Quanto spazio c'è per il dissenso in Israele? - THE VISION
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La mattina di sabato 7 aprile è morto a Gaza Yasser Murtaja, giornalista e fotografo palestinese. L’esercito israeliano gli ha sparato all’addome nonostante indossasse un giubbotto antiproiettile che lo identificava come giornalista. Murtaja è la nona vittima di questa seconda tornata di proteste nella Striscia, iniziata con il Land Day del 30 marzo, e si aggiunge ai 18 morti della scorsa settimana, in un bilancio probabilmente destinato a diventare sempre più grave. La Grande Marcia del Ritorno palestinese continuerà infatti fino al 15 maggio e vedrà il suo culmine con il settantesimo anniversario della Naqba, la Catastrofe del mondo arabo, quando l’istituzione dello Stato d’Israele e la conseguente guerra del 1948 portarono all’esodo di circa 750mila profughi. Molti di loro e dei loro figli chiedono ancora di poter rientrare nei propri villaggi d’origine.

In periodi come questi, quando la sistematica violazione dei diritti dei palestinesi torna a dominare i discorsi politici internazionali, viene da domandarsi quale sia il posto per la critica alle politiche israeliane all’interno della comunità ebraica. L’annosa questione del rapporto tra ebraismo e sionismo torna a galla, così come quella che prova a trovare una distinzione netta tra antisionismo e antisemitismo. Ci si chiede ripetutamente se criticare le politiche israeliane sia sintomo di antisemitismo, se la prima cosa inevitabilmente porti alla seconda, ma soprattutto se sia possibile rimanere razionali e giudicare quanto sta accadendo tra israeliani e palestinesi sotto l’esclusiva lente politica, dimentichi della propria emotività e della propria, relativa, vicinanza a uno o all’altro universo culturale.

La sovrapposizione dei concetti di sionismo ed ebraismo è purtroppo una semplificazione molto diffusa, ed è forse una delle vie attraverso cui si è fatta la strada la nuova ondata di antisemitismo a cui stiamo assistendo oggi. Secondo tale sovrapposizione, i settler o i soldati dell’IDF che violano le regole del diritto internazionale e sparano su una folla di civili sono prima di tutto ebrei, in un’associazione aprioristica tra appartenenza culturale e/o religiosa e atteggiamento politico, senza pensare che alcune fette della popolazione ebraica mondiale non hanno mai sposato il progetto sionista.

Per ancora troppa gente, quindi, rigettare le dinamiche di occupazione del governo israeliano significa demonizzare l’intera cultura ebraica, vedendo nei due elementi un unicum mai divisibile. Quest’ottica, paradossalmente, è condivisa dalle frange estreme dell’antisionismo quanto da quelle sioniste, per le quali il minimo biasimo alle mosse israeliane è chiaro sintomo di odio verso gli ebrei, in un’ottica giustificativa che si autoalimenta: lo Stato israeliano esiste proprio a causa di chi lo critica.

Una parte crescente del mondo ebraico, sia laico che religioso, contesta le iniziative del governo di Netanyahu, sebbene tale posizione non sia ancora predominante. “Gli antisionisti sono una minoranza all’interno della comunità ebraica, ancora più piccola se consideriamo gli ebrei israeliani,” mi spiega Ran Greenstein, autore di origine israeliane del libro Zionism and its discontents: a century of radical dissent in Israel/Palestine. “Se ci concentriamo su coloro che si oppongono al sionismo da prospettive liberali-umanistiche e di sinistra, probabilmente non superano il 2-3% della popolazione ebraica israeliana. Se invece consideriamo tutti coloro che offrono una critica organica alla dominazione ebraica in Israele (senza esplicitamente dichiararsi anti-sionisti), la percentuale potrebbe salire al 5 o al 6%.”

Per quanto esigue, all’interno della stessa società israeliana le voci di dissenso si levano con sempre maggior insistenza, e più esse acquistano risonanza, più devono fare i conti con un governo e un establishment che cerca di soffocarle.

Benjamin Netanyahu

L’Ong B’Tselem, fondata nel 1989, è un’associazione israeliana che da quasi trent’anni si occupa di denunciare le ingiustizie dell’occupazione nei territori palestinesi, nella convinzione che porre fine a tale realtà sia “l’unico modo per plasmare un futuro in cui i diritti umani, la democrazia, l’uguaglianza, la libertà saranno garantiti a tutte le persone che vivono tra il Giordano e il Mar Mediterraneo.” Lo scorso 5 aprile hanno lanciato una campagna chiamata “Mi dispiace, comandante, non posso sparare”, con cui invitavano i soldati dell’IDF a rifiutarsi di fare fuoco contro civili che non costituiscono una minaccia, in quanto pratica “palesemente illegale” secondo il diritto internazionale. Il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, ha chiesto che il procuratore generale Avichai Mandelblit aprisse un’inchiesta contro l’Ong per sedizione.

Un’associazione di orientamento simile, Breaking The Silence, che raccoglie le testimonianze anonime di soldati dell’IDF di stanza nei territori occupati, è oggi “praticamente neutralizzata”, a seguito dell’opera di discredito perseguita con grande costanza e alacrità sia dal governo che dai media mainstream israeliani. Lo scorso ottobre Benjamin Netanyahu ha incaricato il ministro del Turismo Yariv Levin di preparare una nuova proposta di legge finalizzata a mettere al bando associazioni la cui opera “danneggia i soldati delle Israeli Defence Forces”. La legislazione ha ottenuto una prima approvazione della Knesset, il Parlamento israeliano, lo scorso 26 febbraio, con 35 voti a favore e 23 contrari.

Yariv Levin

L’organizzazione no-profit Gisha, fondata a Tel Aviv nel 2005, lotta per la libertà di movimento della popolazione palestinese, in particolare di tutti coloro che da ormai 13 anni sono posti sotto assedio nella Striscia di Gaza. L’Ong è composta di avvocati che si occupano di rappresentare individui e organizzazioni di fronte ai tribunali israeliani, tutelandoli da un intricato sistema di leggi e sanzioni che funge da principale pilastro del regime di occupazione. Il 30 agosto 2017, il direttore esecutivo dell’Ong, Tania Hary, ha tenuto un discorso di fronte al Comitato dell’Onu sull’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese, in cui ha denunciato “la politica di hybris e crudeltà” del governo israeliano.

Ci sono poi giornalisti come Gideon Levy e Amira Hass, che da anni denunciano dalle pagine del quotidiano Haaretz le ipocrisie della società israeliana e dell’epica sionista in genere. Levy è stato definito “la spina nel fianco di Israele” da Le Monde, Hass ha vissuto dal 1994 al 1997 a Gaza e dal 1997 in poi a Ramallah, dove abita tuttora e da cui cerca di smuovere le coscienze degli israeliani con i suoi racconti dell’occupazione nella sua odiosa e burocratica quotidianità.

Per il loro lavoro giornalistico di denuncia, sia Levy che Hass hanno dovuto sopportare minacce e intimidazioni da parte della popolazione: Hass riceve regolarmente lettere contenenti insulti o minacce di morte, o email firmate con il saluto nazista. Levy viene fermato per strada da concittadini che vorrebbero linciarlo, mentre il governo insiste per tenerlo sotto sorveglianza in quanto “rischio per la sicurezza nazionale”. Demonizzati in patria dalla maggior parte della popolazione, Gideon Levy e Amira Hass sono applauditi all’estero per il loro coraggioso lavoro di monitoraggio e di inchiesta di quel lato della politica israeliana che la hasbara, la propaganda nazionale, non vuole esporre. “La mia modesta missione,” dice Levy a The Indipendent, “è prevenire una situazione in cui molti israeliani possano dire ‘non lo sapevamo’.”

Gideon Levy

Un gruppo di accademici si occupa invece di smantellare la mitologia sionista che da anni galvanizza l’ethos nazionale: quello della nuova storiografia israeliana, che raggruppa luminari e storici di orientamenti politici anche piuttosto contrastanti fra loro, come Benny Morris o Ilan Pappé, ma accomunati dalla volontà di rielaborare la narrativa della fondazione di Israele in senso meno epico e più realistico, costringendo la popolazione a fare i conti con episodi come il massacro di Deir Yassin del 9 aprile 1948, in cui morirono 250 palestinesi. Pappé, autore di Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli e La pulizia etnica della Palestina, e aperto sostenitore del Boycott Divestment and Sanction (BDS) movement, nel 2007 è stato invitato a rassegnare le dimissioni dall’Università di Haifa, dove insegnava presso il dipartimento di Scienze Politiche. Aveva espresso il proprio endorsement a un’iniziativa di boicottaggio degli atenei israeliani organizzata da un gruppo di accademici britannici. Oggi insegna all’Università di Exeter, nel Regno Unito.

Persino negli Stati Uniti, storici alleati di Israele, si inizia ad assistere a una sempre maggiore opposizione nei confronti delle politiche israeliane. La comunità ebraica americana, finora compatta nel suo appoggio alla causa sionista, inizia a frammentarsi, ed emergono voci come quella del gruppo di Jewish Voice for Peace, associazione dedicata a riorientare la politica estera degli USA in Medio Oriente, anch’essa a favore del movimento BDS.

A seguito del primo weekend di proteste a Gaza, Kobi Meidan, speaker radiofonico molto conosciuto dell’emittente Galatz, gestita dall’esercito israeliano, è stato sospeso dal proprio posto di lavoro dopo aver scritto un post pubblico sul proprio profilo Facebook in cui sosteneva di “vergognarsi di essere israeliano”. La sospensione è stata revocata solo dopo che il presentatore si è scusato con il comandante Shimon Elkabetz, responsabile dell’emittente.

L’opposizione alle politiche sioniste rimane viva per una parte del mondo ebraico, dentro e fuori dai confini israeliani, anche se resta concreto il rischio che tale dissenso venga messo a tacere in Israele e caldamente disincentivato all’estero. Al momento le posizioni politiche che deviano dal discorso dominante sono ancora tollerate, seppur con riluttanza, all’interno della società. Come osserva Gideon Levy, Israele è uno dei pochi Paesi al mondo a mantenere tre diversi regimi simultaneamente: una democrazia liberale per i cittadini di origine ebraica; una democrazia formale, ma tradotta de facto in un regime discriminatorio per i palestinesi con cittadinanza israeliana; e per ultimo, il terzo regime – quello che meno si vuole esporre agli occhi del mondo – l’occupazione militare a Gaza e in Cisgiordania. Israele sta pagando a caro prezzo il mantenimento di quest’ultimo regime, che in tutta la propria retorica dell’assedio e della messa in sicurezza nazionale sta finendo per inghiottire ogni aspetto democratico, più o meno formale, che costituisce a oggi il principale vanto della propaganda nazionale.

A questo punto, non rimane che da chiedersi fino a quando potrà reggere la narrativa dell’”unica democrazia del Medio Oriente”.

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