Il voto non è un privilegio ma un diritto, eppure per 5 milioni di fuorisede non lo sarà - THE VISION

Secondo le ultime stime, in Italia i fuorisede sono circa 5 milioni e il 25 settembre, in occasione delle prossime elezioni politiche, si troveranno di fronte a un bivio: affrontare un viaggio non previsto, spesso per centinaia di chilometri e spendendo cifre notevoli o, in alternativa, astenersi dal voto. Ciò non farà che aggravare un tasso di astensionismo giovanile già di per sé molto alto: sembra, infatti, che gli appartenenti alle generazioni Y e Z che si recheranno a votare saranno meno della metà del totale – una cifra inferiore anche a quella del 2018, quando parteciparono alle elezioni circa il 55% degli under 35. Nel tentativo di limitare i disagi economici e organizzativi legati al tragitto, nelle ultime settimane Possibile, a guida dell’ex deputata Beatrice Brignone, ha reso pubblico un modulo attraverso il quale elettori ed elettrici avranno la possibilità di mettersi in contatto con altri fuorisede, per condividere le spese del viaggio. Ciononostante, è probabile che il giorno delle elezioni buona parte di queste persone rinuncerà, suo malgrado, a esprimere il proprio voto, mentre solo la minoranza più economicamente e geograficamente privilegiata avrà la possibilità di esercitare un diritto che, in teoria, dovrebbe essere costituzionalmente garantito.

Quella del voto dei fuorisede è una vecchia storia, ciclicamente ripresa dalla classe politica e dai media in occasione di ogni tornata elettorale e altrettanto regolarmente lasciata cadere nel dimenticatoio con la fine delle elezioni. L’ultimo disegno di legge al quale il Parlamento stava lavorando prima che cadesse il Governo, a firma della deputata del Partito Democratico Marianna Madia, risale al 28 marzo 2019. La legge introdurrebbe, previa la certificazione della propria condizione di “fuorisede” per motivi di studio, lavoro o salute, la possibilità di votare in un seggio diverso da quello in cui la persona risulta iscritta o di esprimere il proprio voto per corrispondenza, a seconda della natura della votazione (referendum nazionali nel primo caso, elezioni dei rappresentanti nel secondo, presso la Camera e il Senato o il Parlamento europeo). Non solo: in alternativa al voto per corrispondenza, la proposta di Madia prevedrebbe anche l’introduzione di un sistema telematico di votazione, utile sia per velocizzare i tempi, sia per ridurre i rischi connessi all’utilizzo della posta ordinaria. Tutte idee interessanti ma, per ovvie questioni di tempo, destinate ad arenarsi per l’ennesima volta.

Marianna Madia

L’ultimo tentativo di risolvere il problema prima del 25 settembre riguarda l’interrogazione parlamentare presentata dalla leader di +Europa Emma Bonino e dal deputato Riccardo Magi alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, alla quale è stata poi allegata anche una petizione popolare. La richiesta, piuttosto generica, riguarderebbe di fatto la necessità di “fare qualcosa” per consentire a oltre il 10% del corpo elettorale – quello composto dai fuorisede, appunto – di esercitare il proprio diritto di voto, tramite l’introduzione di strategie alternative come il voto per corrispondenza – già previsto per le persone con cittadinanza italiana e residenti all’estero –, il voto anticipato “presidiato” – vale a dire la possibilità di votare nei giorni precedenti a quello delle elezioni e con tutte le garanzie previste per un seggio ordinario, come già previsto in Danimarca – o quello elettronico.

Le possibilità sono molteplici e, va detto, non senza criticità: posto che l’articolo 48 della Costituzione prevede che il voto debba essere “personale, eguale, libero e segreto”, infatti, l’utilizzo della corrispondenza non è in grado di garantire che la preferenza espressa sia davvero “libera”, dal momento che non è possibile escludere che la persona in questione sia stata in qualche modo forzata a votare per un partito piuttosto che un altro. Il voto elettronico, dal canto suo, pone diversi problemi relativi alla segretezza dei dati e lo stesso vale per quello “per delega”, una procedura che consentirebbe a una persona ad autorizzare qualcun altro a votare per suo conto e già adottata in Paesi come la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi. Dall’altra parte, la prova che non si tratti di problemi insormontabili è evidente dal momento che l’Italia è, insieme a Malta e Cipro, l’unico Paese europeo a prevedere un’unica modalità di votazione – tranne per le persone temporaneamente residenti all’estero o iscritte all’A.I.R.E (anagrafe degli italiani residenti all’estero): per queste, le problematiche legate al voto per posta sembrano non sussistere.

Sorge spontaneo, a questo punto, chiedersi perché il nostro Paese appaia così reticente rispetto alla possibilità di ampliare le possibilità di voto. Non è certo una sorpresa, come nota la deputata del Pd Giuditta Pini: “Il nodo è puramente politico, e si chiama status quo. [Consentire ai fuorisede di votare] vorrebbe dire cambiare gli assetti politici di collegi e città, soprattutto nei luoghi in cui l’astensionismo è sempre alto”. In altre parole, favorire la partecipazione politica di tutte le persone giovani imporrebbe ai candidati e alle candidate di turno di modificare drasticamente un’agenda politica costruita da e per le generazioni più anziane. Non è un caso se, in un Paese dove il 23% della popolazione ha più di 65 anni (la percentuale più alta d’Europa) e l’età media dei cittadini sfiora i 50, la proposta di innalzare indistintamente le pensioni, anche se iniqua e tecnicamente impraticabile, appaia spesso più appetibile rispetto a molte politiche giovanili, come quelle volte a favorire l’ingresso degli under 30 nel mondo del lavoro.  

Alla discriminazione generazionale che caratterizza il corpo elettorale si aggiunge poi, nel caso delle persone fuorisede, quella legata a un sistema elettorale clamorosamente classista, nonché del tutto noncurante del divario esistente fra il Nord e il Sud del Paese in termini di disponibilità economiche, efficienza dei trasporti e capillarità delle infrastrutture. Dei quasi 2 milioni di persone (il 38% del totale dei fuorisede) che, fra andata e ritorno, impiegherebbero oltre quattro ore di auto (nel 15% dei casi più di dodici) per recarsi al proprio seggio, infatti, oltre la metà risiede nelle province del Sud, dove non solo la rete autostradale scarseggia e l’alta velocità è pressoché inesistente, ma anche i prezzi di aerei e treni sono spesso proibitivi, soprattutto in occasione di ponti, festività o, come in questo caso, elezioni nazionali. Così, anche laddove i trasporti arrivano, i rincari che caratterizzano i periodi elettorali svuotano di efficacia le agevolazioni introdotte per i fuorisede (come quelle previste quest’anno da Trenitalia o, nel 2021, da alcune compagnie aeree e di navigazione), rendendo il prezzo finale del biglietto non troppo diverso dal quello che sarebbe stato in un giorno qualunque.

Va da sé che, in questo modo, le persone fuorisede che riusciranno a votare saranno solo quelle che se lo possono permettere, tendenzialmente residenti al Nord. Non solo, dalle elezioni rimarranno escluse anche molte persone con problemi di mobilità (permanenti o temporanei) a causa dell’impossibilità – o della difficoltà – di recarsi autonomamente al seggio previsto nel giorno stabilito. Molte persone anziane, poi, si scontreranno con le difficoltà funzionali legate alla necessità di recarsi nei seggi previsti, finendo, in molti casi, per rinunciare al voto. Il tasso di astensionismo fra gli over 70 è infatti molto alto. A queste si aggiungeranno poi le persone costrette, per ragioni di salute, a trascorrere un periodo di permanenza lontane da casa, a causa della necessità di effettuare cure mediche in strutture specializzate distanti dal proprio Comune, per quelle ricoverate in ospedale sarà invece consentito il voto a distanza.

Al di là delle proposte di legge – tuttora ferme – in Parlamento, negli ultimi anni sono state diverse le mobilitazioni dal basso volte a rivendicare il diritto di voto per le persone fuorisede, promosse principalmente dal Comitato civico Iovotofuorisede, dall’associazione no profit The Good Lobby e dal Consiglio nazionale giovani. Che la politica continui a fingersi sorda a fronte di tali richieste è però evidente, per scelta deliberata nel caso della destra, per benaltrismo e superficialità nel caso della sinistra. Anche in occasione di quest’ultima campagna elettorale, è impressionante il tempo dedicato dai partiti e dai media alla trattazione di questioni che non meriterebbero nemmeno di essere prese in considerazione, a discapito di tematiche legate a più basilari diritti sociali, civili – è servita una petizione popolare per inserire il matrimonio egualitario nel programma elettorale del Pd – e costituzionali, a partire da quello di voto. Siamo un Paese democratico, ma perché preoccuparsi di garantire a tutta la popolazione la possibilità di prendere parte alle elezioni? Molto meglio parlare di flat tax.

Nonostante l’ottimismo dimostrato da una parte della rappresentanza giovanile, è altamente improbabile che da qui al 25 settembre si riesca a trovare una soluzione: chi avrà la possibilità di votare dovrà quindi farlo anche per chi, per cause di forza maggiore, sarà costretto a rinunciarvi. Il corpo elettorale sarà composto, di nuovo, principalmente dalle fasce più privilegiate della popolazione, per età, reddito e collocazione geografica. Sarà una responsabilità doppia, della quale sarà necessario prendere atto per sostenere una rappresentanza che, pur nella desolazione politica in cui ci troviamo, si dimostrerà la più disponibile a mettersi in discussione, ascoltando non solo le voci di chi già occupa i ruoli più socialmente rilevanti, ma anche le istanze di chi vive ancora nei margini.

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