Dall’insediamento del governo Draghi prosegue la polemica sull’assenza di donne del Pd tra i ministri dell’esecutivo. Tra i 23 nominati – 15 uomini e 8 donne – non compare neppure una esponente del Pd. Il fatto ha destato particolare clamore poiché il partito che dovrebbe riunire i progressisti italiani è stato l’unico, insieme a Liberi e Uguali, ad aver assegnato i propri ministeri esclusivamente a uomini. Ma diversamente da LeU, che ha ottenuto soltanto la riconferma di Roberto Speranza al ministero della Salute, tra le file del Pd figurano i nomi di ben tre ministri uomini: Lorenzo Guerini alla Difesa, Dario Franceschini alla Cultura e Andrea Orlando al Lavoro. A proposito della difficoltà delle donne di raggiungere ruoli di potere, si sono alzate numerosi voci di politiche del Pd che in questi anni si sono battute contro le disuguaglianze di genere.
L’ex Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini ha manifestato il suo malcontento per la scelta del partito. Boldrini ha infatti dovuto constatare che la battaglia per l’annullamento delle disparità di genere sembra non essere una priorità all’interno del Pd. Ai microfoni di Adnkronos ha dichiarato: “Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini e in questa occasione il partito si è dimostrato per quello che è: un partito che non mette l’uguaglianza di genere tra le sue priorità […]. Qui noi siamo di fronte a uno scollamento dalla realtà: da una parte i documenti, gli odg, le iniziative, i materiali e poi niente di tutto questo si concretizza”. Boldrini ha sottolineato come i partiti progressisti di Paesi esteri mostrino, molto più dell’Italia, di essere riusciti a declinare al femminile il concetto di leadership; se in Francia il numero dei ministri al governo è pari al numero delle ministre (9 e 9), in Spagna si ha addirittura uno sbilanciamento a favore delle donne (con 11 ministeri) rispetto agli uomini (con 6 ministeri).
La risposta a questa vicenda è arrivata non solo da Boldrini, ma da un cospicuo numero di esponenti che hanno mostrato di essere compatte e decise a non arretrare sulla questione. Se la senatrice Valeria Fedeli ha twittato “Non riesco a capacitarmi! Neanche una donna del mio partito nell’elenco di Ministre e Ministri”, Cecilia D’Elia ha definito la vicenda una ferita e un considerevole passo indietro per tutti coloro che da anni si battono per la parità dei diritti. Portavoce della Conferenza nazionale delle donne del Partito Democratico, D’Elia ha criticato la scelta di sacrificare la presenza femminile al governo in risposta al diminuito numero di dicasteri assegnati al partito.
Sulla questione è intervenuta più volte anche Giuditta Pini, deputata Pd che il primo marzo ha rivolto una precisa richiesta a Nicola Zingaretti. Secondo Pini è infatti necessario che Andrea Orlando si dimetta dal suo incarico di vicesegretario del Pd, in seguito alla nomina a ministro del Lavoro. “Credo che questo sia uno dei punti principali emersi nelle scorse riunioni della direzione, che oggi si concluderà in vista dell’assemblea nazionale”. Pini ha fatto riferimento alla volta in cui Zingaretti chiese a Paola De Micheli di rinunciare proprio al suo ruolo di segretaria in virtù del suo nuovo incarico al governo – come ministro dei Trasporti e delle infrastrutture nel governo Conte bis. Nel rispetto della parità di genere, sostiene Pini, la stessa richiesta andrebbe fatta oggi al ministro Orlando, e il suo posto dovrebbe essere occupato da una donna.
Pini ha anche risposto sulla necessità di un imminente congresso del Pd: “Appena possibile sì. Abbiamo cambiato molte volte posizione. Certo, non è colpa di Zingaretti bensì della situazione. Ma non si può andare avanti con la linea data dalle interviste di Goffredo Bettini”. Pini si è fatta portavoce di un diffuso malcontento tra le esponenti del Pd, che lamentano la mancanza di coerenza e di un allineamento tra parole e azioni quando si parla di leadership e di parità di genere. “Serve che iniziamo a parlarci senza ipocrisie. Un congresso anche sulla leadership, ma il problema non si risolve solo con la leadership”. Se infatti, continua Pini, la nomina di una donna al ruolo di una vicaria non annullerebbe il problema della disparità, sicuramente rappresenterebbe un passo importante per il partito. Pini ha poi denunciato la tendenza del Pd a concentrare i ruoli di potere nelle mani di uomini ultracinquantenni; una scelta che tenderebbe a escludere dai ruoli apicali non solo le donne, ma anche i giovani, i migranti e i precari.
Nelle scorse settimane Zingaretti ha risposto alle polemiche respingendo l’accusa di non valorizzare le quote femminili all’interno del partito (“Non fa parte della mia storia politica, del mio Dna, né di quello del partito che guido da due anni”) e negando la propria responsabilità sullo squilibrio di genere. Il segretario del Pd ha sottolineato come Draghi abbia badato all’equilibrio di genere nel complesso e non all’interno delle singole forze politiche. Zingaretti ha anche aggiunto che questa delusione sarà il motore per intensificare una battaglia per il protagonismo femminile e, a tal proposito, vorrebbe proporre al presidente del Consiglio un decalogo che vada a toccare punti quali il sostegno all’imprenditoria femminile e la parità salariale. Quanto alla richiesta di Pini di anticipare il congresso per la leadership del partito, Zingaretti si è però mostrato irremovibile. Nel corso della Direzione online del Pd ha confermato che le primarie si terranno come da programma nel 2023, ma ha aperto verso una discussione interna al partito a proposito dei ruoli della segreteria, affermando che “Non ho paura della discussione ma deve essere senza caricature, senza abiure, ma con onestà”.
Quanto accaduto in queste settimane stride con la natura progressista del Pd, che dovrebbe avere tra le sue priorità l’annullamento della disparità di genere. Nel Manifesto dei Valori si legge infatti che “La libertà delle donne sta cambiando il mondo. Le donne si collocano al centro del ripensamento profondo che è in atto e che riguarda i modi in cui si sviluppano le società umane. […] È tempo quindi di superare gravi ritardi e di aprire le porte alle donne dando loro non solo gli stessi diritti ma anche le stesse opportunità in tutti i campi, compresa la politica. L’Italia non è giusta né forte se impedisce alla metà del Paese di esprimere al meglio i propri talenti. Le donne sono le prime interessate al rinnovamento della politica”. Parole smentite dalla realtà e che giustificano il malcontento di chi, come Pini, ha denunciato lo scollamento tra ideale e sua applicazione. Anche l’invettiva di Deborah Serracchiani, rivolgendosi alle colleghe di partito, ha ribadito come nessuno spazio debba essere riservato alle donne per gentile concessione. Secondo Serracchiani è giunto il momento che le donne prendano davvero sul serio la sfida della leadership, battendosi per una rivoluzione strutturale che non arretri di fronte a concessioni palliative. “Ora, nel contingente, con le assegnazioni dei sottosegretariati sembra si voglia riparare un vaso rotto col nastro adesivo. Meglio di niente, dirà qualcuno, ma certo così non si risponde alla domanda: il Pd è un partito per donne? Per quanto mi riguarda dovrà esserlo”. È arrivato il momento che l’uguaglianza di genere e la democrazia paritaria come criterio di comportamento nel partito – fondamentali presupposti del suo Codice Etico – si tramutino in un cambiamento radicale nelle dinamiche di potere.
Se nessuna donna ha mai ricoperto il ruolo di segretaria del Pd, e se le esponenti donne del partito riescono ad accedere alle cariche più significative molto di rado, è innegabile che il potere continui a essere dominio esclusivo della componente maschile. Nello stesso Paese dove anche i partiti di destra sembrano promuovere maggiormente il protagonismo femminile, con Forza Italia che ha proposto la nomina di due ministre (Mariastella Gelmini per gli Affari regionali e le Autonomie, e Mara Carfagna per il Sud e la coesione territoriale), e la Lega una (Erika Stefani per le Disabilità).
Quello del Pd è stato un passo falso che, oltre a minare la credibilità del partito, è sintomatico di una logica maschilista che va oltre il fatto specifico. Sembra infatti che, come ha dichiarato Livia Turco, esista una generale complicità nel negare l’autorevolezza femminile. A proposito di questa polemica ha espresso la sua opinione anche Valeria Valente, senatrice del Pd e Presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio. Valente – che ha ribadito i passi in avanti compiuti in questi anni dal Pd in direzione della parità di genere – ha lanciato una provocazione: “Perché come donne non accettare di esserci e basta dal momento che, seppure non ai vertici, ci siamo? Forse alla fine gli uomini sono davvero più esperti, capaci e competenti di noi e dobbiamo accettarlo?”. Secondo Valente le donne non possono rassegnarsi a essere tagliate fuori dalla leadership politica e non devono accontentarsi delle conquiste di questi anni.
La battaglia femminista non deve e non può arrestarsi finché l’autorevolezza della donna non sarà pienamente riconosciuta; oggi è chiaro che questo risultato è ancora lontano. Riconoscere e valorizzare la competenza femminile e disporre di una leadership suddivisa tra donne e uomini è il presupposto di una democrazia compiuta e di una comunità più solida ed efficiente, capace di rappresentare l’intera società e dare risposte a tutte le sue esigenze e punti di vista. Oggi non è più sufficiente dirsi coscienti che una società con una leadership esclusivamente maschile è monolitica e fragile. Il Pd e la sinistra non possono più rimandare il momento in cui queste parole diventeranno azioni concrete.