L’effetto domino non è più quello di una volta. Due anni fa, quando il Regno Unito ha deciso con una maggioranza del 52% di lasciare l’Unione europea, sui media si è molto discusso di quale sarebbe stata la successiva pedina a cadere. Avremmo dovuto cominciare a parlare di Frexit, Nexit o di Italexit? Ma l’uscita del Regno Unito non ha semplicemente dato un nuovo slancio agli euroscettici. Durante la campagna elettorale francese del 2017, Marine Le Pen si è allontanata dalle sue iniziali posizioni anti-euro, e alla fine, così come Geert Wilders nei Paesi bassi, ha ottenuto un risultato molto al di sotto delle aspettative. In Italia, anche la Lega e il M5S si sono smarcati dalle loro stesse dichiarazioni sull’uscita dall’euro.
I dubbi sull’abbandono dell’euro-zona sono stati alimentati anche dalle difficoltà che il Regno Unito ha incontrato da quando il risultato del referendum è stato confermato. A luglio, Theresa May ha spiegato la sua visione sulla futura relazione tra il suo Paese e l’Europa: in sostanza, il Regno Unito dovrà accettare tutte le regole del mercato unico, perdendo però ogni influenza su di esse. Il piano di May ha causato le dimissioni del segretario per la Brexit e del ministro per gli Affari esteri, che l’ha definito scellerato. Allo stesso tempo, secondo voci provenienti da Bruxelles, i negoziatori europei starebbero cercando di strappare qualche concessione in più, ma il governo nel frattempo ha detto alle imprese di prepararsi all’eventualità che, infine, nessun patto venga siglato.
Molti di quelli che hanno sostenuto la Brexit apprezzano quest’ultima prospettiva, nella convinzione che il Regno Unito potrebbe intavolare nuovi rapporti commerciali con Paesi emergenti come la Cina. Questa settimana, la British sandwich association (l’associazione britannica dei panini), che mantiene i piedi molto più ancorati alla terra ferma, ha allarmato i consumatori annunciando che non concludere un accordo per la Brexit potrebbe significare anche l’incapacità, nell’immediato, di importare quantità sufficienti di lattuga e pomodori. Alla domanda su come prepararsi a una simile eventualità, visto che il cibo non può essere semplicemente conservato per settimane o addirittura mesi, il nuovo segretario per la Brexit ha smorzato i toni, promettendo che le provviste saranno “adeguate.” Non esattamente l’Eden che era stato promesso ai cittadini durante la campagna pre-referendaria.
Anche il più convinto campione della Brexit, il parlamentare conservatore Jacob Rees-Mogg, che con il suo portamento e stile incarna perfettamente l’immagine di un’Inghilterra eterna e immutabile, la scorsa settimana ha ammesso che i benefici dell’abbandono dell’Ue si inizieranno a vedere tra cinquant’anni. Come ha sagacemente commentato qualcuno, questa è una pessima notizia per i poveri mortali che dovranno subire le dolorose conseguenze di una decisione che porterà a miglioramenti solo quando loro saranno ormai nella tomba. Passeranno le prossime cinque decadi a domandarsi se ne sia valsa veramente la pena. Sembra che ci siamo condannati da soli a vivere nell’ombra del “neverendum”: un dibattito, e un voto sull’Europa, senza fine.
La sensazione dominante secondo la rappresentazione dei media, tra alcuni esponenti più liberali del partito Conservatore e alcune frazioni liberiste del partito Laburista, è che il referendum del 2016 sia stato un colossale abbaglio. Questo ha stranamente portato alla conclusione che, forse, votare una seconda volta potrebbe definire la questione una volta per tutte. Gli attivisti del gruppo People’s vote chiedono che la popolazione si possa esprimere sull’accordo di Theresa May – che, secondo i sondaggi, trova consenso solo nell’11% dei britannici. Le alternative, secondo loro, dovrebbero prevedere la possibilità di uscire dall’Ue con un accordo bilaterale, quella di uscire senza alcun patto, o quella di fare un passo indietro su tutta la questione Brexit. Questo sarebbe un modo per dare “ai britannici la possibilità di ripensarci,” anche se significa in realtà rifiutare il risultato del voto del 2016.
Qualsiasi saranno le conseguenze economiche di un taglio definitivo con l’Ue (che peraltro sembrano generalmente sfavorevoli), la richiesta di tornare al voto non ha senso. Prima di tutto, anche se il numero di britannici che vogliono effettivamente esprimersi sull’accordo con l’Europa è in crescita – in parte spinti dall’ovvia incompetenza del governo e dalla volontà di levarsi questa questione di torno – non ci sono prove che un altro referendum avrà risultati “migliori” del precedente. Ce ne sono anche meno del fatto che possa essere quello definitivo. People’s Vote insiste sul fatto che questo sarà un voto del tutto nuovo, ma il solo fatto che prevedano l’opzione “restiamo in Europa” indica un chiaro tentativo di sovvertire il risultato del referendum precedente.
Nonostante i costanti allarmismi circa il destino del Paese, e un chiaro cambio nella retorica degli stessi fautori della Brexit (che è passata da “È un’opportunità storica” a “Le scorte di cibo saranno adeguate”), i sondaggi mostrano che dal 2016 non ci sono stati particolari spostamenti nelle intenzioni di voto dei cittadini. Alle elezioni del 2017, il voto dell’Ukip è tornato ai partiti laburisti e ai conservatori, che hanno sostenuto politiche di abbandono del mercato unico e dell’unione doganale. Europeisti democratici e liberali non hanno fatto alcun passo avanti. In realtà, anche la stessa tripla opzione che viene proposta da chi chiede un nuovo referendum, produrrebbe risultati diversi in base al di calcolo del risultato, reso complesso dalla presenza di tre opzioni.
Sono le stesse opzioni proposte a essere instabili nel concreto. Se gli elettori scegliessero di non siglare nessun accordo con l’Unione europea, potremmo sinceramente permetterci di prenderlo come un impegno, per sempre? Potremmo quindi non fare accordi per gestire il confine irlandese, o i milioni di britannici che vivono in altre nazioni europee? Anche la proposta di May, la meno quotata nei sondaggi, rischierebbe di essere ribaltata dai Parlamenti degli altri Paesi.
Per quanto riguarda la scelta di rimanere nell’Unione europea, anche questa sarebbe tempestata di difficoltà. Prima di tutto, l’Ue non è un’entità statica. Anche se volessimo dare per scontata una dose di buona volontà da parte della comunità europea di accettare la richiesta britannica di tornare sui suoi passi – concedendole di rimanere alle stesse condizioni e con gli stessi diritti particolari di cui gode oggi in termini di valuta e di sconto sul bilancio – il referendum si trasformerebbe in una discussione sulle promesse di riforme in seno all’Unione, soprattutto in tema migranti. La possibilità che gli altri Stati membri prendano anche solo in considerazione certi suggerimenti non avrebbe altro effetto che mettere in evidenza la generale natura fallace del progetto.
Questo è notoriamente espresso nelle dichiarazioni dell’anti-Brexit per eccellenza, Tony Blair, che vorrebbe spingere le altre nazioni europee verso politiche sull’immigrazione dure che mettano in discussione la libertà di movimento all’interno dell’Unione. Per lui bisognerebbe usare il voto della Brexit per stimolare una riorganizzazione generale della comunità europea, preservandone essenzialmente l’architettura politica ed economica, ma lasciando più potere ai singoli Stati in tema d’immigrazione. La sua scommessa di adottare una linea politica ispirata alla Brexit in tutta Europa potrebbe forse invertire il risultato del nostro referendum, ma difficilmente sembra incarnare gli ideali di internazionalismo o protezione dei lavoratori migranti.
Entrambi gli schieramenti, in effetti, si sono distaccati da particolari politiche per diventare marchi identitari. Gli ideali di cui si ritengono fautori i Remainers, come la competenza, l’apertura mentale e l’internazionalismo, sono in contrasto quelli dei Leavers, che invece si dicono dalla parte di una popolazione che si ribella a un potere inaffidabile. Il rischio di superare il referendum del 2016 – che il governo aveva detto sarebbe stato definitivo e radicale – è di rinforzare ancora di più questa frattura. Se alle scorse elezioni l’Ukip ha perso terreno in favore dei partiti più grandi, l’idea di una possibile retromarcia sulla Brexit lo sta ora rafforzando. E anche se coloro che vogliono rimanere nell’Ue vincessero al secondo turno, il fatto di aver ignorato il primo risultato creerebbe un risentimento permanente che l’estrema destra potrebbe sfruttare. Distruggerebbe la fiducia nella politica. E perché, a questo punto, l’Ukip non dovrebbe spingere per un terzo referendum?
I moderati del partito laburista spingono per un secondo voto, ma lo fanno correndo il rischio di conseguenze disastrose per il partito stesso, che creerebbe uno strappo con la sua base storica, seguendo la strada già percorsa dai colleghi francesi, tedeschi e italiani. Se nel 2016 tutto sommato il divario tra favorevoli e contrari era stato piccolo, circa i due terzi dei parlamentari laburisti rappresentano collegi elettorali che hanno votato per la Brexit. Stare dalla parte dei migranti e delle nuove categorie di lavoratori delle aree metropolitane è importante per il partito, ma non c’è speranza che riescano a costituire un nuovo elettorato sulla base di queste politiche. Soprattutto se questo significa perdere, in favore dell’estrema destra, quella parte di base elettorale che ha scelto la Brexit per apatia.
Si dice spesso che la posizione di Jeremy Corbyn sulla Brexit è ambigua: è accusato dagli europeisti di non essere riuscito a impedirla e dagli euroscettici di voler ribaltare il risultato elettorale. In effetti, sono i suoi oppositori all’interno del partito laburista, i blairiani, ad essere favorevoli a un secondo referendum. La sua politica è radicata nella combinazione di realismo e principio: riconoscere il risultato del voto, ma allo stesso tempo opporsi a chi tenta di usare la Brexit per minare i diritti dei lavoratori e dei consumatori, o per imporre politiche migratorie dure. Mentre il partito Laburista promette di voler creare il governo più progressista della storia britannica – una cosa impensabile solo quattro anni fa – non potrebbe esserci nulla di più dannoso di rinforzare le divisioni identitarie del 2016.