Non è la democrazia che non funziona, è il sistema capitalista che la calpesta.
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C’è stato un momento, negli anni Novanta, in cui la democrazia sembrava il destino inevitabile dell’umanità. Il muro di Berlino era appena caduto e con lui il socialismo statalista di stampo sovietico che lo aveva costruito. Con la globalizzazione in fase embrionale, molti erano fiduciosi in un avvenire di tolleranza, apertura e benessere per tutti grazie al libero mercato. Questa certezza trovava la sua declinazione perfetta in un saggio del politologo americano Francis Fukuyama del 1992. Il titolo è indicativo: The End of History and The Last Man. La tesi principale di Fukuyama era che, dopo la caduta del Muro, il libero mercato e la democrazia liberale hanno dimostrato di essere l’apice dello sviluppo umano. Senza più rivali, questi erano destinati a espandersi in tutto il mondo. Lo studioso, però, si sbagliava, perché la democrazia non è un bene assodato, come hanno dimostrato i 30 anni successivi.

L’istituzione democratica è in crisi a livello globale. Freedom House è un think tank statunitense che si occupa di condurre ricerche sullo stato della democrazia nel mondo: il loro report del 2018 si chiama proprio Democracy in Crisis e dimostra come, dal 2006 a oggi, 113 Paesi abbiano abbassato il proprio livello di democraticità, a fronte dei 62 dove è aumentato. Solo il 39% della popolazione mondiale vive in un Paese libero e il 2019 è stato il 13esimo anno consecutivo di declino a livello globale per libertà e tutele democratiche.

A preoccupare ancora di più è il dato dell’alto livello di sfiducia verso le istituzioni democratiche nei Paesi tradizionalmente considerati “liberi”, soprattutto tra le nuove generazioni. I due politologi Roberto Stefan Foa e Yascha Mounk, lo hanno spiegato in un articolo pubblicato nel 2016 sul Journal of Democracy. Analizzando i dati del World Survey Data, i due hanno scoperto che vi è ormai una enorme distanza tra i cittadini e le istituzioni democratiche degli Stati dove abitano. Per esempio, se per il 72% dei nati negli anni Trenta in Europa è essenziale vivere in una democrazia, questo dato si abbassa a poco più del 40% per quelli nati negli anni Ottanta. Negli Stati Uniti, un giovane su quattro tra i 16 e 24 anni ritiene che un sistema politico democratico sia uno strumento “cattivo” o “molto cattivo” per tutelare il benessere del Paese. Inoltre, quasi il 35% degli elettori statunitensi delle classi medio-alte ritiene che sia “positivo” o “molto positivo” avere un leader che non deve avere a che fare con le elezioni parlamentari, un dato in crescita del 10% rispetto al 1995.

Un report del dello scorso aprile del Pew Research Center ha mostrato che il 51% degli intervistati di 27 Paesi con governi di ispirazione democratica non è soddisfatto dell’istituzione. L’Italia è tra i primi in classifica a livello globale con una percentuale del 70%. La sensazione è che la democrazia rappresentativa sia ormai un sistema vecchio, lento nel dare risposte alle criticità di un mondo in evoluzione sempre più rapida. Anche per questo la democrazia non è più vista come una garanzia di buon governo, ma come un meccanismo ormai inceppato e obsoleto di selezione della classe dirigente, che spesso finisce per premiare incompetenti o corrotti.

Più in generale, siamo insoddisfatti della nostra vita sociale ed economica, dandone la colpa alla politica e quindi all’istituzione democratica, accusata per gli stipendi ormai fermi ai livelli di 20 anni fa, del lavoro precario, degli affitti troppo cari e ora anche della crisi climatica. Non è un caso che i più delusi dalla democrazia, soprattutto in Paesi come Italia, Spagna e Stati Uniti, siano quelli che non vedono possibilità di migliorare il proprio standard di vita o che affermano come lo stato attuale dell’economia sia negativo.

Forse, però, non è la democrazia a minacciare il nostro benessere. Il professore di Relazioni internazionali Vittorio Emanuele Parsi, nel libro Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, scrive che oggi non si è più in grado di distinguere tra le responsabilità della politica (e della democrazia) e quelle del mercato. Mentre la prima è criticata in modo sempre più feroce per la sua incapacità di rispondere alle esigenze dei cittadini, il sistema capitalista non viene mai messo in discussione, quasi come se si trattasse dei dogmi di una nuova religione. È in questo cortocircuito percettivo che affonda le basi la crisi sociale e politica che stiamo vivendo negli ultimi anni.

Vittorio Emanuele Parsi

Parsi ritiene infatti che il mercato sia lo strumento necessario per garantire il benessere materiale dei cittadini: se ciò non avviene, il mercato ha qualcosa che non funziona e va cambiato. Lo scopo della democrazia è invece quello di garantire la trasparenza e la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali, tutelando le minoranze e la libertà di ciascun individuo. Questa va quindi giudicata non tanto sulla base del benessere che riesce procurare, ma sulla libertà che riesce a garantire. Da questo punto di vista le democrazie rappresentative, pur con i loro molti limiti e difetti, sono ancora la miglior tutela per i loro cittadini rispetto agli altri regimi politici. Basta pensare agli Stati che negli ultimi anni sono presi a modello alternativo rispetto alla democrazia liberale. Per esempio la Russia di Putin, imitata dai sovranisti europei, che con il nazional-bolscevismo del suo ideologo Alexander Dugin propone un modello fondato sulla negazione della pluralità e sulla paura del diverso. Oppure la Cina di Xi Jinping, che per l’efficienza apparente della classe dirigente e una crescita del Pil da “miracolo economico” impone ai cittadini una repressione sistematica dello spirito critico e di chi la pensa diversamente, come dimostrano i campi di concentramento per i musulmani in XinJiang o la repressione sistematica in Tibet o a Hong Kong.

Alla prova della Storia, la democrazia rappresentativa è il sistema politico che meglio è riuscito a tutelare le libertà individuali, ed è su questo che deve essere valutata. Sono le leggi del mercato capitalista, invece, che devono essere messe in discussione, dato che da loro dipende il divario sempre più grande nella distribuzione globale del benessere e delle possibilità di promozione sociale.

Qualcuno potrebbe obiettare che questo è impossibile a causa del legame tra libero mercato e democrazie, sempre più responsabili dello status di “intoccabile” del capitalismo. Come ricorda Parsi, è vero che in questi anni la sfera economica ha spesso oscurato quella politica, ma non tanto per una debolezza dell’istituzione democratica, quanto per incapacità o interesse deliberato della classe politica.

Non dobbiamo fare l’errore di credere che il legame tra democrazia rappresentativa e capitalismo finanziario sia indissolubile. L’economia del mondo globalizzato, basata sulla precarizzazione del lavoro e la delocalizzazione, sui turni infiniti di lavoro e la mancanza di tutele per i lavoratori non è legata per forza alle democrazie. Non è un caso, infatti, che uno dei Paesi che oggi ha fatto suo il capitalismo finanziario sia la Cina di Xi Jinping, un regime a partito unico formalmente ancora legato alla via cinese al comunismo.

Xi Jinping

Solo una democrazia e una politica più forti possono seriamente mettere in discussione il dominio dell’economia su ogni ambito della nostra vita, dato che rimangono gli unici strumenti per un’azione collettiva degli ultimi e degli emarginati dalla globalizzazione. Per questo è necessario rinforzare i meccanismi democratici e ridare valore alla partecipazione dei cittadini alla Cosa pubblica, nelle forme previste dalle costituzioni democratiche.  Dobbiamo lasciarci alle spalle la tentazione molto italiana di aspettare il prossimo “uomo della provvidenza” e tornare a una partecipazione attiva dal basso, inaugurando processi di alfabetizzazione democratica per un voto informato e consapevole. Come la politica ha dato il primato all’economia per tracciare il nostro futuro, così la democrazia potrà riprenderselo.

L’alternativa è rassegnarsi alla fine della Storia, questa volta per davvero. Non possiamo rassegnarci all’idea che Fukuyama avesse davvero ragione, arenandoci nella convinzione che nulla del nostro mondo possa cambiare. Se la crisi della democrazia ci insegna qualcosa, è che la Storia non ha alcuna intenzione di addormentarsi. Come diceva Machiavelli, c’è una sola certezza sulla natura dei popoli: il cambiamento.

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