I Cinque Stelle sono al settimo cielo, o almeno ci tengono a mostrarlo. Hanno stappato lo champagne in piazza Monte Citorio, alla faccia della sovranità alimentare. Cosa si festeggia? L’abolizione dei vitalizi, nientemeno. “Per quanto tempo abbiamo aspettato che questi privilegi venissero cancellati! Ora ci siamo!”, cinguetta giulivo il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio. In realtà è solo una delibera dell’ufficio di presidenza della Camera, al Senato per ora non cambia nulla. Inoltre, i vitalizi sono già stati aboliti dal governo Monti nel 2011, la delibera riduce soltanto quelli già assegnati, ricalcolandoli col metodo contributivo. Ah, e forse è incostituzionale. Ma non importa: champagne! Bisogna festeggiare, e bisogna farlo proprio nel momento in cui l’alleato-rivale Matteo Salvini soffre di un piccolo problema di liquidità: 49 milioni di rimborsi elettorali che la Lega dovrebbe restituire ma non si trovano più.
A Salvini, in questi ultimi due mesi, è bastato chiudere i porti a qualche centinaio di poveracci per rubare la scena a Di Maio e al presidente del Consiglio Antonio Conte. Quei soldi però sono il suo punto debole. Il decreto sui vitalizi non porta un granché nelle casse dello Stato, ma come mossa propagandistica è un colpo sotto la cintura al leader leghista. Lui non trova 49 milioni, i Cinque Stelle, con una delibera, ne hanno già recuperati 40.
Salvini in effetti si trova in una posizione difficile. La sua linea di difesa è accusare la Lega di Bossi, ma in quel partito lui era un dirigente importante, un eurodeputato già primatista per assenteismo. Quando Bossi e il tesoriere Francesco Belsito finiscono nei guai, l’attuale segretario, quatto quatto, fonda una nuova Lega indistinguibile dalla vecchia, che si costituisce parte civile nel processo contro i vecchi dirigenti. Salvini si considera danneggiato da chi ha riempito i conti del partito truccando i bilanci, ma continua a incassare centinaia di milioni dagli stessi conti. “Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato”, gli scrive l’avvocato di Bossi. Ma Salvini i soldi li ha incassati comunque, e probabilmente li ha anche già spesi: non è gratis portare un partito dal 4% al 17% in quattro anni.
In tutto questo tempo il vice-premier leghista non è mai rimasto fermo, anche il suo più convinto oppositore glielo deve riconoscere. Ha girato l’Italia in lungo e in largo, mentre a Bruxelles continuano ad aspettarlo invano. Ha riorganizzato il partito, ha conquistato la ribalta in tv e su internet con campagne virali molto efficaci. Tutto questo ha un costo, ma anche l’appoggio di Mediaset, che è gratis, sicuramente lo ha molto aiutato. In generale poi, tutti i partiti hanno drasticamente ridotto le spese elettorali, e questo può averlo favorito nel momento in cui lui si trovava invece un bel gruzzoletto sul conto. Ha preferito spenderlo prima che venisse sequestrato. La democrazia italiana è diventata all’improvviso scalabile, e il successo repentino della Lega salviniana e del M5S ne è la prova. Questo succede perché i partiti, dal momento che mancano i soldi, hanno smesso di stampare manifesti, organizzare eventi, investire in comunicazione.
Il buco della Lega è solo la punta dell’iceberg. Persino Forza Italia è in difficoltà e non paga più i debiti. Nemmeno il Pd, erede delle due più radicate tradizioni politiche della Repubblica Italiana, quella democristiana e quella comunista, se la passa bene. Non trova più la sua identità, la sua unità, ma fa anche una certa fatica a trovare i soldi. Per questo motivo continua a licenziare i propri dipendenti, in un progressivo ridimensionamento che sembra non avere mai fine. Anche nelle regioni dove il Pd è più radicato, le Feste dell’Unità (talvolta ribattezzate “Democratiche”) sempre più spesso chiudono in rosso. È il tramonto di un modello che si basava sul volontariato degli attivisti, giovani operai e pensionati, e poi col tempo sempre meno giovani e operai e sempre più pensionati. Era chiaro da almeno vent’anni che le Feste non avrebbero retto il passaggio di consegne a una generazione più precaria e meno attivista: c’era il tempo per trovare nuove forme di autofinanziamento, ma i quadri del Pd non sembrano essersene molto preoccupati.
Può darsi che considerassero i ricavi delle feste delle briciole: il grosso delle entrate arrivava dallo Stato. Ma ecco, i dirigenti del Pd hanno fatto di tutto per ridurre anche quello. Fu il governo Letta, nel 2014, a ottenere dal parlamento la sostanziale abolizione dei rimborsi elettorali. Non era una semplice concessione al pauperismo del Movimento grillino: già in una delle prime Leopolde Matteo Renzi sosteneva che il finanziamento pubblico andasse “abolito o drasticamente ridotto”. Ma a quel punto dove avrebbe trovato il Pd i soldi per fare politica? Guardando alla trionfale campagna di Barack Obama, Renzi chiedeva di favorire il finanziamento privato “attraverso donazioni private in totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità”. Insomma, si immaginava che gli imprenditori gli avrebbero dato una mano contro Silvio Berlusconi, che tenerezza; a quel tempo era la giovane promessa della politica italiana, Sergio Marchionne si era incuriosito, Oscar Farinetti era entusiasta. Sembra passato così tanto tempo.
Il governo Letta istituì anche il due per mille sull’imposta del reddito a favore dei partiti, sulla falsariga dell’otto per mille che il contribuente deve decidere se versare alla Chiesa cattolica, ad altri enti religiosi o allo Stato. Già solo il fatto che per la politica sia previsto un quarto di quanto destinabile alla religione la dice lunga sul rispetto che i legislatori del 2014 nutrivano per se stessi.
Il denaro dell’otto per mille viene distribuito comunque, che il contribuente lo voglia o no. Più della metà non sceglie la sua destinazione, ma anche se non barra nessuna voce del modulo, la sua quota sarà comunque ridistribuita tra gli enti presenti nell’elenco secondo la proporzione di chi ha fatto la scelta – una modalità che ha sempre favorito la Chiesa cattolica. Il due per mille, invece, non funziona così: il contribuente può anche scegliere di non finanziare nessun partito e, indovinate, di solito opta proprio per questa soluzione. Nel 2017 appena il 3% dei contribuenti ha devoluto il due per mille ai partiti, per un totale complessivo abbastanza risibile di 15 milioni.
E quindi, ricapitolando: se nessun importante gruppo economico ha più voglia di investire nel tuo partito, i contribuenti non ti vogliono devolvere neanche il due per mille delle loro tasse e alle feste non si trova più nessun pensionato disposto a friggere la salsiccia gratis, il tuo partito non puoi finanziarlo. Di solito poi, quando si scopre il buco nei bilanci, si pensa che un tesoriere sia scappato con la cassa. In diversi casi è davvero andata così, ma la corruzione nasce spesso all’ombra dell’ipocrisia. I politici sono le persone a cui deleghiamo la gestione della cosa pubblica. A un certo punto abbiamo avuto l’idea abbastanza sconsiderata di renderli poveri, indebitati, disperati, lasciandoli comunque dentro la stanza dei bottoni. Non è che possiamo stupirci che un gatto chiuso in una voliera diventi feroce. Se progressivamente escludi ogni forma di finanziamento legale, metti un partito di fronte a una scelta: estinguersi, o sopravvivere ricorrendo a forme di finanziamento illegali. Alcuni scelgono di sopravvivere: davvero, non è così sorprendente.
Non è comunque il caso del Pd. Sabato 7 luglio c’è stata l’assemblea nazionale: i dirigenti hanno avuto a disposizione tutto il tempo per analizzare la sconfitta e sviscerarne le cause. Si è parlato delle responsabilità di Renzi, di quelle di Paolo Gentiloni e di tantissime altre cose, ma non si è praticamente parlato dei debiti, come in certe famiglie perbene di una volta. Il fatto che il Pd sia in sofferenza, che non possa permettersi i manifesti, che stia licenziando i dipendenti non è interessante, non è attinente, non ha nemmeno senso parlarne mentre si elencano le cause per cui si sono perse le elezioni.
Eppure persino l’italiano più irrazionale, come un qualsiasi tifoso di calcio, sa benissimo che tra i risultati della squadra e il bilancio della società c’è una correlazione. Se vuoi vincere devi investire, se vuoi investire ti servono i soldi, se non trovi i soldi non puoi scendere in campo e pensare che col nuovo regolamento comunque hai qualche chance di pareggiare con l’avversario e poi giocartela al ballottaggio, perché non è così che funziona. Se sei povero hai molte probabilità di perdere; e ormai il Pd è povero. L’analisi della sconfitta potrebbe anche iniziare da qui.
Quando Renzi dice che Gentiloni non avrebbe dovuto aggirare il referendum sui voucher, ma andare allo scontro coi sindacati, sembra ignorare che da uno scontro del genere il partito rischiava seriamente di uscire a pezzi, perché qualche fondo per mobilitare la sua base e organizzare una seria campagna referendaria, la Cgil ancora ce l’ha. Non è un partito leggero che ama tagliarsi le entrate legislatura dopo legislatura: è un’organizzazione radicata sui territori che incassa i contributi degli iscritti. Renzi voleva farci la guerra, probabilmente credeva che l’avrebbe vinta sul piano degli hashtag. In fondo era uno dei suoi cavalli di battaglia già nella sopracitata Leopolda del 2011: perché buttar via soldi nella comunicazione sui giornali, quando su internet un partito può “produrre a costo zero il suo bollettino o il suo house organ“? Oggi conosciamo la risposta (in realtà molti la indovinavano anche nel 2011): perché i bollettini a costo zero mediamente fanno schifo. Ormai anche per lanciare una campagna virale su Internet servono competenze, professionalità, quindi soldi. Renzi si è fatto sviare da quello che ormai sembrava il suo principale concorrente, il Movimento Cinque Stelle: anche i grillini hanno sempre snobbato i canali tradizionali della comunicazione politica, la tv o i manifesti. Ma il M5S è un partito pauperista: l’aspetto amatoriale della sua comunicazione non è un incidente, è esattamente quello che si aspettano i suoi elettori. Il Pd, anche per contrasto, in questi anni ha sempre puntato più sull’idea della competenza, della professionalità, della scienza contro le bufale, ma si è trovato nella condizione di veicolare questi messaggi attraverso strumenti artigianali come Matteo Renzi News.
“Siamo stati gli utili idioti dei Cinque Stelle”, ha confessato qualche giorno fa un ex-grande tesoriere di partito, Ugo Sposetti. È difficile dargli torto. La bancarotta dei partiti, a cominciare da quelli maggiormente radicati nel territorio (Lega e Pd) è un pericolo per la democrazia e prefigura un futuro prossimo in cui soltanto chi avrà sponsor potenti (industriali, politici esteri) potrà fare seriamente politica in Italia. Negli ultimi vent’anni i partiti tradizionali hanno subito la concorrenza di partiti-azienda, accettando senza combattere l’idea che il finanziamento pubblico – una garanzia di democrazia – fosse il male. I Cinque Stelle sono stati il colpo finale: un prodotto messo in commercio sottocosto al puro scopo di far fallire la concorrenza. Ormai ce l’hanno fatta: champagne! Era dumping politico e bisognava accorgersene prima. Ma serviva il tempo, servivano le idee, servivano gli esperti, insomma servivano i soldi. E non li aveva più nessuno.