“La mia vicina dice che ci sarà la guerra civile, i miei amici si stanno già preparando a manifestare e io so soltanto che domenica uscirò di casa e voterò a qualunque costo”. Le parole sono di una studentessa 25enne di Barcellona, ma il sentimento è comune alla maggior parte dei catalani: quello che succederà il primo ottobre, in un modo o nell’altro, è destinato a entrare nella storia. Quel giorno è in programma in Catalogna un referendum così straordinario che potrebbe paradossalmente avere conseguenze più significative se venisse impedito.
L’1-0 dell’1-O (1 ottobre)
Non è detto, infatti, che l’ “1-O” si potrà effettivamente andare alle urne, ammesso e non concesso che le urne e le relative schede elettorali esisteranno davvero. Il Parlamento catalano, formato a maggioranza dalle coalizioni indipendentiste Junts pel Sí e Candidatura d’Unitat Popular, ha chiamato i suoi cittadini a esprimersi su un quesito di abbagliante chiarezza:
“Volete che la Catalogna sia uno Stato indipendente, in forma di Repubblica?”.
Non l’ha presa bene il Regno di Spagna: il 7 settembre il Tribunale costituzionale spagnolo ha sospeso la legge sul referendum approvata il giorno prima, vietando ai 948 sindaci della Catalogna e a 62 funzionari del governo di partecipare all’organizzazione. Dal giorno successivo sono cominciate in sordina le operazioni di sabotaggio della consultazione popolare: un crescendo di sequestri e perquisizioni, culminato nel caos del 20 settembre a Barcellona, giornata definita con sottile ironia dagli indipendentisti “colpo di Stato”.
Importanti esponenti del governo locale arrestati, agenti di polizia sguinzagliati nelle sedi istituzionali, navi cariche di volantini requisite nel porto e anche qualche manganellata ai manifestanti delle ramblas: “Una vergogna per la democrazia, la Spagna ha oltrepassato la linea rossa”, ha detto il presidente catalano Carles Puigdemont. Da Madrid gli hanno fatto notare che, data l’incostituzionalità del referendum, sono i catalani a infrangere la legge e i tribunali spagnoli a farla rispettare, ma intanto i sostenitori della secessione hanno raggiunto il loro primo obiettivo: un’azione repressiva che li ha incoronati martiri della libertà agli occhi della comunità internazionale.
Le proteste spontanee per le strade, rimbalzate sui social network hanno potenziato il messaggio, tra slogan sarcastici (“È un’urna, non morde”) e foschi riferimenti agli anni del Franchismo, quando il catalano era proibito persino nelle lettere personali e le autorità ringhiavano “Parla in cristiano” a chiunque osasse infrangere la sacra regola. Così l’asse della questione si è spostato dal dibattito riguardo l’indipendenza a quello sulla democrazia: gli ultimi dati del Centre d’Estudis d’Opinió dicono che i catalani favorevoli al “Sì”, sono meno della metà, il 41,1%, mentre da un sondaggio dell’istituto Metroscopia si nota che l’82% degli intervistati pretende comunque di scegliere il futuro della Catalogna, anche se con un referendum concordato con il governo nazionale.
Tradotto: il catalano non è per forza secessionista, ma non tollera che qualcun altro decida per lui. E l’arresto degli organizzatori del referendum gli ha fatto ribollire il sangue: anche gli scettici ora reclamano la loro scheda e il “Sì” attrae gli indecisi. Come ha scritto un attivista il 20 settembre su Twitter, “Complimenti a Rajoy, che oggi ha partorito migliaia di indipendentisti”.
Uno Stato nello Stato
Il motivo reale per cui il referendum “1-O” potrebbe davvero costituire la pietra angolare dell’indipendenza si chiama però Ley de transitoriedad jurídica y fundacional de la república ed è un’impalcatura di norme che dovrebbero reggere il nuovo Stato catalano nell’attesa che l’Assemblea costituente partorisca la sua Costituzione. I suoi promotori non hanno lasciato nulla al caso, dallo spostamento degli impiegati pubblici di sanità e istruzione all’espulsione immediata dell’esercito spagnolo dalla Catalogna. E visto che sanno con chi hanno a che fare, hanno previsto che la legge entri in vigore in maniera automatica non solo alla vittoria del “Sì” – non serve tra l’altro nemmeno un quorum di partecipazione – ma anche nel caso in cui il referendum venga impedito, come risulta chiaramente dalle disposizioni finali: “Se lo Stato spagnolo impedirà in modo effettivo la celebrazione del referendum, questa legge entrerà in vigore nel momento in cui il Parlamento [catalano] constati questo impedimento”. La Ley de transitoriedad è ovviamente carta straccia per le autorità spagnole, ma il rischio concreto è la nascita di uno Stato parallelo con il suo governo, le sue leggi e il suo apparato fiscale: compito reso più facile dall’alto grado di autonomia già previsto dall’attuale Statuto. Comunque vada, difficile che finisca a tapas e vino come il tentativo precedente, quello del novembre 2014. Allora, il presidente della Generalitat de Catalunya Artur Mas fu costretto a ripiegare su un “referendum simbolico”, che vide votare solo il 35% degli aventi diritto. Non un grande affare, nemmeno per le sue tasche, visto che Mas è appena stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire le spese relative all’organizzazione.
Lavoro d’esquadra
Un’altra spia del livello della tensione in Catalogna è il comportamento dei Mossos d’Esquadra, uno dei quattro corpi regionali di polizia presenti in Spagna – gli altri sono in Navarra, nel País Vasco e alle Canarie. I Mossos tecnicamente dipendono dal ministero dell’Interno catalano e non da quello spagnolo come gli altri due corpi, la Policía Nacional e la Guardia Civil. Madrid, che per abbondare ha inviato contingenti di rinforzo dalle altre regioni, ha però il potere di “commissariarli” e ovviamente lo ha fatto, subordinandoli per l’occasione a un colonnello della Guardia Civil. Il loro capo, Josep Lluís Trapero, non sembra gradire particolarmente il gioco di squadra e ha snobbato la riunione di coordinamento per il giorno del referendum, mentre il direttore dei Mossos Pere Soler ha scritto su Twitter che la sua missione è “garantire i diritti, non impedirne l’esercizio”. Ottimi esempi per i loro uomini che, come riporta El País, non fanno i salti di gioia quando devono obbedire al Tribunale. E chissà che la tendenza ostruzionistica non si trasformi in disobbedienza vera e propria il primo ottobre, magari se arriverà l’ordine di bloccare fisicamente le persone con la papeleta in mano: non è un caso che, durante le ultime manifestazioni di piazza, i catalani abbiano insultato gli agenti della Guardia Civil e scattato selfie con quelli dei Mossos.
Adiós, Europa
“L’indipendenza è un disastro, se nessuno ti riconosce”, ha comunque avvertito uno dei sovranisti più convinti, l’ex presidente Mas. Di certo non ci si aspettano le congratulazioni dalla Spagna: la Costituzione spagnola, manco a dirlo, non contempla il diritto di un proprio territorio alla separazione. Ci sarebbe comunque una sottilissima speranza di “secessione costituzionale”, tramite una riforma del Testo fondamentale: per approvarla però servirebbe un iter politico complesso, suggellato da un referendum a cui partecipino tutti i cittadini del Paese (articolo 92). Un po’ come chiedere alla sposa se vuole essere lasciata per rendere valido un divorzio. Ugualmente difficile entrare nel club dell’Unione Europea. Requisiti d’accesso fondamentali sono “essere uno Stato europeo” e “ottenere il riconoscimento unanime degli altri membri”. Un’ipotetica Catalogna indipendente parte male, perché già il Consiglio di Sicurezza dell’Onu (tra i cui membri permanenti ci sono Francia e Regno Unito) difficilmente metterebbe il timbro su una vicenda così complessa, come insegna il Kosovo, ancora uno “Stato a riconoscimento limitato”. Il benestare dei Paesi Ue non è neanche da chiedere, visto che tra i 28 c’è una Spagna ferita e mutilata. In compenso tutti i giuristi del continente potranno divertirsi con un interessante rompicapo: la Catalogna non può entrare nell’Unione, ma i suoi abitanti, in quanto cittadini spagnoli, possono farlo. E i paradossi, dall’impossibilità di usare l’Euro all’esclusione forzata dalla Nato, non finiscono qui, visto che lo scenario configurato sarebbe una novità assoluta. In Europa si sono celebrati referendum per l’indipendenza o l’autonomia concordati come quello della Scozia nel 2014 e persino uno per uscire dall’Unione restando all’interno dello Stato d’appartenenza, come fece la Groenlandia a partire dal 1985. Ma mai si era vista, a queste latitudini, una sfida frontale alla Costituzione di un Paese, incarnata da una consultazione pirata e unilaterale.
Successione e secessione
Nonostante le tesi di un revisionismo storico intriso di faziosità, la Catalogna davvero indipendente non lo è mai stata. Non lo era nemmeno prima del “peccato originale”, il matrimonio tra un diciottenne e una sedicenne che pose le basi per il complicatissimo progetto di convivenza della penisola. Isabella di Castiglia nel 1469 portò in dote il suo regno a Ferdinando d’Aragona, insieme strapparono agli arabi quello che restava loro dell’Andalusia e resero sudditi della stessa corona i nobili feudatari della Mancha e i mercanti dei porti sul Mediterraneo. Quello che allora si chiamava Condado de Barcelona possedeva un notevole grado di autonomia, che mantenne anche dopo l’unione dei due reami e conservò a lungo. Sicuramente fino all’11 settembre 1714, data simbolo in cui ricorre e si celebra la Diada de Catalunya: quel giorno il duca di Berwick ruppe l’assedio di Barcellona ed entrò in armi nella città, assoggettandola al regime centralistico della nuova casa reale. Si combatteva la Guerra di successione spagnola, sostanzialmente una questione di eredità dinastica fra Asburgo e Borbone e di bilanciamento della potenza fra le monarchie europee. Si trasformò in un tentativo di secessione e in uno scontro di modelli economici fra la borghesia mercantile catalana, sostenitrice degli Asburgo e ispirata al modello liberale anglo-olandese, e le aristocrazie agricole della Spagna centrale, leali al Re di Francia e favorite dal centralismo autoritario del suo delfino, come ha scritto (in catalano) uno degli storici più autorevoli in materia, Joaquim Albareda. Leggi e insegne del Principato di Catalogna, un sotto-regno dipendente dalla monarchia di turno, fecero quindi da scudo a una guerra civile dettata in gran parte da interessi economici, più che da questioni identitarie. Ma la senyera, la bandiera catalana, tornò spesso a sventolare accompagnata da richieste di indipendenza, e il sentimento sovranista continuò a covare sotto le braci anche durante le dittature di Primo de Rivera (1923-1930) e soprattutto Francisco Franco (1939-1975): due tipi che non mostrarono mai troppo rispetto per le istituzioni locali né per i diritti delle comunità regionali.
L’esercito (pacifico) dell’indipendenza
Sarà per questo che i catalani tengono in modo particolare alla loro autonomia. O sarà perché la Catalogna, come spesso capita alle regioni ricche, si sente defraudata da un prelievo fiscale che toglie alle sue industriose città per dare alle aree più arretrate. Su questo tema, che meriterebbe un trattato a parte, è tuttora in corso una guerra di numeri: quelli ufficiali del ministero dell’Economia dicono ad esempio che nel 2014 la Catalogna ha fatto registrare un deficit nella bilancia fiscale di quasi dieci miliardi di euro. Tanti, certo, ma comunque la metà di quelli versati dalla Comunità autonoma della capitale. In tempi di crisi economica, comunque, “Madrid nos roba” rimane un ottimo argomento di propaganda da bar, accompagnato dallo stereotipo dell’andaluso vagabondo che vive di sussidi, versioni iberiche dei noti “Roma ladrona” e “meridionali sfaticati”. Quello che invece non coincide con altri indipendentismi è la partecipazione trasversale della società civile: più di 1.300 ricercatori, ad esempio, hanno firmato a settembre un manifesto per supportare il “Sì” al voto dell’uno ottobre, mentre tra gli sportivi catalani, anche chi non vuole la secessione fa il tifo per il referendum. Al coro non poteva sottrarsi il Barcelona Futbol Club, “l’esercito disarmato della Catalogna”, come da definizione dello scrittore Manuel Vázquez Montalbán. I tifosi del Barça l’hanno preso in parola, visto che il Camp Nou pullula di bandiere gialle e rosse a ogni partita e al minuto 17:14 vibra forte il grido “Independencia”. Normale allora che calciatori e dirigenti si sentano spesso parte in causa e che qualcuno ci prenda gusto: Pep Guardiola, prima giocatore e poi allenatore simbolo della squadra è arrivato anche a candidarsi nelle liste di Junts pel Sí alle elezioni del 2015. Tutta acqua che corre al mulino dell’indipendentismo, accrescendo il soft power di una comunità che agli occhi degli stranieri appare libera, europeista e progressista, in contrapposizione a una Spagna percepita come repressiva, autoritaria e anacronistica. Se anche riuscisse a sfangarla il primo ottobre, il governo di Madrid sta comunque perdendo la sfida a lungo termine del consenso e dell’empatia con l’opinione pubblica internazionale.
E a ogni passo avanti degli indipendentisti catalani i separatisti di tutta Europa brindano, dalla Corsica ai Paesi Baschi, dai Fiamminghi del Belgio ai tedeschi del Südtirol. Non è detto che sia un male: uno Stato è sempre legittimo per se stesso e per altre entità simili a lui. Duecento anni fa l’Europa era divisa fra regni e imperi e tutti i sovrani si consideravano legittimi, soffocando i nascenti nazionalismi. Fra qualche secolo, magari, saranno gli Stati nazionali a finire sui libri di storia come vetusti ricordi del passato. Conviene alla Spagna trascinare con sé a forza, per tutto l’arco della sua storia, un popolo insofferente, una costola testarda e recalcitrante da cui periodicamente giungono rigurgiti di indipendentismo? Come ha scritto Antonio Baños nel suo saggio La Rebelión catalana, “La nostra indipendenza non è intesa come allontanamento o isolamento, ma come rifondazione delle relazioni fra le nazioni iberiche”. Se davvero l’Unione europea del futuro sarà una comunità di Stati solidale, coesa e con interessi convergenti, come è nelle migliori intenzioni di tutti, non dovrebbe essere così importante se dietro la sua bandiera sventoli una senyera o una rojigualda.