Ultimamente sono sempre più convinto che la memoria non sia poi così utile. Ti costringe a ricordare errori commessi da te o da altri, su cui incaponirsi e incistarsi. Stai lì a riflettere in ogni istante su quella parola detta da una tua amica che proprio non ti va giù, che no, non puoi perdonare. Ripensi a quello sguardo o a quel tocco in cui hai sentito distintamente che entrambi eravate lì, insieme, per davvero. E ci pensi e ripensi perché lei pare invece se ne sia dimenticata. Ecco, non sono più convinto che chi ricorda le parole e gli sguardi stia meglio, anzi. Ormai sono anche certo che per quanto si sbandieri il mantra “Se non ricordiamo da dove veniamo, non sapremo mai dove andremo”, abbiamo anche dimenticato il suo senso. In pratica è diventato un intercalare. E probabilmente è meglio così: se non ricordiamo i nostri errori, non abbiamo nulla di cui pentirci. Noi italiani abbiamo consapevolmente deciso di tarare la nostra capacità mnemonica su un lasso temporale di due o tre minuti, dopodiché i nostri ricordi vengono automaticamente cancellati.
La politica oggi ha colto perfettamente questa opportunità data dal refresh costante dei ricordi dell’elettorato e, complice anche il crollo delle ideologie novecentesche che strutturavano il pensiero insieme all’approccio a ogni aspetto della vita, i politici di oggi hanno capito che gli basta trovare con cadenza quasi quotidiana un nuovo terreno di scontro, un nuovo fenomeno, piccolo o grande non importa, su cui poter sparare frasi a effetto che i giornali riporteranno tra virgolettati su cui poi i talk show costruiranno puntate in cui invitare gli stessi politici che grideranno un po’, fornendo materiale per meme divertenti. E avanti così in una spirale di vacuità infinita, utile solo a sostituire un finto problema con un altro che faccia dimenticare la discussione precedente, e tenere sott’occhio i sondaggi. Perché oggi politica è sinonimo di campagna elettorale, e sotto le mitragliate di roboanti stupidaggini, a soccombere è la nostra memoria già debilitata. Ci dimentichiamo anche il senso stesso della politica, ciò che dovrebbe rappresentare, ciò di cui dovrebbe occuparsi.
Il 17 febbraio a palazzo Chigi si è cominciato a discutere di come cambiare i due decreti che portano il nome di Matteo Salvini. La riforma, proposta al governo dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, è ancora tutta da scrivere – non esiste ancora neanche una bozza – ma sembrerebbero non esserci cambiamenti in vista per quanto riguarda il sistema di accoglienza ex Sprar, nella pratica smantellato dallo scorso governo, né l’eliminazione delle multe per chi soccorre i migranti in mare – si ipotizza al massimo una loro riduzione. Ciò che è certo per il momento è che non esiste alcun accordo, non solo sul contenuto delle modifiche, ma neanche sulla loro opportunità. D’altronde, è sempre più evidente l’impossibilità di conciliare le due anime giallorosse del governo. Anche perché, cercando di restare all’interno di un universo in cui la logica ha ancora valore, resta davvero difficile comprendere perché il M5S, un partito che un anno fa ha promosso insieme al suo alleato del tempo quei decreti, che solo qualche mese fa ha votato in Parlamento affinché l’ex ministro dell’Interno non venisse processato per il caso della nave Diciotti, debba oggi rinnegare tutto questo. Ma la logica l’abbiamo abbandonata tempo fa.
Il 17 febbraio però bisognava dare all’opinione pubblica l’impressione che qualcosa si stesse muovendo. Il giorno prima era stato infatti pubblicato l’ennesimo rapporto che denuncia i pericoli e gli effetti potenzialmente devastanti che quei decreti hanno causato. Il rapporto di ActionAid e OpenPolis Centri d’Italia: la sicurezza dell’esclusione ha denunciato anche l’operato del nuovo governo, soprattutto per il ruolo che ha avuto nel nuovo capitolato di gara d’appalto, che avrebbe dovuto segnare la discontinuità con il precedente esecutivo e ha invece finito per unire politiche dei due governi con un unico filo conduttore. Il capitolato ha previsto infatti un taglio deciso della spesa, passando dai famosi 35 euro al giorno stanziati per persona a 19/21 euro. È bene ricordare che quei 35 euro non erano uno stipendio dato in tasca ai migranti, ma la cifra che proprio il ministero dell’Interno ha calcolato come spesa media quotidiana dell’accoglienza, relativamente a migranti adulti. Questo taglio non fa che favorire gli enti gestori che hanno una maggiore capacità economica, le aziende e gli enti profit. Molti attori dell’accoglienza hanno deciso di non presentarsi ai bandi di gara per protesta, mandandoli deserti, ma in svariati casi i più grandi e quelli a scopo di lucro hanno invece partecipato, accettando condizioni peggiorative e a scapito dei servizi offerti.
Questo però non fa altro che favorire proprio chi prospera grazie al “business dell’accoglienza” che l’ex ministro dell’Interno sembrava temere tanto. “Il nuovo modello di accoglienza, per come emerge dalle regole e dal taglio dei costi previsti dal nuovo capitolato, penalizza l’accoglienza diffusa e privilegia i centri di grandi dimensioni e i grandi gestori”, si legge nel rapporto. Questo accade perché, anche se i margini di guadagno sono bassi, l’ente profit di grande dimensioni in alcune circostanze può essere comunque interessato, a differenza delle no-profit. Abbassando al minimo i costi e fornendo un servizio pessimo, può infatti calcolare un utile che seppur irrisorio diventa significativo se moltiplicato per il numero elevato di ospiti delle strutture.
Il policy advisor di ActionAid ritiene inoltre che il punto più pericoloso del nuovo capitolato sia quello riguardante i “Requisiti richiesti per l’accesso alla gara”, perché allarga le maglie di accesso alle gare d’appalto rendendo non più obbligatorio avere almeno tre anni di esperienza nel settore. “La circolare apre a grandi gestori e all’immissione di capitali esteri. Spinge sugli oligopoli, sulle multinazionali del sociale, sui grandi centri che possono fare economia di scala”, aggiunge il report. Vista la politica seguita dal Viminale diretto da Lamorgese, pare ormai evidente che i decreti non verranno affatto abrogati. Verranno al massimo limati, sempre che non si offenda nessuno. Stando infatti a quanto detto dalla stessa ministra a margine del Cdm del 17 febbraio, la necessità è “Impedire di trasformare il testo in materia di scontro politico”.
È qui che il cortocircuito della politica italiana si manifesta in tutta la sua assurdità. Se non vogliamo lo scontro politico su temi che sono politici per antonomasia come l’accoglienza e l’integrazione, se proprio chi siede in Parlamento è spaventato dal dibattito politico, basato sulla contestazione, confutazione o argomentazione di tesi e idee, sulla costruzione di immaginari e soluzioni, di cosa stiamo parlando? I nostri politici oggi preferiscono davvero uno “scontro politico” come quello cui assistiamo quotidianamente su giornali, siti e social e che si concentra solo sulle fidanzate dei ministri, sui meme o su qualche accusa lanciata a caso durante una diretta Facebook? Se è davvero così, allora non esiste alcuna discontinuità tra questo governo e il precedente. Il problema dei decreti sicurezza infatti è l’idea alla loro base, mentre le misure che dettano sono solo una conseguenza. Se ti limiti a modificare in minima parte le misure, significa che ne condividi comunque l’idea di fondo.
Ma cerchiamo solo per un attimo di far riaffiorare la memoria, sperando di non far torto nessuno. Solo fino a qualche mese fa, grazie all’incessante narrazione dell’estrema destra italiana, in Italia il problema più insormontabile, il più infido e deflagrante dei mali era rappresentato dalle Ong, dal cosiddetto “business dell’immigrazione”. Nonostante nessuno sia stato anche solo sfiorato da un libico in fuga dalla guerra, gli italiani si sono convinti che da un momento all’altro flotte di navi in stile D-Day avrebbero fatto rotta dalle coste del Nord Africa verso la Sicilia per conquistare le terre del popolo italico, rubargli il lavoro, stuprarne le mogli e le figlie e vendere “la droga” ai retti e ineccepibili giovani italiani.
Cavalcando la paura dell’uomo nero, il governo gialloverde ha potuto far approvare in tutta fretta i decreti di cui Matteo Salvini si è fatto simbolo. Il primo “decreto sicurezza” è entrato in vigore il 5 ottobre 2018 e interviene soprattutto sul sistema di accoglienza italiano. Il secondo – chiamato anche “decreto sicurezza bis” e approvato dopo le rimostranze del Presidente della Repubblica Mattarella – ha modificato le norme riguardanti gli sbarchi dei migranti soccorsi in mare. Assegna al ministro dell’Interno la possibilità di vietare l’ingresso nelle acque territoriali del Paese alle navi che violano le leggi italiane in materia di immigrazione. Inserisce anche la possibilità di comminare ingenti multe per i comandanti delle navi che ignorano il divieto di ingresso previsto dall’articolo, con cifre che oscillano tra i 150mila e il milione di euro e la confisca dell’imbarcazione.
Che nessuna delle misure contenute in quei decreti avrebbe magicamente risolto l’emergenza lo si diceva da tempo. Per un motivo molto semplice: non esisteva nessuna emergenza. Servivano all’estrema destra e in particolare a Salvini per raccattare consenso facendo diventare necessaria un’azione contro una minaccia inesistente, che si è alimentata soprattutto grazie alla criminalizzazione delle Ong e del sistema di accoglienza. L’unico risultato di questa politica senza alcun fondamento nella realtà è stato che delle 18 inchieste avviate nei confronti delle Ong, quelle che i 5 Stelle chiamavano “taxi del mare”, quattro sono state archiviate prima di giungere a un processo e una ha condotto a un’assoluzione. Tutte le altre sono ancora aperte, ma nessuna è ancora arrivata al processo. A causa del mio “difetto” mnemonico ricordo benissimo gli editoriali di Travaglio in cui parlava di prove inconfutabili riguardo la complicità tra scafisti e Ong, ma temo che oggi sia Travaglio a non ricordarsi quali fossero, visto che l’Autorità giudiziaria ancora non le ha trovate.
Molte di queste inchieste sono state accompagnate del sequestro dell’imbarcazione operata dalle Ong. Cumulativamente, i sequestri sono durati 45 mesi e si sono concentrati soprattutto nei mesi estivi, in cui aumentano le partenze dalle coste libiche e la necessità di operare salvataggi in mare. Altro risultato è stato quello di distruggere il sistema degli Sprar, e l’approccio all’integrazione oltre che all’accoglienza di cui Mimmo Lucano era simbolo, sabotato da politici che pubblicavano video avallando l’autorevole opinione di un prestanome della ndrangheta. E adesso gli studi dimostrano che i decreti Salvini possono diventare un incentivo proprio a quel business che in teoria il Capitano doveva abbattere.
Sono molti i commentatori che nel tentativo di contestare quei decreti ne sottolineano l’inefficacia. “Non ha rimpatriato quanto prometteva”, “Gli sbarchi ci sono sempre” e così via. Qui però il cortocircuito è ancora più evidente: se ti contrapponi all’idea che l’estrema destra ha per “risolvere” il fenomeno migratorio devi appunto contestare quell’idea, dimostrarne l’infondatezza. Personalmente ritengo chi adotta questo approccio alla stregua di chi, per contestare l’operato di Hitler, decide di concentrarsi sul fatto che alla fine Adolf “non è mica riuscito a sterminare tutti gli ebrei, i dissidenti politici, i rom, i disabili e gli omosessuali”. Il problema non è l’entità della multa. I decreti Salvini sono da abrogare perché il fenomeno migratorio non può risolversi creando un muro di navi nel canale di Sicilia, né facendo e rinnovando accordi con un Paese come la Libia che “limita i flussi in partenza” creando lager dove la tortura è pratica quotidiana. Devi combattere l’idea secondo la quale saremmo sotto assedio, tra le altre cose, discutendo i trattati nelle sedi istituzionali (come ha rinfacciato Elly Schlein a Salvini in un video diventato virale). Invece il Pd, al posto di smontare, confutare e superare politicamente il paradigma “tornatevene da dove siete venuti, qui non c’è posto”, lo accetta per “Impedire di trasformare il testo in materia di scontro politico”.
L’elettore cosa può pensare di fronte a questo atteggiamento? Penserà che forse multare per un milione di euro le Ong non sia il massimo, ma che una cifra più bassa possa andare bene. D’altronde siamo in emergenza!
Quei decreti sono stati fatti approvare creando la paura di una potenziale e grave minaccia allo Stato a opera dei migranti. Come può la sinistra rinunciare a combattere quest’idea? Perché si ostina ad aver paura di parlare all’elettorato – tutto l’elettorato – spiegando che non esiste nessuna sala di comando in un bunker sotterraneo al centro del continente africano in cui si riunisce un’organizzazione segreta formata da esponenti del gruppo Bilderberg, Soros – non è un caso che anche il suo nome sia passato di moda nella narrazione di Salvini e Meloni –, la massoneria, le Ong e le comandanti di nave tedesche, tutti impegnati a perfezionare il piano di invasione del Vecchio Continente e la sostituzione etnica dei suoi abitanti?
Come si può credere di poter conciliare l’approccio nazionalista e xenofobo dell’estrema destra con quello di una sinistra che dovrebbe mirare all’inclusione e al multiculturalismo? Davvero non si è imparato nulla dai propri errori, e non si è capito che emulare le politiche della destra non fa altro che legittimarla e portarle voti?
Chi è al governo e non si riconosce nei dis-valori di cui Salvini si è fatto portavoce e vuole realmente combatterli ha solo una possibilità: abrogare i decreti sicurezza e battersi affinché l’opinione pubblica capisca che non è mai esistita alcuna emergenza. Deve lottare perché si accetti una volta per tutte che, per affrontare il fenomeno delle migrazioni (di cui noi occidentali siamo i primi responsabili), il paradigma non può continuare a essere quello dell’accoglienza, ma dev’essere quello dell’integrazione. Nessuno dice che sia facile, ma fin quando non ci sarà qualcuno disposto a ignorare per qualche minuto i sondaggi elettorali per tornare a occuparsi davvero di politica, saremo sempre dalla parte sbagliata della Storia. Tanto ce lo dimenticheremo nel giro di due o tre minuti, e torneremo tutti felici e pronti a scontrarci a suon di meme. E alla fine dimenticheremo anche quell’amica che, prima di noi, aveva capito che la memoria è una brutta bestia.