò le proprie dimissioni, il presidente della Repubblica Gronchi non fu in grado di organizzare un’altra maggioranza e insistette affinché Tambroni continuasse.
La natura reazionaria del governo di Tambroni non era dovuta alla sua personale prospettiva politica (era un democristiano moderato), ma alla radicalizzazione che l’esecutivo rifletteva. L’affidamento del governo al sostegno da parte dell’Msi, anche senza in cambio l’offerto di ministeri, portò a una nuova legittimazione di questo partito, in un’Italia che le forze anti-fasciste faticavano a fare propria. Come nota lo storico Cesare Bermani, nel 1960, circa il 90% dei prefetti italiani era stato nominato in periodo fascista. L’epurazione limitata a quello postbellico, l’audacia dell’Msi, il panico di Tambroni di fronte alla crisi, alimentarono un periodo di violenza poliziesca senza precedenti nella storia repubblicana.
L’annuncio dell’Msi di indire il proprio congresso a Genova fu particolarmente importante. In risposta alle voci che a presiederlo sarebbe stato Carlo Emanuele Basile (prefetto di Genova sotto Salò), i partiti di sinistra, i sindacati e la Camera del Lavoro organizzarono una serie di proteste. La situazione si acuì drammaticamente nel pomeriggio del 30 giugno, quando, durante uno sciopero chiamato dalla Cgil, un corteo di 100mila persone si risolse in scontri con la polizia in Piazza de Ferrari, mentre le forze dell’ordine tentavano di disperdere la folla con gli idranti.
Mentre le minacce di sciopero della Cgil avevano costretto alla cancellazione del congresso, Tambroni venne colto dal panico. Autorizzò la polizia a ricorrere a vere munizioni in caso di ulteriori “emergenze”. I risultati furono drammatici. Il 5 luglio la polizia aprì il fuoco sulla folla a Licata, in provincia di Agrigento, uccidendo una persona e ferendone 24. Il giorno seguente, la polizia a cavallo interruppe una manifestazione a Roma, a Porta San Paolo, luogo della Resistenza dell’8 settembre 1943. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, furono uccisi cinque lavoratori. Quando il giorno successivo la Cgil indisse uno sciopero generale, la polizia aprì il fuoco sulla folla a Palermo, uccidendo quattro persone. A Catania, Salvatore Novembre, un ragazzo di diciannove anni, venne ucciso a manganellate. I morti furono in tutto undici. Tre di loro erano ex partigiani. Molti erano ancora adolescenti. Ma l’atmosfera di indignazione continuò a crescere. A Reggio Emilia, luogo in cui si era verificato l’omicidio più grave, il 9 luglio fa indetta una manifestazione a cui parteciparono 100mila persone. La Cgil promise ulteriori scioperi. La Dc non poteva più tollerare la leadership di Tambroni: il 22 luglio, in seguito a un appello degli intellettuali cattolici, fu costretto a dimettersi. L’escalation si concluse e la Dc iniziò a cercare un’alleanza con il Partito Repubblicano Italiano (liberale) e il Partito Socialista Democratico Italiano.
Solo negli anni Novanta l’Msi avrebbe nuovamente minacciato la politica italiana mainstream. Combattuta sotto il vessillo dell’antifascismo, la rivolta contro Tambroni rappresentò molto più che un ritorno allo spirito del 1945. La Dc si rivolse ai governi di centrosinistra: a questa lotta figlia dell’eredità antifascista della Resistenza si erano uniti i nuovi membri della classe operaia industriale, in particolare i migranti provenienti dal Sud; e la rivolta contro Tambroni pose le basi per la Nuova Sinistra.
Dovremmo sperare in un risveglio simile nel 2018? Di certo la situazione è cambiata. Non abbiamo più la stessa classe lavoratrice di un tempo, né lo stesso quadro ideologico e internazionale, né quella prospettiva di crescita economica che ha permesso alla rivolta di continuare nelle fabbriche negli anni Sessanta. Il fatto che molti vecchi elettori di sinistra o operai abbiano votato M5S lo scorso 4 marzo riflette la disaggregazione di questi strati sociali che non torneranno automaticamente a sinistra, solo perché il partito di Di Maio si è “rivelato” improvvisamente reazionario. Ma è importante ricordare che (anche all’epoca) la rivolta non era prevista.
Gli anni Cinquanta avevano visto un lento avanzamento del controllo dell’Msi sulle città dell’Italia meridionale; lo spirito propulsivo della Resistenza sembrava esaurito e la Repubblica arrivata a un vicolo cieco. In questo contesto, la violenza della polizia avrebbe potuto portare a una “soluzione” autoritaria, se non fosse stato per la determinazione di coloro che si mobilitarono per sconfiggerla, mantenendo viva la lotta anche quando molti compagni erano morti. Combatterono il governo di destra senza abbandonarsi alla disperazione, senza gridare che “L’Italia è un Paese di destra”, bensì con determinazione e fiducia nel futuro.
La situazione di oggi non è la peggiore di tutti i tempi; almeno per ora, i nostri governanti non ci stanno sparando. Dalla flat tax al reddito di cittadinanza, arrivando persino alle politiche migratorie, esistono fratture all’interno del governo, che non è né competente né unito come la classe dirigente di 60 anni fa. Gli scenari che tutto questo apre e il tipo di mobilitazioni possibili oggi contro il governo non assomigliano a quelli del 1960. Ma questo non significa che non ci sarà resistenza.