Luigi Di Maio ha rassegnato le sue dimissioni da capo politico del M5S, confermando le voci di corridoio diffuse da alcuni giorni. Le intenzioni di Di Maio e dei vertici del M5S sono chiare: rinnovare la leadership del partito per arginare il crollo dei consensi dell’ultimo anno. La gestione di Di Maio è stata spesso criticata (sia da parte della base che da altri parlamentari ed esponenti politici del M5S) per l’eccessiva concentrazione di potere nelle sue mani e la scarsa trasparenza dei processi decisionali.
Va detto che, a un’analisi più approfondita, risulta chiaro come il vero potere decisionale all’interno del M5S sia sempre stato ben saldo nelle mani di Grillo e Casaleggio – Gianroberto prima e il figlio Davide in seguito. Il capo politico è sempre sembrata più una figura di facciata pilotata dai due fondatori. Per questo il vero problema del M5S non è affatto questa figura, ma la morsa in cui Grillo e Casaleggio tengono gli eletti (e gli elettori) del Movimento, limitandone autonomia e pensiero critico.
La crisi del M5S non è frutto del caso e ha poco a che fare con la guida di Di Maio. Le sue radici sono molto più profonde e risalgono alle scelte fatte da almeno dieci anni a questa parte. Già a partire dal 2009 la linea politica del M5S era chiara e precisa: caratterizzarsi come una forza antisistema attraverso continui attacchi alle politiche e ai partiti progressisti. A lungo andare questa tendenza – o scelta identitaria – ha portato a due conseguenze ben definite: la prima è stata l’assecondare, in maniera più o meno consapevole, lo spostamento a destra dell’opinione pubblica. La seconda, forse involontaria ma ben più grave, è stata quella di legittimare l’equazione secondo la quale il fallimento dei partiti della sinistra post-comunista coincida con l’inaffidabilità degli ideali stessi della sinistra (socialdemocratica e moderata o socialista e radicale).
Nel 2009 Beppe Grillo annunciò la sua candidatura alle primarie del Pd con il chiaro scopo di denunciare pubblicamente l’inconcludenza del partito e la sua complicità con un sistema corrotto. Grillo venne poi tesserato da una sezione del Pd della provincia di Avellino, scatenando accese polemiche da parte dei vertici nazionali. Proprio in quell’occasione l’allora sindaco di Torino Piero Fassino lanciò la sua sfida infelice a Grillo di fondare un suo partito.
Anche dopo l’arrivo in Parlamento per la prima volta, la linea politica del M5S non cambiò di una virgola. Nel 2013 Grillo impose ai suoi parlamentari il rifiuto dell’alleanza di governo proposta dal Pd di Bersani, sostenendo sul suo blog che non si poteva votare la fiducia a chi nei precedenti anni si era reso complice della rovina dell’Italia. La stessa filosofia ha guidato le estenuanti trattative per l’elezione del Presidente della Repubblica, sempre nello stesso anno: i grillini, compatti sul nome del costituzionalista Stefano Rodotà, sembrarono aprire uno spiraglio sul possibile voto a Prodi. Il fallimento di questa operazione portò a una crisi interna nel Pd e alle dimissioni di Bersani, alla contestatissima rielezione di Napolitano e alla formazione del Governo Letta.
Un copione simile si ripeté nel 2014, quando Grillo (senza peraltro ricoprire alcun ruolo istituzionale) guidò la delegazione del M5S al colloquio con Renzi per le consultazioni sulla formazione del nuovo governo. Per evitare il rischio che la base potesse pronunciarsi a favore di un esecutivo in tandem con i democratici, Grillo rifiutò il confronto.
Un altro esempio della gestione del partito targata Grillo è stato il voto sulla Legge Cirinnà. Disattendendo sia la volontà degli iscritti sia una delle battaglie storiche del M5S, Grillo lasciò libertà di coscienza ai parlamentari, riuscendo nel triplo colpo di rafforzare l’ala conservatrice del movimento, affossare una legge giusta e di buon senso (poi approvata una molto fortemente rimaneggiata dalle posizioni conservatrici del centrodestra) e di acquisire credito agli occhi dell’elettorato di destra. Ancora lo scorso anno il M5S è stato accusato di voler sabotare anche la legge sul testamento biologico, altro suo storico cavallo di battaglia.
Alcuni potrebbero giustificare tutto in prospettiva di una strategia politica per screditare l’avversario e guadagnare consensi. Tuttavia, c’è un elemento ulteriore che va considerato: nonostante uno dei mantra storici del M5S sia quello che “destra e sinistra sono uguali”, bisogna riconoscere che l’atteggiamento di Grillo nei confronti della destra è sempre stato piuttosto conciliante, se non amichevole, probabilmente in virtù della sua presunta militanza giovanile nel Msi di Almirante. Giusto per non smentire queste voci, prima delle elezioni politiche del 2013 Grillo elogiò apertamente i militanti di CasaPound, affermando che l’antifascismo non fosse di sua competenza e che alcune delle idee del gruppo neofascista fossero valide.
Nello stesso anno il fondatore del M5S scriveva anche che, sebbene tra destra e sinistra non ci sia alcuna differenza, bisogna riconoscere che “la destra ti prende un po’ meno per il culo”. Nel 2014 il suo blog pubblicò l’intervista a un sedicente storico che negava le responsabilità di Mussolini nel delitto del parlamentare socialista Giacomo Matteotti. Sono sempre molto diversi i toni riservati alla sinistra, che già nel 2010 venne accusata di aver tradito i propri valori, di essersi fatta complice delle malefatte della peggior destra e di aver contribuito all’oppressione economica e sociale delle masse.
Ora, il problema non sta nelle critiche che Grillo da tempo muove alla sinistra post-comunista. Molte sono condivise da diversi esponenti della sinistra e dei suoi elettori e mettono in luce la complicità del centrosinistra italiano con le oppressive istituzioni neoliberali dell’Occidente. Il problema è un altro: nel denunciare il fallimento della sinistra, Grillo non le riconosce alcuna possibilità di riabilitazione, contrariamente a quanto fa con la destra. Mentre la sinistra è senza speranza, per Grillo dalla destra sembra invece possibile ricavare qualcosa di buono.
Non stupisce quindi che il M5S abbia inseguito la destra più becera e radicale su diverse posizioni, in particolare su immigrazione e politiche sociali. Nel 2017, in vista della campagna per le elezioni politiche dell’anno successivo, in un post su Facebook Di Maio definiva le Ong “taxi del mare” (rilanciando un articolo – poi rimosso – del blog di Grillo). Tali dichiarazioni furono poi riproposte dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che rivendicava con orgoglio come il M5S avesse assunto tali posizioni prima di Salvini. Non a caso c’era una forte convergenza tra i programmi elettorali presentati da Lega e M5S in vista delle elezioni politiche del 2018.
Salvini rappresenta forse l’esempio più lampante di come i vertici del M5S abbiano deciso senza nessun rispetto per la loro base di seguire la rotta dell’avvicinamento alla destra. Avendo celebrato pubblicamente l’ex ministro dell’Interno come uomo serio e affidabile, Grillo ha di fatto legittimato l’alleanza di governo tra Lega e M5S ben prima che la votazione online degli iscritti avvenisse. L’idillio ha toccato il suo apice quando nel marzo dello scorso anno il Senato ha negato l’autorizzazione a procedere contro Salvini sul caso Diciotti, con i voti decisivi proprio del M5S. In quell’occasione gli iscritti furono chiamati a rispondere a un quesito-farsa sulla piattaforma Rousseau, che tra l’altro andò in tilt in maniera sospetta, scatenando le ire di molti attivisti.
Anni di propaganda grillina hanno portato al consolidamento nell’opinione pubblica di un’idea molto precisa: ad aver fallito non sono solo gli uomini della sinistra, ma la Sinistra intesa come sistema e ideologia, mentre a destra è ancora possibile trovare buon senso e idee giuste per il futuro dell’Italia. L’alleanza con la Lega sembrava quindi il coronamento naturale del progetto antiprogressista del M5S. Invece qualcosa è andato storto rispetto alle previsioni del duo Grillo-Casaleggio: l’elettorato italiano, visti lo scimmiottamento della propaganda di Salvini e la totale subalternità del M5S alle politiche leghiste, ha deciso di optare per l’autentica destra leghista, piuttosto che continuare a dare fiducia a un movimento dalle idee sempre più confuse.
Subito dopo la formazione del governo gialloverde nel 2018 sono iniziati a emergere i primi malumori tra i grillini. Alcuni hanno capito che la scelta di assecondare l’ondata xenofoba e reazionaria ha danneggiato il Pd, ma ha anche permesso a Salvini e alla destra più conservatrice di guadagnare consensi e credibilità a spese del Movimento stesso. Questa consapevolezza ha minato l’autorità indiscussa di Grillo e Casaleggio degli ultimi 11 anni, ma lo ha fatto troppo tardi. Per diventare un argine reale alla destra sovranista Pd e M5S avrebbero dovuto allearsi subito dopo le elezioni, non del 2018, ma del 2013. Per il modo in cui è arrivata, l’attuale alleanza di governo sembra più frutto dell’improvvisazione che non di un chiaro progetto politico, simile a quello che ha portato il M5S a coalizzarsi con la Lega.
Nel suo discorso di dimissioni, Di Maio ha fatto più volte riferimento a dei traditori, affermando che i peggiori nemici del M5S si trovano al suo interno. Ha ragione, ma i traditori non sono i vari fuoriusciti o coloro che si sono permessi di opporsi ai diktat di Grillo e Casaleggio. I veri nemici del M5S sono proprio i suoi fondatori, dal momento che sono loro ad aver quasi compromesso del tutto la credibilità del Movimento, pur di inseguire a ogni costo le pulsioni reazionarie del Paese. Dopo aver speso oltre un decennio a convincere il popolo che i progressisti sono i suoi principali nemici, è naturale che questo scelga i partiti più reazionari e retrogradi per rappresentarlo sulla scena politica.