Il grillismo si basava su un’idea che crea danni tutt’oggi: che ognuno di noi potesse essere un dio. - THE VISION
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Per i nativi digitali non c’è stata una vera e propria forma di apprendimento digitale: la tecnologia era ed è un automatismo, organica alla quotidianità. In politica, per i “nativi berlusconiani” il processo è stato simile. Non si trattava di sostenitori dell’ex Cavaliere, ma di chi è nato e non ha dovuto approcciarsi a lui come un nuovo fenomeno, in quanto era Berlusconi stesso a entrare nelle nostre esistenze e a rendere la sua presenza cronica e inevitabile. Anche adesso che è morto, a volte faccio fatica a pensare che non ci sia più: ogni tanto, nel mezzo di una giornata qualunque, mi ricordo all’improvviso della sua dipartita con la sorpresa di chi non ha ancora preso coscienza del tutto di un evento, dopo che trent’anni d’abitudine hanno creato un callo. Forse questo è un meccanismo più comune in chi Berlusconi ideologicamente lo contrastava, mi dico, e i veri orfani siamo noi, che “resteremo ancora, come sempre, dei poveri comunisti”, pur non avendo mai conosciuto l’era della falce e martello.

È vero, la morte di Berlusconi non è coincisa con quella del berlusconismo, che ancora determina i tratti del nostro tempo, ma il Berlusconi politico negli ultimi dieci anni è stato decisamente marginale. Percentuali basse alle elezioni, un lungo periodo fuori dal Parlamento per i suoi guai con la giustizia, la leadership perduta consegnandola prima a Salvini e poi a Meloni. Se i danni del berlusconismo hanno caratterizzato tre decenni – o anche di più, considerando che già prima della sua discesa in campo aveva preso il controllo della mente degli italiani con le sue televisioni – è però sbagliato pensare che il popolo, caduto un culto, non ne abbia abbracciato un altro. Antropologicamente e culturalmente, soprattutto in concomitanza con l’esplosione di Internet, il post berlusconismo è stato infatti segnato da un fenomeno di massa di cui i danni, diretti e collaterali, sono ancora sottovalutati. Si tratta del grillismo, con il M5S ad aver accompagnato il passaggio dalla politica analogica a digitale in modo brutale, probabilmente irreparabile.

Silvio Berlusconi

Il M5S, per lo meno quello al suo apice, ha un aspetto in comune con Forza Italia: essere un partito-azienda. La rottura con la Casaleggio Associati e un Grillo più defilato, in panciolle sul suo Aventino dorato, sono arrivati con il Movimento già in caduta libera. La bolla era già scoppiata e il M5S ormai a tutti gli effetti un partito vero, per giunta con dinamiche da Prima Repubblica e manuale Cencelli. Prima del crollo, il M5S era simile a Forza Italia per quella fede che rendeva i suoi sostenitori dei seguaci. Se per Forza Italia si trattava di un culto della personalità esistente solo in funzione del suo leader, un monoteismo granitico, il M5S ha invece dato vita a un culto più da setta, e gli adepti non venivano più pescati dalla televisione, ma dal web. Il testo sacro era un blog, e San Pietro poteva essere chiunque: il ragazzo che scriveva sui forum con la maschera di V per Vendetta come avatar, un appassionato di Marco Travaglio, il complottista Napalm 51, il tuo vicino di casa. Se il dio Berlusconi era la somma esasperata dei desideri reconditi dell’italiano medio (soldi, potere, successo, donne), il politeismo grillino prevedeva che il dio potessi essere tu, l’uomo qualunque di gianniniana memoria. 

Beppe Grillo
Roberto Casaleggio

La Trinità grillina – pensiero, linguaggio, azione – ha plasmato le nostre vite più di quanto possiamo immaginare. Il “pensiero” però nasce dalla pancia, dalla rabbia, e Grillo ha capito sin dall’inizio che se il popolo si lamentava perché “i politici rubano”, lui e le sue creature dovevano necessariamente presentarsi come altro. Ricordo una scena in piazza con Paola Taverna che urlava “Io nun zo politico”, ed era in effetti il primo comandamento del grillismo: l’antipolitica non poteva che basarsi sul rifiuto del politico come mestiere, come rappresentante dello Stato, come categoria. Arrivò al momento giusto, perché all’epoca la destra era travolta dagli scandali di Berlusconi e la sinistra, più o meno come oggi, faticava a compilare le generalità sulla carta d’identità, non trovando una sua forma. Così il grillismo si è infiltrato con uno stratagemma ancora più sottile: non soltanto i suoi esponenti non dovevano essere dei “politici”, persino il suo elettorato doveva smarcarsi dalla logica delle ideologie. Il né di destra né di sinistra, un escamotage ambiguo e forse un po’ ipocrita per incamerare un po’ tutti, fu lo slogan della post-ideologia.

Paola Taverna

In tal modo, abbracciarono la causa grillina gli apolitici, qualche destrorso populista, la creatura mitologica del grillino di sinistra, gli avventurieri delle urne, quelli che vedevano in un “vaffanculo” non soltanto uno sfogo, ma una soluzione. E, parliamoci chiaro, come forza d’opposizione funzionava. Urlare contro i governanti è di facile presa, non si sbaglia mai, porta alla creazione di un insieme di scontenti che viene consolato dalla presenza in Parlamento di gente come loro. Se Berlusconi era sopra, ciò che l’operaio o l’impiegato sognavano di diventare dopo ore di programmi Mediaset immagazzinati per anni con la cura Ludovico in salsa berlusconiana, il grillino veniva percepito sullo stesso piano. Il pensiero poi andava a braccetto con il linguaggio, che doveva essere forte, violento – e non poteva essere altrimenti per chi è nato mandando a fanculo “la Casta”. La comunicazione online è stata la chiave del successo del M5S. E poi potevano contare sul giornalista al tempo più amato dagli antiberlusconiani: Marco Travaglio. Senza il suo appoggio e la stampella del Fatto Quotidiano, il M5S non avrebbe avuto quella legittimazione di massa e l’adesione di una parte del centrosinistra – la stessa che poi avrebbe voluto sotterrarsi quando si trovò al governo con la Lega. Possiamo dire che il M5S non si limitò ad attuare un linguaggio internettiano: lo creò. Ed è tuttora in vigore. Se Salvini e Meloni seguono ancora la scia del berlusconismo per alcune caratteristiche politiche, sono infatti indiscutibilmente figli del grillismo a livello di comunicazione.

Marco Travaglio

Oggi leggiamo sui profili social della destra gli attacchi al nemico di turno: l’avversario politico, l’immigrato, Bruxelles, Soros, i centri sociali. Non è nulla di inedito. Furono i grillini a sdoganare la politica dello scontro attraverso titoli che si rifacevano a termini come “asfaltare”, “distruggere”, “annientare”. Il dibattito politico diventò un ring: non c’era più la contrapposizione tra due idee diverse, ma Di Battista che asfalta Renzi o Di Maio che umilia Boschi. Inoltre il M5S nasce come forza antieuropeista, registrò spot per abbandonare l’Euro, pose le basi per quello che in seguito Salvini e Meloni avrebbero rielaborato con toni più caciaroni (il leghista) e più politichesi (l’attuale premier). Il linguaggio politico che conosciamo adesso è stato fondato nelle sedi della Casaleggio Associati attraverso siti satellite, catene di Sant’Antonio e link di dubbia provenienza. Essendo abili nel mondo informatico, fecero sembrare i “vecchi partiti” dei dinosauri. Il PD era Internet Explorer, il M5S il futuro.

Alessandro Di Battista

Il vero problema, dopo aver settato un pensiero e un linguaggio, era tradurre in azione quella furia incendiaria, portare l’antipolitica nelle stanze della politica. Bisognava rendere credibile Rocco-del-Grande-Fratello come factotum di Palazzo Chigi, il negazionista dell’allunaggio come deputato, il no-vax come sottosegretario. E, soprattutto, diventare dei politici. La conseguenza la conosciamo: coloro che non erano né di destra né di sinistra diventarono prima di destra, poi di sinistra, poi sostennero un governo tecnico. Come risultato, dall’apoteosi elettorale del 2018 il M5S dilapidò gran parte dei suoi voti fino all’irrilevanza. Il velo era caduto, e dietro non c’era niente. Il pragmatismo da rasoio di Occam si trasformò in semplicismo pressappochista. Di Battista, Di Maio, Casaleggio Jr e centinaia di esponenti abbandonarono la nave in momenti diversi. E il sopravvissuto, Giuseppe Conte, non ha potuto che approcciarsi al camaleontismo politico: prima alleato di Salvini, poi uomo di sinistra, adesso figura di un’opposizione fantasma. Nel mentre è arrivato al potere chi ha applicato la dottrina grillina seguendo le proprie varianti. Ma da lì non si scappa: sempre di gentismo si tratta.

Giuseppe Conte

Ecco, forse il gentismo è la peggiore eredità del M5S. Si differenzia dal populismo per i suoi intenti più subdoli. Se il populista segue gli umori della folla e scrive il suo programma in base a essi, al “vento che tira”, il gentista il vento lo crea. Fa credere al popolo che una problematica immaginaria sia la sua priorità da risolvere e che a farlo debba essere uno come lui, non un politico. Distrugge il concetto di rappresentanza e l’utopia di essere governati dal meglio che la società civile, diventata classe politica, possa offrire. Non che i populisti di un tempo avessero portato luminari al governo, ma il gentismo prevede l’esclusione in anticipo di una competenza. Crediamo erroneamente che termini come “professorone” o “radical chic” nell’accezione contemporanea siano una prerogativa di Salvini e poi di Meloni. In realtà Grillo, Di Battista o Di Maio usavano queste espressioni molto prima. E così il gentismo ha disintegrato la figura degli “intellettuali”, di personaggi di rilievo nei propri campi, preferendo gli onesti ai capaci. Perché “la gente è stanca della politica”. In realtà la gente è stanca della malapolitica, e la soluzione è votare politici migliori, non persone a caso elette con un centinaio di voti su un sito web. Se un meccanico non è in grado di ripararmi la macchina, io per ripicca non mi affido a un pasticciere. A costo di fare il giro di dieci meccanici, cercherò quello giusto. Il gentismo però ha portato i pasticcieri a riparare la macchina. E la macchina in questione, rotta già da parecchio, è il nostro Paese.

Forse tra qualche anno ricorderemo il M5S per gli aspetti più buffi, per chi parlava di sirene e microchip sottocutanei, per l’incompetenza al potere, ma non possiamo commettere l’errore di derubricare a fenomeno di costume un movimento che ha segnato una porzione dei nostri tempi in modo così diretto. Il grillismo ha dato il via a ciò che vediamo e sentiamo oggi, ovvero una politica dei nativi grillini, quella nata sul web. Oggi nessun politico può farne a meno: i social hanno sostituito le conferenze stampe e i manifesti elettorali, fondendoli in un’unica materia. Io credo inoltre che il grillismo al momento abbia fatto più danni persino delle azioni di Salvini e di Meloni. Il leghista è (stato) una figura macchiettistica, è durato poco, ha fatto i suoi disastri ed è evaporato nel giro di poche stagioni, un po’ con le tempistiche di Renzi. Sarà ricordato, ci si augura, come un pessimo politico, ma non ha rivoluzionato nulla. Meloni, essendo più avveduta del suo collega, rischia di governare a lungo e di tingere sempre più di nero la nostra Repubblica. Ma anche lei non è una novità: ha portato a compimento il piano di Almirante, e rispetto al suo maestro c’è riuscita. Il grillismo invece ha messo su radici, ha infettato anche i suoi avversari e ha modificato geneticamente il modo di intendere la politica degli italiani. Senza il grillismo, Salvini e Meloni non avrebbero mai compreso il vero segreto per arrivare al vertice: affidarsi a un social media manager stratega piuttosto che a un programma politico vincente.

Oggi, infatti, sono le “bestie social” a segnare le sorti di un politico. Senza Morisi e Longobardi avremmo avuto leghisti e neofascisti nascosti nelle loro nicchie. Non ce ne siamo ancora resi conto, ma siamo ancora nell’era del grillismo nonostante il crollo del M5S. In combinazione con la scia del berlusconismo, la miscela che viene fuori è letale per il Paese e i danni continueremo a pagarli ancora a lungo.

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