È strano leggere i proclama dell’inizio della Terza Repubblica italiana. Se le cinque Républiques francesi si sono succedute scandite da grandi stravolgimenti, rivoluzioni o fallimenti militari, a Roma un cambiamento dell’assetto parlamentare sembra essere sufficiente. Più singolare è il fatto che gli spettri della Prima Repubblica siano ancora presenti, con il Movimento 5 Stelle che decreta la fine della Seconda Repubblica e allo stesso tempo si dipinge come una nuova Democrazia cristiana – per quanto paradossale possa sembrare, è così.
Mentre il movimento contro i partiti di centro diventa a sua volta un partito di centro, si parla sempre più frequentemente di una Dc 2.0. Non solo diversi dei ministri proposti dal M5S sono ex allievi dell’Università degli studi Link Campus di Roma, fondata da Vincenzo Scotti (ex capogruppo democristiano alla Camera); sia le dichiarazioni di Beppe Grillo che l’appello allo spirito di Alcide de Gasperi da parte di Luigi di Maio mostrano come il M5S stia cercando di rivendicare l’eredità della Dc.
Il voler ricorrere a questo paragone è una scelta guidata più dal marketing che dalla storia. Dopo aver destituito la sinistra, morta col passaggio al nuovo millennio, e dopo aver conquistato l’elettorato dell’ex Pci, il movimento del “non siamo né di destra, né di sinistra” prova ora a fare di sé una versione idealizzata della Dc – trasversale, nazionale e responsabile: il fulcro dell’ordine repubblicano. Un Movimento con poca esperienza istituzionale che prende in prestito la dubbia identità di un partito del passato.
Nonostante il 4 marzo ci sia stato uno spostamento di voti centristi verso il Movimento 5 Stelle, dovuto più a parametri come l’età, l’occupazione, il ceto o il credo politico che non all’appartenenza regionale, la base grillina è molto diversa da quella della vecchia Dc. I riferimenti alla fede religiosa o alla tradizione di De Gasperi da parte di Di Maio sembrano pensati per attrarre soprattutto gli anziani conservatori ancora reticenti a votare il suo partito. Le aspettative nei confronti della politica però, sono cambiate molto; non solo in quei bacini elettorali, ma nell’Italia intera.
Nonostante la convivenza di anime di centrodestra e di centrosinistra, la Balena bianca è sopravvissuta per decenni come forza paternalista e polivalente. Se anche il M5S riflettesse una simile vocazione trasversale, non è ancora chiara la strategia con cui partito vorrebbe riformare l’Italia. Il M5S non è tanto una riedizione della Dc, quanto piuttosto un prodotto del suo definitivo collasso e della visione pessimistica dell’azione politica che ne è derivata.
La cara e vecchia trasversalità politica non è un artificio retorico proprio solo del Movimento 5 Stelle. Da quando, durante la Rivoluzione francese, le categorie di destra e sinistra vennero applicate alla politica, molte forze (solitamente di estrema destra) hanno dichiarato l’obsolescenza di questi termini. I partiti democratici di ispirazione cattolica in Europa lo hanno fatto dal XIX secolo in avanti, attraverso un messaggio di armonia sociale basato sui valori tradizionali, sulla pacificazione del conflitto di classe e sulla regolazione del capitalismo.
Mentre in nazioni come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna durante il secondo dopoguerra i tradizionali partiti conservatori sono sopravvissuti, la Dc italiana – come la Cdu tedesca o i gollisti francesi – ha sposato l’ideologia anticomunista nel tentativo di vanificare l’avanzata politica rossa attraverso un mix di tradizionalismo, clientelismo e paternalismo, reso possibile anche dagli effetti dalla crescita economica.
Per tutti questi motivi, né la destra né la sinistra si sono mai liberate della fede anticomunista, utilizzata come collante. Se è vero che la Dc è stata un asso pigliatutto, è vero anche che era composta da personaggi con forti identità individuali: dai campioni del cattolicesimo sociale dossettiano, ai sindacalisti delle Forze sociali, fino ai vari dorotei e ai conservatori del gruppo Primavera associati a Giulio Andreotti. Queste fazioni interne erano sì fatte di legami personali e patronali, ma erano anche estremamente definite a livello politico.
Una simile cultura persiste molto di più nel Partito democratico, il vero erede della Prima Repubblica, che nel M5S. La Dc era un partito con correnti interne in continuo conflitto tra loro, che lottavano per l’egemonia non solo attraverso la scelta dei propri alleati (dal Psi al pentapartito, compreso il breve interludio del governo Tambroni), ma anche sulla base della cultura politica. I gruppi citati per esempio hanno persino pubblicato riviste di teoria politica: una cosa che sembra ben lontana dall’accadere con il M5S.
Possiamo identificare delle leggere differenze di sensibilità nel Movimento – pensiamo per esempio a Roberto Fico, incarnazione delle tendenze più progressiste – ma le identità politiche più forti sono puramente ereditate. È più semplice riconoscere le politiche dei suoi rappresentanti in base ai loro riferimenti passati piuttosto che dallo storico delle loro azioni parlamentari. Questo è evidente se si considera la tendenza del Movimento ad astenersi dal votare in Parlamento su questioni controverse, come per esempio le unioni civili o lo Ius soli; nel M5S la dialettica interna della Dc è stata sostituita dalla riluttanza alla scelta.
D’altronde, visto che la democrazia bloccata della Prima Repubblica ha anche incoraggiato una concezione utilitaristica della politica, è difficile capire cosa della Dc valga davvero la pena di salvare. Forse Di Maio vorrebbe che votassero per lui sia Don Camillo che Peppone, ma l’ideale democristiano di “adattarsi a qualsiasi cosa” è stato anche fonte di diversi problemi. La Dc nel tempo non è diventata nient’altro che una piccola rete di corruzione, una pletora di opportunisti uniti solo dalla comune opposizione alla minaccia esterna del Pci.
Esattamente quarant’anni fa, a marzo, il rapimento di Aldo Moro scatenava gli eventi che avrebbero portato alla fine del tentato compromesso storico. L’avvento del pentapartito, nel 1981, ha poi significato un ulteriore passo in direzione del declino democristiano, il cui dominio è a lungo dipeso dal contrasto speculare con il Pci. All’inizio degli anni ’90, la fine del socialismo sovietico e la “svolta della Bolognina” hanno aperto la strada a Tangentopoli e alla fine della Prima Repubblica.
Le prime elezioni politiche con il pentapartito, nel 1983, hanno visto il collasso della Dc al 32%, la stessa percentuale raggiunta il 4 marzo dal M5S. La battuta d’arresto, causata dallo spostamento degli elettori verso gli alleati di governo Dc, fu sufficiente per il direttore de Il Manifesto per titolare “Non moriremo democristiani”. Ma, sebbene quel partito sia sparito, rimane il mito della sua stabilità e coerenza.
È facile vedere come i riferimenti democristiani del Movimento 5 Stelle siano una prova del suo crescente conservatorismo. I vaffa e le richieste di rompere con l’Eurozona sono state sostituite dai toni delicati di un partito di governo centrista. Di Maio invoca la Dc non solo per tendere una mano a quella che era la base democristiana, ma anche per far capire ai sostenitori grillini che non potranno aspettarsi miglioramenti rivoluzionari da un governo M5S.
Senza dubbio i riferimenti alla centralità del Parlamento da parte di Roberto Fico – che ora ricopre la terza carica dello Stato – rappresentano un cambiamento nei toni, evidenziato anche dal voto a Maria Elisabetta Alberti Casellati. È curioso come tale approccio utilitaristico risulti naturale, come fosse scritto nel Dna dei Cinque Stelle – e non solo perché persino l’attuazione di una proposta poco ambiziosa come il loro “reddito di cittadinanza” richiederà comunque grandi compromessi con la Lega.
Dal marciume della Prima Repubblica e dalle conseguenze del suo collasso, milioni di italiani hanno tratto le proprie conclusioni: le istituzioni non funzionano, lo Stato è inaffidabile, gli investimenti infrastrutturali saranno sempre infiltrati dalla criminalità e i giovani non hanno futuro. Il M5S non offre molte soluzioni a questi problemi, ma esprime la rabbia che ne risulta, la frustrazione del cittadino atomizzato che chiede protezione, ma, allo stesso tempo, non ripone nessuna fiducia nel fatto che lo Stato possa effettivamente cambiare le cose.
Le condizioni con cui il M5S è arrivato alle soglie di Palazzo Chigi non sono le stesse che hanno caratterizzato il periodo democristiano. Manca sia una visione politica lungimirante, sia un nemico dall’identità forte che funga da collante, come lo fu il Pci per la Dc. Non promette né il riscatto dei lavoratori né la redenzione cattolica – al massimo, forse, il riscatto degli anni di laurea. Se i Cinque Stelle saranno al governo, la loro identità sarà sicuramente più definita sul riflesso di quella di un eventuale alleato, che non emanata da loro stessi. Il Movimento non è il protagonista della nuova Terza Repubblica, ma rappresenta piuttosto il vuoto politico al suo centro.