Fino a qualche giorno fa ero preoccupato. La campagna elettorale era già entrata nel vivo, il Partito Democratico prospettava l’abolizione del canone Rai, Liberi e Uguali diceva di voler rendere l’università gratuita e Silvio Berlusconi assicurava che “Toglieremo il bollo auto e l’Iva sul cibo dei cani”. Nessuno però aveva ancora usato la carta del condono, una di quelle che ti fa gridare ‘scopone’ appena te la ritrovi in mano. Neanche il tempo di rendermene conto, che sono stato subito smentito. Durante un’ospitata in tv, Matteo Salvini ha tirato fuori il jolly dal mazzo, promettendo una “pace fiscale” nel caso in cui dovesse salire al governo.
“Ci sono milioni di italiani ostaggio di Equitalia che non pagheranno mai”, ha dichiarato il leader della Lega Nord. “Io posso o far finta di niente o convocare uno per uno questi italiani, che hanno una cartella con un importo sotto i 100mila euro, e chiedere il 15% di quello che non mi daranno mai. Io incasso contante e tu torni a lavorare”. La proposta di Salvini si rivolge dunque a quei contribuenti che hanno contratto debiti di natura tributaria e che avrebbero così la facoltà, presentando domanda, di sanare la propria situazione, pagando l’importo.
In realtà già il candidato premier del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, l’estate scorsa aveva provato a fare propria la carta del condono, questa volta edilizio. “Non puoi voltare le spalle a quei cittadini che oggi si ritrovano con una casa abusiva a causa di una politica che per anni non ha fatto il suo dovere, cioè piano casa e piani di zona”, aveva spiegato a Repubblica. “Sia chiaro, la casa è un diritto e se andremo al governo introdurremmo anche l’impignorabilità della prima casa, da parte dello Stato e delle banche”.
Il dibattito sui condoni che si sta progressivamente inserendo nelle maglie dell’attuale campagna elettorale non è cosa nuova. Studiare la storia italiana degli ultimi cinquant’anni significa infatti fare un tuffo in una marea di sanatorie, concordati, indulti. E restarne sommersi. Esiste infatti una vera e propria cultura legislativa del condono in Italia, qualcosa che appartiene solo a noi. “Quando parliamo di condono edilizio o fiscale, i giudici stranieri non ci capiscono: loro pensano alla grazia. Allora noi spieghiamo che è diverso: la grazia si applica a un solo condannato, il condono a tutti i colpevoli”, spiega il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo. “A quel punto i giudici stranieri scoppiano a ridere: non ci credono, pensano che li prendiamo in giro”.
Come racconta l’Espresso, che ha anche realizzato una timelime riassuntiva in proposito, dal 1900 a oggi si contano 63 provvedimenti di perdono pubblico dell’evasione fiscale, del lavoro nero e degli abusi edilizi. Tra i primi condoni della storia d’Italia c’è quello contenuto nella riforma Visentini del 1973. L’obiettivo era superare un sistema tributario fondato sull’evasione fiscale e la crescita del debito, e dopo qualche giorno in cui sui giornali si cercava di spiegare ai cittadini cosa fosse un condono, la risposta popolare fu delle migliori. Due milioni e 700mila tra singoli cittadini e imprese misero in regola i loro pagamenti, con un introito per lo stato di 3mila miliardi di lire di allora.
In realtà già un paio di millenni prima l’imperatore romano Adriano aveva cancellato tutti i debiti fiscali dei contribuenti, mentre nel 1900 il Regio Decreto numero 367 aveva deliberato un ”condono di pene pecuniarie”. Quella inaugurata con la riforma Visentini fu però la prima vera stagione dei condoni italiani, che vide il suo picco tra gli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta. Nel 1982 l’ex ministro delle finanze Rino Formica adottò il condono tombale, che riguardava tutte le imposte e diede circa 11 miliardi di lire di gettito. Nove anni dopo lo stesso Formica avanzò un altro condono fiscale, che si risolse con minori entrate per lo Stato rispetto all’esperienza precedente – 6,5 miliardi di lire. Sullo sfondo, un’altra miriade di misure simili in altri ambiti, per una media di un condono ogni sei mesi nel periodo 1987-1992.
“In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge”, denunciava Giulio Tremonti nel 1991 sul Corriere della Sera, che tra le altre cose definiva la scelta del condono un suicidio fiscale, avanzando anche dubbi sulla moralità della misura.
Nel 1994 il neoministro Giulio Tremonti – sì, lo stesso dell’articolo sopra – lanciava un concordato fiscale di massa valido fino al 1997. Sempre Tremonti nel 2002-2003 introduceva un nuovo condono che fece entrare nelle casse dello stato 19,3 miliardi di euro, mentre nel 2009-2010 fu la volta dello scudo fiscale con cui gli evasori con i soldi all’estero potevano mettersi in regola, con la garanzia dell’anonimato. Centottantamila evasori beneficiarono della misura, ripulendo 105 miliardi di fondi neri. “Decine di inchieste giudiziarie hanno poi accertato che, dietro l’anonimato, si nascondevano anche mafiosi, narcotrafficanti, bancarottieri e squali della finanza”, scrive L’Espresso.
Altri concordati, sanatorie e paci fiscali si sono alternate nel corso di questi decenni. Nel 2015 la voluntary disclosure del Ministro Padoan faceva sì che l’evasore potesse auto-denunciarsi, spiegando come avesse commesso il reato e pagando le imposte con gli interessi – in cambio di forti sconti sulle sanzioni. L’ultimo in ordine di tempo è invece il condono introdotto dal governo Renzi nel novembre del 2016 – guarda caso in un momento di campagna elettorale, un mese dopo si teneva il referendum costituzionale. È stata mandata in pensione Equitalia, l’agenzia per l’entrate tanto odiata dagli italiani, con la conseguente rottamazione delle cartelle esattoriali notificate tra il 2000 e il 2015 (termine poi esteso al 31.12.2016), con sconti su sanzioni e interessi di mora.
Mentre per tutti questi decenni si dava una seconda occasione a milioni di evasori fiscali, la cultura del condono si faceva strada anche da un altro punto di vista, quello edilizio. Con esso si fa riferimento alla regolarizzazione, dietro pagamento di una somma di denaro, di edifici o parti di essi costruiti o modificati senza permesso. In pratica, si rende legale ciò che fino a un minuto prima non lo era. Il primo condono edilizio venne approvato dal governo Craxi nel 1985 con l’obiettivo di regolarizzare un contesto di abusivismo divenuto ormai selvaggio. “Nel 1984, su un totale di 270mila nuove abitazioni, circa un terzo (80mila unità) risultarono fuorilegge”, scrive la Repubblica. “Nel quinquennio 1984-1998 il totale di edifici abusivi raggiunse quota 232mila, per un totale di 32,5 milioni di metri quadri e un valore immobiliare di 29mila miliardi di lire”. In questo scenario il governo Berlusconi approvò un nuovo condono edilizio nel 1994, ripetuto poi nel 2003.
L’obiettivo di queste misure era quello di far entrare fiumi di denaro nelle casse statali attraverso i pagamenti per la messa in regola. Il problema è che il processo di regolarizzazione comporta dei costi per lo Stato: nel momento in cui una casa viene sanata, bisogna fornirle tutti quei servizi di base come fognature, allacciamento all’acqua, elettricità e via dicendo, secondo i vincoli stabiliti per legge. Servizi, questi, a carico delle istituzioni locali. Nel caso dei condoni edilizi, si stimava che queste spese sarebbero state nettamente inferiori agli introiti provenienti dalla regolarizzazione. In realtà, in molti casi non è andata così e il condono si è rivelato un boomerang finanziario.
C’è poi un altro problema legato alla questione del condono, edilizio o fiscale che sia, ed è un problema di tipo culturale: la cronicità di misure di perdono crea un clima dove l’abuso diventa normalità, la violazione della legge prassi, nella speranza – anzi, nella consapevolezza – che arriverà sempre un provvedimento che permetta di tornare in regola nel caso in cui le cose dovessero mettersi male. Per quanto riguarda l’edilizia, la grande stagione dei condoni inaugurata negli anni Ottanta non ha tagliato le gambe all’abusivismo, anzi.
Come spiega l’Istat nel Rapporto sul benessere equo e sostenibile, in Italia “Nel 2015 sono state realizzate quasi 20 costruzioni abusive ogni 100 autorizzate, contro le 17,6 dell’anno precedente e le 9,3 del 2008″. Nel Mezzogiorno, l’abusivismo supera ormai largamente il 50% della produzione edilizia legale. Non è un caso quanto successo a Ischia in estate, quando un terremoto di magnitudo 4 della scala Richter ha causato danni ingenti, decine di feriti e due morti. “Molte costruzioni sono realizzate con materiali scadenti, che non corrispondono alla normativa vigente”, ha spiegato Angelo Borrelli, capo della Protezione civile. “Per questo alcuni palazzi sono crollati o sono rimasti danneggiati”. Legambiente ha denunciato che dal 2009 seicento case dell’isola sono state colpite da ordine di demolizione per abusivismo, mentre sono oltre 27mila le pratiche di condono presentate dagli abitanti in occasione delle tre leggi nazionali.
Il problema è che anche quando il condono edilizio arriva, non è detto che la pratica possa concludersi in tempi brevi. Secondo una ricerca del centro studi Sogeea, i tre condoni della storia italiana hanno portato a 15,4 milioni di auto-dichiarazioni di abusi edilizi. Più del 30% di queste domande non è però ancora stato esaminato dagli uffici comunali competenti. La tragedia di Ischia è dunque anche il risultato di quel limbo tra legalità e illegalità causato dalla cultura dei condoni, un contesto dove auto-dichiarare i propri abusi è sufficiente a ripulire la propria fedina, al di là dell’effettiva regolarizzazione. “Non analizzare una domanda di condono significa garantire una sanatoria gratuita a chi l’ha presentata”, scrive Francesco Chiodelli, Professore associato in urbanistica presso il Gran Sasso Science. “In secondo luogo, è probabile che molte di queste domande, se venissero esaminate, sarebbero respinte. Il respingimento, in molti casi, significherebbe però l’obbligo per il Comune di demolire tali abitazioni”. Spesso c’è dunque l’interesse a lasciare le cose come stanno.
Anche a livello fiscale, il condono non ha avuto grandi effetti positivi fino a ora. Tra il 2011 e il 2014, il tasso di evasione fiscale è cresciuto del 5,3% secondo i dati del centro studi di Confcommercio. Le miriadi di paci fiscali della storia italiana recente hanno portato liquidità nelle casse statali, ma spesso sotto le aspettative e fornendo anzi un’arma in più agli evasori. “Tutti i condoni, compresi quelli edilizi e previdenziali, varati dal 1973 a oggi avrebbero garantito un incasso, attualizzato in valuta 2005, di 104,5 miliardi di euro. Se fosse così, in trent’anni l’Erario avrebbe recuperato con le sanatorie l’evasione fiscale di un solo anno, che è appunto stimata in circa 100 miliardi di euro”, scriveva nel 2009 il Corriere della Sera. “Come se non bastasse, c’è stato pure chi ha aderito al condono, ma poi non ha nemmeno pagato, o pagato tutto. La Corte dei conti nel novembre 2008 ha rivelato che a quella data restavano da incassare ancora 5,2 miliardi di euro dei 26 miliardi attesi per il condono 2003-2004, in base alle dichiarazioni pervenute alle Finanze. Cinque miliardi su 26: il venti per cento”. Era nata una nuova categoria di evasori, per l’occasione doppi.
L’Italia è un Paese dove la pressione fiscale è molto alta – si classifica al sesto posto tra i 35 Paesi dell’Osce. L’Italia è anche un Paese dove la burocrazia edilizia è lunga e tortuosa, rendendo l’ottenimento dei permessi per costruire e ristrutturare un percorso a ostacoli. Legalizzare ex-post condizioni di abuso non è però la soluzione, perché non fa altro che gonfiare il problema attraverso la creazione di una cultura dell’illegalità. I Salvini e di Maio che usano il jolly del condono nella campagna elettorale di oggi, i Renzi e i Berlusconi che l’hanno usato in quella di ieri, sbagliano sapendo di sbagliare.
Foto in copertina: Collina di Pizzo Sella, Palermo, 2012
©Tommaso Bonaventura, Alessandro Imbriaco, Fabio Severo