Il 14 maggio Donald Trump ha tenuto fede alle sue promesse, inaugurando l’ambasciata statunitense a Gerusalemme e riconoscendo quindi la Città Santa come capitale di Israele. Per la verità, alla cerimonia di inaugurazione non erano presenti né il quarantacinquesimo presidente, né il suo amorevole vice, Mike Pence: da Washington è partita una delegazione composta da Ivanka Trump, il marito Jared Kushner, il vice segretario di Stato John S. Sullivan e il segretario al Tesoro Steven Mnuchin. E mentre Ivanka scopriva la nuova targa dell’ambasciata, a Gaza continuavano le proteste per la Marcia del Ritorno, con un bilancio ancora più grave di quello delle ultime settimane: almeno 62 palestinesi uccisi e oltre 2000 feriti. Una contrapposizione di scenari tanto surreale quanto grottesca, che è stata presto notata da molti dei media e dei commentatori internazionali.
C’è però un aspetto che è stato trascurato al di fuori dei confini statunitensi: i pastori che hanno pronunciato le benedizioni all’apertura e alla chiusura della cerimonia sono due figure piuttosto controverse, e, soprattutto, fanno parte della comunità evangelica, componente demografica estremamente influente all’interno dell’establishment repubblicano, specialmente per quanto riguarda le scelte di politica estera – comprese quelle che riguardano il Medio Oriente.
Il primo è Robert Jeffress, pastore della Prima Chiesa Battista di Dallas, che nella sua preghiera ha ringraziato Dio per averci dato un presidente come Donald Trump, “che, quando si parla di Israele, sta dalla parte giusta”, oltre a lodare Bibi Netanyahu per la sua “coraggiosa leadership e la determinazione nel fare tutto ciò che è necessario per proteggere il proprio popolo.” Ha poi ricordato la fondazione di Israele nel 1948, definendola il momento in cui “Dio ha esaudito le profezie dei profeti di migliaia di anni fa”. Il secondo è John Hagee, fondatore nel febbraio 2006 di Christians United for Israel (CUFI), ovvero la più grande organizzazione pro-Israele degli Stati Uniti, che a maggio 2018 vanta oltre 4,1 milioni di iscritti. Nella sua benedizione al termine della cerimonia ha a sua volta elogiato “il coraggio” di Trump per aver finalmente riconosciuto una verità millenaria: Gerusalemme è la città in cui il Messia tornerà per stabilire il suo nuovo regno.
La scelta dei due pastori ha del paradossale, se si considera che Robert Jeffress, in un’intervista del 2010, ha dichiarato: “Non puoi essere salvato se sei ebreo”, definendo poi mormonismo e islam eresie “cresciute tra le fiamme dell’inferno”. Il caso di John Hagee è forse ancora più pittoresco, visto che il predicatore si è reso celebre per le sue dichiarazioni non proprio all’insegna del politicamente corretto. Una di queste è particolarmente rilevante per il caso in questione: in un sermone alla fine degli anni Novanta Hagee ha affermato che l’ascesa di Hitler e l’Olocausto avrebbero fatto parte di un “progetto divino” per far sì che gli ebrei tornassero nella Terra Promessa.
Gli evangelici, con la loro interpretazione rigorosamente letterale dei testi sacri, vedono il Medio Oriente attraverso il prisma biblico. Questo implica che per loro Israele debba per forza appartenere al popolo ebraico, non tanto per un nobile spirito di solidarietà, quanto piuttosto perché nel momento in cui gli eletti torneranno nella Terra Promessa, e questa sarà ripristinata ai suoi confini biblici – la “Grande Israele” tanto cara ai sionisti irredentisti – Gesù Cristo potrà tornare sulla terra, per stabilire un regno millenario che si concluderà con il giudizio universale. In quest’ottica, il trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme e il riconoscimento della città come la capitale di Israele sarebbe un passo avanti verso il climax del “rapimento” descritto nell’Apocalisse, quando tutti i Cristiani, vivi e morti, si riuniranno a Dio.
Difficile dire quanto Donald Trump sposi di questa teoria, ma è bastato che ne fossero convinti gli evangelici. Una comunità che oggi conta 100 milioni di adepti, l’81% dei quali ha votato l’attuale quarantacinquesimo presidente alle scorse elezioni, nel novembre 2016. Sempre di quei 100 milioni, un terzo è formato da ferventi supporter dello Stato israeliano, tanto da costituire un movimento autonomo, il cosiddetto “sionismo cristiano”. Le cifre dell’endorsement evangelico alla causa sionista diventano ancora più rilevanti se accostate a quelle relative alla comunità ebraica statunitense: solo il 16% supportava, nel 2017, il trasferimento immediato dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme (il 36% era a favore, ma solo quando i negoziati di pace tra Israele e Palestina fossero progrediti); tra gli evangelici, invece, ben il 53% era d’accordo con la decisione di Trump.
C’è quindi un grosso fraintendimento da chiarire, nel momento in cui si considerano le scelte di politica internazionale degli Usa nell’ambito del conflitto israelo-palestinese e di tutti i negoziati che ne sono conseguiti: più che di attività di lobbying da parte della comunità ebraica, si dovrebbe parlare di pressioni – ovviamente pro-Israele – per buona parte imposte dalla comunità cristiana evangelica, che negli ultimi decenni ha assunto un ruolo sempre più determinante nei confronti delle diverse amministrazioni. Forse ricorderete i sermoni infuocati di Billy Graham, celebre predicatore evangelico della metà del secolo scorso. Da allora questa pia congregazione ne ha fatta di strada: l’evangelismo è entrato a far parte del mainstream religioso statunitense, mentre un presidente dopo l’altro o si presentava come la perfetta mascotte evangelica, oppure sceglieva come spiritual advisor un pastore appartenente a questa denominazione. E se Fred Trump, padre del tycoon, era un grande fan del predicatore Graham, oggi il figlio di quest’ultimo, Franklin, sostiene la maggior parte delle scelte politiche di Donald. E, in tutto questo, Billy Graham ha fatto sì che il supporto per la causa sionista diventasse un imperativo morale per chiunque volesse definirsi un buon evangelico.
Forse a qualcuno verrà da chiedersi cosa possa legare l’attuale presidente a una comunità religiosa convinta che un libro presumibilmente vecchio più di 2mila anni possa dare indicazioni coerenti su come vivere al meglio la propria vita. In realtà, il binomio Trump-evangelici d’America non si fonda tanto nella comunanza di vedute, quanto piuttosto su una relazione di reciproci benefici, per cui il presidente si assicura l’appoggio elettorale di quella che di fatto è un’importante fetta demografica della nazione, mentre gli evangelici possono stare tranquilli: l’amministrazione dell’attuale commander in chief li aiuterà ad arrivare spediti al giudizio universale, o farà in modo che abortire diventi più difficile del raggiungimento dell’estasi mistica.
Questo comodo accordo aiuterà in parte a capire perché Trump stia riempiendo la propria amministrazione di pii e ferventi cristiani, primo fra tutti Mike Pence, il campione del sionismo non ebraico. O la nomina di Neil Gorsuch alla Corte Suprema, o di Betsy DeVos come segretario all’istruzione, molto sensibile alle necessità delle scuole religiose e private. Non sorprenderanno a questo punto né il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, né l’evidente e rinnovato impegno a sostenere Israele come principale alleato in Medio Oriente, talvolta oltre ogni vincolo della legalità. Non si tratta d’incoscienza, sebbene molti siano naturalmente portati a crederlo. Né si tratta di semplice rottura con l’atteggiamento estremamente cauto e distaccato, almeno per quanto riguarda i rapporti con Netanyahu, tenuto negli scorsi anni da Barack Obama. Donald Trump si ricorda bene di quell’81% di evangelici che l’ha portato alla Casa Bianca, ed è ora molto attento ad assicurarsi che tale supporto non vacilli – specialmente in vista delle midterm elections del prossimo autunno.
Nel 2002 il predicatore evangelico Jerry Falwell ha dichiarato ai microfoni di CBS News: “Sono convinto che la Bible Belt americana sia oggi l’unica rete di sicurezza di Israele”. Sedici anni più tardi, l’opinione pubblica statunitense di stampo liberal si sta sempre più smarcando dal generale orientamento sionista, lasciando progressivamente spazio a posizioni di dissenso che fino a pochi anni fa sarebbero state ritenute inaccettabili. La comunità evangelica, però, continua a far sentire il proprio peso sull’establishment repubblicano – persino più di quanto facesse negli anni della presidenza di George W. Bush. E se è questo quello che serve a Trump per far crescere i tassi di approvazione, che sarà mai una rilettura del libro dell’Apocalisse?