Con la recente elezione del Presidente del Parlamento europeo, le tre più alte cariche dell’Unione sono ora ricoperte da donne: Christine Lagarde presiede la Banca centrale europea, Ursula von der Leyen la Commissione europea e Roberta Metsola è la nuova Presidente del Parlamento europeo, succedendo a David Sassoli. È la prima volta che queste tre cariche sono ricoperte contemporaneamente da donne. Tutte con una carriera politica di rilievo nel Partito popolare europeo.
In Italia, durante le elezioni per la Presidenza della Repubblica, gli unici nomi di donne che sono stati fatti per una possibile Presidente della Repubblica sono quelli di Letizia Moratti, ex ministra dell’Istruzione di Forza Italia, Marta Cartabia, attuale ministra della Giustizia vicina agli ambienti di Comunione e Liberazione, Paola Severino ministra della Giustizia del governo Monti e attuale vicepresidente della Luiss. La Presidenza del Senato è affidata a Maria Elisabetta Alberti Casellati, di Forza Italia. La politica che secondo le attuali intenzioni di voto avrebbe le maggiori possibilità di diventare la prima Presidente del Consiglio italiana è Giorgia Meloni, leader del partito di destra Fratelli d’Italia.
Prima di analizzare la portata politica di una candidata donna per i partiti conservatori e per quelli progressisti, occorre fare un rapido riferimento a un fenomeno ben presente all’interno delle nostre società e che poco ha a che vedere con le ideologie politiche. Alcune nomine, infatti, si spiegano con il concetto di Glass Cliff, il precipizio di vetro. Questo è il fenomeno per cui quando ci si trova in una situazione critica si affida la responsabilità di scegliere e governare a una donna. Se questa riesce ad avere successo, tanto meglio. Ma se fallisce, cosa non così improbabile vista la situazione già molto difficile al momento del suo insediamento, si potrà sempre dire che le donne sono incompetenti. Questo è il caso di Christine Lagarde, nominata Presidente del Fondo monetario internazionale nel 2011, in piena crisi economica, e in un certo qual modo anche di Ursula von der Leyen, arrivata alla Presidenza della Commissione europea dopo un’elezione in cui i partiti euroscettici avevano avuto molto successo in tutta Europa.
Quando la situazione non è disperata e le protagoniste sono le frontwoman di ambienti conservatori, come nel caso della Presidente Metsola o della Presidente del Senato Casellati, la scelta è da ricondurre a un binomio molto persistente. Le politiche conservatrici si calano negli unici panni che l’esperienza ha mostrato loro come vincenti: quelli di un uomo. Per riuscire a guadagnarsi il proprio spazio in un mondo dominato dagli uomini, queste donne non fanno altro che comportarsi come loro, utilizzando le loro stesse armi politiche e scegliendo le stesse battaglie che porterebbe avanti un uomo di destra, allontanandosi – anche più dei colleghi uomini – dalle questioni femministe.
La grande maestra di questa strategia è stata senza dubbio Margaret Thatcher, che è riuscita a conquistare e a regnare sul partito conservatore inglese dal 1975 al 1990. In quanto donne conservatrici, queste leader prendono le distanze dal loro essere donne e dalle battaglie femministe – battaglie che hanno permesso loro di ricoprire quei ruoli – per fare ciò che i maschi conservatori vorrebbero che facessero in quelle situazioni di potere: governare come gli uomini.
Queste donne infatti non sono riuscite a svuotare dall’interno gli ambienti conservatori della misoginia che li caratterizzava, ma diventano il cavallo di Troia che i politici di destra usano per portare avanti le proprie battaglie: un volto femminile, soprattutto in assenza di una possibile rivale progressista, rende le posizioni conservatrici meno impopolari, e in questo modo la destra riesce a diffondere i propri valori attraverso l’uso strumentale di donne madri e mogli perfette. La Lega e Fratelli d’Italia, grazie alle donne nei propri partiti, sono riuscite a riportare in auge la visione più tradizionale e retrograda della maternità e della famiglia. Ma l’utilizzo del protagonismo femminile, premiato molto più a destra che a sinistra, va rintracciato in Italia all’inizio degli anni Novanta, con la nascita di Forza Italia. Un partito in cui il merito e le capacità delle politiche veniva spesso confuso dal suo fondatore Silvio Berlusconi con il loro aspetto.
La Lega italiana si è mossa per tempo, con una visione ben più lungimirante di quella di Forza Italia. Nel 1994 Umberto Bossi scelse Irene Pivetti per ricoprire la carica di Presidente della Camera, una donna giovane e cattolica, riuscendo così a intercettare il cambiamento.
Salvini, poi, è andato oltre: per fare apparire le proprie posizioni politiche meno aggressive e oscurantiste, usa il volto di donne, soprattutto quando si rivolge a un elettorato critico nei confronti della destra, come nel caso di Susanna Ceccardi nella campagna elettorale per l’Emilia Romagna o Donatella Tesei per conquistare l’Umbria alle ultime elezioni regionali.
Oltre ad ammorbidire le posizioni della destra, alcune candidate conservatrici incarnano perfettamente anche un altro fenomeno, che la sociologa Sara R. Farris ha nominato femonazionalismo. Questo fenomeno, nato in Europa, mescola lo pseudo-femminismo a posizioni nazionaliste e apertamente xenofobe, risvegliatesi nelle popolazioni europee dopo l’inizio delle migrazioni degli anni Novanta e Duemila che hanno visto l’Europa come punto di arrivo. Il femonazionalismo permette alla destra di giustificare le proprie posizioni razziste, presentandosi come protettrice delle donne. I diritti conquistati dalle donne negli ultimi cinquanta anni di lotte diventano così il discrimine per allontanare tutti coloro che non hanno un’origine occidentale, risvegliando invece un senso di unità dell’elettorato che si lega sempre più al leader protettore. Questo molto spesso è un uomo, ma quando è donna il femonazionalismo diventa anche più aggressivo e convincente. È il caso di Marine Le Pen in Francia e di Giorgia Meloni in Italia: entrambe, anche se la seconda pare essere più abile in questo gioco, riescono a portare avanti posizioni xenofobe e sessiste accusando di sessismo i migranti o i Paesi da cui questi provengono.
Molto spesso, infatti, le candidate conservatrici sono ferocemente nemiche dei diritti conquistati dal proprio genere negli ultimi decenni, in particolare di quelli legati al tema della famiglia e dell’aborto. La candidatura di Roberta Metsola, sicura per una consuetudine istituzionale di alternanza fra il Partito Popolare europeo, quello Socialista e quello Liberale, ha vacillato a lungo nel momento in cui sono state rese note le sue posizioni antiabortiste, che per rispetto dell’istituzione che ricopre Metsola ha mitigato nelle interviste successive alla sua elezione. Cosa che invece non ha fatto Donatella Tesei, che ha reso l’Umbria una delle regioni in cui è più difficile accedere all’interruzione di gravidanza. La Lega, usando la figura di una donna durante un’elezione, è riuscita a controllare il corpo di tutte le umbre, cosa che un esponente leghista uomo difficilmente sarebbe stato in grado di fare.
Se la destra è riuscita a usare il corpo delle donne per i propri fini politici è anche colpa della sinistra. E la sinistra italiana sembra ancora dover iniziare un percorso di autocritica. Nei suoi documenti fondativi, il Pd ha usato parole ambiziose sul tema, cercando di essere il più possibile inclusivo. Nel suo Manifesto dei Valori sostiene che si debba “aprire le porte alle donne dando loro non solo gli stessi diritti ma anche le stesse opportunità in tutti i campi, compresa la politica”. Il Codice Etico utilizza per l’inizio di ogni paragrafo la formula “le donne e gli uomini del Partito Democratico”, ma questo linguaggio inclusivo si interrompe bruscamente riferendosi alla dirigenza del partito, in cui “ciascun dirigente” viene declinato solo al maschile.
Ciò non vuol dire che non ci sia stato un moto, a sinistra, per rivoluzionare la politica di partito, rendendola più partecipativa nei confronti delle donne, liberando la loro ascesa ai vertici. Se la destra, infatti, si è mossa agli inizi degli anni Novanta, la sinistra l’aveva preceduta di qualche anno, con una visione ben più strutturale.
Alla fine degli anni Ottanta vi fu uno scambio che avrebbe potuto generare esiti molto interessanti per le politiche dei partiti di sinistra: in un confronto fra le donne di partito e le femministe venne criticata aspramente la prospettiva paritaria, in un’ottica di indifferenziazione rispetto agli uomini, e l’allora Pci recepì questo dialogo arrivando a stilare la Carta delle donne. Questo era un tentativo concreto di rinnovamento, anche da un punto di vista programmatico. Ma lo slancio che avrebbe potuto rivoluzionare la sinistra degli ultimi trent’anni si sbriciolò con la creazione del Pd e l’inserimento di altre tradizioni politiche. Le donne dei partiti di sinistra, pur riconoscendosi eredi delle battaglie femminili collettive, non sono più riuscite ad adeguarsi ai cambiamenti della società, regredendo al concetto di parità e quindi non portando nulla di caratterizzante nella discussione politica, sottostando a visioni di partito indirizzate dagli uomini.
L’esito di questa tendenza è emerso in due casi recenti: nel silenzio delle allora ministre Teresa Bellanova e Elena Bonetti, oscurate dal leader del loro partito Matteo Renzi durante la conferenza del 13 gennaio 2021 in cui le due hanno annunciato le loro dimissioni dall’allora governo Conte II; il secondo caso è stata la difficoltà di Enrico Letta nell’inserire due donne come capogruppo al Senato e alla Camera, al momento della sua elezione come Segretario di Partito. Scelta che stride con l’indicazione di tre uomini nei tre ministeri che il Pd aveva guadagnato con il suo sostegno al governo Draghi. Confrontandola con la scelta di Forza Italia di indicare due ministre su tre ministeri a disposizione e l’indicazione della Lega di una donna per il ministero della Disabilità, risulta evidente che la sinistra e il Pd in particolare si trovino di fronte a un problema che non possono più ignorare.
Uno dei primissimi documenti femministi italiani, Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, aveva già individuato la soluzione. Le donne desiderano vivere in nome della loro differenza. E dal momento che la destra cerca di omologarle agli uomini, spetta alla sinistra sprigionare il potenziale di questa differenza. Occorre perseguire un femminismo che mostri come l’utilizzo, non del corpo delle donne, ma della loro differenza e libertà, possa portare un vero rinnovamento nella politica. La sinistra, se vuole davvero portare avanti le questioni di genere, come promettono i suoi programmi elettorali, deve colmare al più presto questo gap di trent’anni.