Il caso Giorgia Meloni, ovvero la necessità di combattere il sessismo anche per chi promuove odio - THE VISION
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Lo scorso sabato, durante una trasmissione sulla radio fiorentina Controradio, il professore dell’Università di Siena Giovanni Gozzini ha pronunciato una serie di gravi epiteti sessisti rivolti contro Giorgia Meloni. Da quando il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli ha divulgato per primo la notizia, Meloni ha ricevuto il sostegno di molti esponenti politici, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a parlamentari di tutti gli schieramenti. La redazione di Controradio si è dissociata dall’accaduto e Gozzini è stato sospeso dall’ateneo. Tuttavia, la solidarietà nei confronti della leader di Fratelli d’Italia non è stata unanime. Selvaggia Lucarelli, per esempio, ha spiegato con un post Facebook che non esprime la propria solidarietà a Meloni, pur condannando le parole del professore, perché non può essere solidale verso chi quotidianamente semina odio.

Giovanni Gozzini

È vero, Giorgia Meloni ha una lunga storia di dichiarazioni e uscite controverse ed è alla guida di un partito vicino agli ambienti neofascisti. Se si parte dall’idea che tutte le oppressioni siano in qualche modo connesse, non si può negare che Fratelli d’Italia si sia fatto portavoce di una cultura che normalizza l’odio, alimentando la paura del diverso e favorendo politiche che sono lesive dei diritti delle minoranze. Meloni non ha mai nascosto la sua contrarietà ai tentativi di arginare i fenomeni d’odio, sostenendo che non vi sia alcuna emergenza in tal senso. D’altronde, fu proprio il suo partito che, insieme alla Lega, nel 2019 non si alzò ad applaudire la senatrice Liliana Segre che aveva promosso la Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza.

Liliana Segre

Il fatto che Meloni pensi che perseguire i reati d’odio sia una forma di censura non significa però che quando è lei a esserne vittima allora chi dovrebbe combatterli possa sottrarsi dall’esprimerle solidarietà, come per ripagarla della stessa moneta. Anche perché c’è un abisso tra l’opposizione, anche dura, verso comportamenti o idee e l’insulto personale, in questo caso aggravato anche dal movente sessista. Nel caso di Controradio, infatti, Meloni non è stata contestata per le sue idee o per le sue posizioni politiche, ma è stata attaccata in quanto donna, con termini che non sono generici insulti, ma che hanno un significato ben preciso di umiliazione verso il genere femminile. Non si può ignorare questo significato o credere che in questa vicenda sia irrilevante, a meno che non si creda che gli stessi insulti sarebbero stati rivolti con simile leggerezza anche a un uomo.

Al posto di un personaggio controverso come Meloni poteva esserci chiunque, come ci sono state in passato e ci sono tuttora donne come Laura Boldrini, Mara Carfagna, Maria Elena Boschi e tante altre, vittime a cadenza regolare di attacchi ed epiteti sessisti da parte di colleghi, commentatori e giornalisti. Tenere a mente questo fatto quando si è di fronte a un attacco che si basa sull’identità è importante per capire come funzionano le discriminazioni, di qualsiasi tipo: la gravità non prescinde dalla persona contro cui è rivolto. Pensarlo significa porre l’accento sui comportamenti individuali, una prassi pericolosa che alimenta quello che viene chiamato victim blaming, cioè la ricerca delle cause della violenza nelle azioni della persona che l’ha subita. L’altra conseguenza deleteria di questo atteggiamento è spostare l’attenzione dal gesto sessista alle qualità morali delle persone coinvolte: ora il dibattito si è spostato sul fatto se sia giusto o meno solidarizzare con Meloni, anziché chiedersi come sia possibile che una figura pubblica e di prestigio come un professore universitario si sia sentito libero di esprimersi a quel modo.

Laura Boldrini
Mara Carfagna
Maria Elena Boschi

Il sessismo infatti – così come il razzismo, l’omotransfobia, l’abilismo – non riguarda mai solo chi lo perpetra e chi lo subisce, ma è il prodotto di una cultura di cui siamo tutti permeati. Gli insulti a Meloni sono arrivati durante una trasmissione di commento politico, da parte di un uomo che stava parlando con altri uomini, in un contesto che è però diventato di “gomitate al maschile”, come l’ha definito la scrittrice Loredana Lipperini. Una simile dinamica è resa possibile da un clima culturale che ritiene possibile, se non addirittura normale, che un uomo dica certe cose. Basterebbe ricordare che Vittorio Sgarbi, che ora sbraita di “censura, dittatura, fascismo di sinistra” in difesa di Meloni, sei mesi fa veniva portato fuori di peso dall’aula di Montecitorio dopo aver insultato con epiteti sessisti le deputate di Forza Italia Giusi Bartolozzi e Mara Carfagna.

Che sia un personaggio come Sgarbi o un “professorone di sinistra” a insultare le donne, la sostanza non cambia: la cultura del sessismo ci riguarda tutti. Sostenere il contrario è esattamente il motivo per cui Lega e Fratelli d’Italia si astennero dal votare la Commissione Segre, ritenendo che gli episodi discriminatori fossero roba da “malati di mente”, cioè episodi sporadici che non ci interessano collettivamente. Anche se Meloni non crede che ci sia un enorme problema di odio in Italia verso le donne, le minoranze e i gruppi marginalizzati, negarle la solidarietà o addirittura pensare che in fondo ha solo raccolto ciò che ha seminato significa assecondare questa idea e disconoscere la natura sistematica del problema.

Vittorio Sgarbi

Allo stesso modo, non deve stupire che a pronunciare parole sessiste siano esponenti di quella parte politica che dovrebbe schierarsi, almeno in apparenza, contro ogni forma di discriminazione. L’appartenenza politica non è sinonimo di integrità, specialmente per quanto riguarda le questioni di genere: basti pensare alla marginalizzazione delle donne da parte del Pd nell’ultima formazione di governo, che altro non è che l’ennesimo esempio della lunga storia del sessismo nel centrosinistra (e anche nell’estrema sinistra). Se verso le colleghe di partito il sessismo si traduce spesso in paternalismo e condiscendenza, contro le avversarie vale tutto, insulti compresi. Senza contare poi che uscite di questo tipo non solo offrono il fianco a giornalisti e opinionisti di destra nel rinforzare la loro retorica contro l’ipocrisia della sinistra o “il fascismo degli antifascisti”, ma mettono anche i gruppi più politicizzati nella scomoda posizione di dover solidarizzare con Giorgia Meloni, vittima di attacchi che non si possono ignorare, ma allo stesso tempo promotrice di politiche che li danneggiano.

Nessuna donna, anche se non ci piace o non ne condividiamo le idee, può essere chiamata “scrofa”. Non è una questione di politicamente corretto, né di nostalgia per una presunta età dell’oro in cui la politica era una cosa per alti spiriti nobili che andavano in spiaggia in giacca e cravatta e non dicevano le parolacce: è una questione di giustizia sociale. Oggi è Giorgia Meloni, ieri era Laura Boldrini, ogni giorno sono migliaia di donne che ricevono insulti di questo tipo. Il fatto che la persona che li ha ricevuti si limiti a riconoscerli solo quando toccano a lei, non giustifica in alcun modo l’idea che se li meriti. Se questo dibattito continuerà a concentrarsi sulla legittimità o meno della solidarietà a Giorgia Meloni avremo perso l’occasione di denunciare ancora una volta quanto il sessismo e le discriminazioni ci riguardino tutti.

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