In un Paese in cui interviene subito la Digos se si pronuncia la frase “Viva l’Italia antifascista” e solo a scoppio ritardato quando centinaia di fascisti fanno saluti romani tra le croci celtiche davanti all’ex sede dell’MSI, è inevitabile che nell’immaginario collettivo vengano a crearsi ambiguità e incongruenze lessicali. In queste settimane, dopo i fatti di Acca Larentia, ho approfittato del lancio di Threads – piattaforma di Meta con un hype durato la bellezza di un giorno e mezzo – per tastare l’umore dei commentatori sul web. I destrorsi duri e puri, spinti dallo slancio del nuovo social e impegnati a scrivere i commenti più provocatori, hanno fatto parecchia confusione nel definire gli antifascisti. Ci sono state varie declinazioni ormai in disuso da lustri – “zecca rossa” su tutte – ma ogni termine si ricollegava a quello principale: comunista. Il fatto che qualsiasi avversario della destra, persino della più estrema, venga considerato un comunista è l’eredità, o forse la vittoria, dell’uomo che in Italia ha basato la sua discesa in politica, la sua permanenza al potere e persino la sua caduta su questa strategia: Silvio Berlusconi.
Nel 2023, in uno dei suoi ultimi post su Facebook prima della morte, Berlusconi ricordò la vittoria alle elezioni del 1994 con queste parole: “Era successo un miracolo, la sinistra era stata sconfitta e l’Italia non era diventata un Paese comunista!”. Concetto già ribadito in svariate interviste, come quella al Giornale nel 2005, in cui disse: “Nel ’94 scesi in campo perché i comunisti stavano per prendere il potere dopo aver scardinato la democrazia con l’uso politico della giustizia”, per una visione un po’ particolare e personale di Tangentopoli.
Anche nel 1996, quando sfidò Romano Prodi, stavolta perdendo, il leitmotiv era lo stesso, tanto che la sera delle elezioni, nel suo quartier generale, si lamentò per le interviste di Enrico Mentana ai politici di centrosinistra: “Questo disgraziato dà più spazio ai comunisti che a noi”. Adesso fa sorridere immaginare Prodi, trent’anni nella Democrazia Cristiana, dipinto come un bolscevico, così come questa fobia del comunismo con il muro di Berlino crollato da anni, l’Unione Sovietica dissolta e così il PCI, partito che tra l’altro aveva al suo interno Berlinguer e Iotti, non Stalin e Breznev. Eppure la creazione di un nemico immaginario è l’arma più efficace per penetrare tra gli umori delle masse, e Berlusconi lo sapeva bene.
Durante la sua carriera politica riuscì a far passare per comunista persino Marco Travaglio, un dichiarato liberale di destra montanelliano, e questo perché tutti i suoi avversari dovevano necessariamente essere definiti tali. Durante un comizio del 2009, di fronte a un gruppetto di contestatori, Berlusconi tirò fuori una frase ormai diventata celebre: “Siete ancora oggi, e come sempre, dei poveri comunisti”. Per celebrarlo dopo la sua morte, Giorgia Meloni postò sui social proprio il video in cui pronunciava quella frase, denotando una continuità di pensiero con colui che per primo la portò alla ribalta, nominandola Ministra per la Gioventù nel 2008. E se oggi Meloni tace su Acca Larentia – anche perché proprio nel 2008 partecipò direttamente a quella celebrazione neofascista – e non è mai riuscita a definirsi antifascista, è probabilmente perché considera il contrario di questa parola proprio comunista. Non a caso, in occasione del primo 25 aprile da premier, non ha mai pronunciato la parola antifascismo in un lungo intervento sul Corriere della Sera. Lo stesso vale per la seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, che visitando il Memoriale della Shoah insieme alla senatrice a vita Liliana Segre si è rifiutato di definirsi antifascista, schivando le domande dei giornalisti. Il ministro Sangiuliano ha addirittura replicato alla domanda “Lei si definisce antifascista?” chiedendo impropriamente ai giornalisti presenti: “E voi vi definite anticomunisti?”.
In generale è curioso – per non dire ridicolo – che qualsiasi esponente di centrosinistra, o anche un apartitico allergico alla destra, venga tuttora raffigurato come un tovarish con “Bandiera rossa” come suoneria del telefono. Eppure a oggi in Italia sembrano non esistere sfumature, non si riesce a concepire l’idea di un democratico di sinistra, di un moderato, di un progressista che non ragioni con le logiche politiche del Novecento: il vocabolario del berlusconismo anche nel 2024 vale come sacra scrittura per i simpatizzanti della destra. Tra l’altro, si mette sullo stesso piano il comunismo italiano con quello sovietico e internazionale e si snocciolano cifre decontestualizzate, come quando si parla dei morti causati da Stalin, Mao o Pol Pot, senza comprendere che in Italia non abbiamo mai avuto una dittatura comunista – mentre quella fascista sì – e che semmai la sinistra osteggiata da Berlusconi e dai suoi delfini ha contribuito a liberare il Paese dal nazifascismo e a scrivere la nostra Costituzione. In ogni caso, fatte le dovute precisazioni sul comunismo italiano, associare i Prodi, i Rutelli o addirittura i Renzi a quell’universo è stata una delle più grottesche e meno riuscite barzellette del Cavaliere.
Quello che fece Berlusconi non fu nulla di nuovo a livello internazionale, visto che portò in Italia una versione maccheronica del maccartismo. Negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, infatti, il senatore Joseph McCarthy diede vita a un’imponente “caccia al comunista”, attuando metodi repressivi contro qualunque cittadino con un ideale anche vagamente socialista, in quanto considerato sovversivo e antiamericano. La paura rossa divenne una mania di persecuzione di massa dove tutti erano convinti di essere accerchiati da potenziali spie sovietiche. Si mise in moto persino l’FBI per monitorare i movimenti degli impiegati statali, creando un’isteria collettiva, che ispirò anche film come Il maratoneta. La scia del maccartismo è stata così tenace che non è mai scomparsa del tutto, e anche oggi l’ala più socialista del Partito Democratico statunitense viene messa ai margini, mentre si favorisce invece la candidatura di politici – leggasi Joe Biden – che in Italia verrebbero posizionati per ideologia sullo stesso piano di Clemente Mastella o Giuliano Amato.
Se il maccartismo, seppur folle e paranoide, poteva quasi avere una giustificazione raffazzonata nel suo contesto storico, ovvero quello degli albori della guerra fredda tra gli Stati Uniti e il blocco sovietico, la fobia dei rossi di Berlusconi è stata talmente fuori luogo e tempo massimo da avvicinarlo alle gesta di Hiroo Onoda, militare giapponese che a trent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale era convinto che il conflitto non fosse ancora finito. La differenza è che Berlusconi non era in preda a qualche sindrome da stress post traumatico causata dalla guerra: era lucidissimo nelle sue affermazioni e, probabilmente, era il primo a sapere di spararle grosse. Eppure erano frasi a effetto che gli erano estremamente utili in campagna elettorale. L’avversario politico per la destra doveva, e deve ancora oggi, essere dileggiato, distorcendone l’immagine fino a renderlo pericoloso nell’immaginario della comunità. Il cittadino doveva essere difeso dal terrore rosso, mica era possibile sfidare Prodi e Rutelli considerandoli due bonari centristi che probabilmente non hanno mai avuto Gramsci come riferimento politico.
Oggi è cambiato ben poco. Nonostante il centrosinistra sia ai minimi storici – qualcuno ha notizie del PD? – e gli eredi del comunismo portino avanti programmi politici non troppo distanti da quelli di CasaPound – qualcuno ha notizie di Marco Rizzo? – è comunque necessario per la destra screditare il nemico usando lo stratagemma del rimando storico a qualcosa che non esiste più e che, quando esisteva, non ha mai causato danni al nostro Paese. Ogni anno si aggiungono nuove denominazioni, variazioni sul tema. C’è stato il periodo dei “comunisti col Rolex”, ovvero persone di centrosinistra con la colpa di non essere povere, e adesso persino gli influencer diventano bersagli del governo e dei suoi sostenitori. Se si arriva a considerare comunista un’imprenditrice come Chiara Ferragni, i casi sono due: la destra vive fuori dalla realtà, oppure l’assenza della sinistra viene colmata in qualche modo da figure esterne per manifesta incapacità dei politici che dovrebbero portare tali bandiere. Ferragni e Fedez non hanno certo chiesto di abolire la proprietà privata o di spedire in Siberia Simone Pillon: si sono limitati a sostenere le cause della comunità LGBTQ+, sostenere il diritto all’aborto e i diritti femminili, a criticare il governo Meloni e a portare avanti battaglie sgradite alla destra. Questo è bastato per farli entrare – proprio loro che non combattono contro il capitale – nel calderone dei “comunisti”.
Il risultato è che la morte dell’uomo-Berlusconi non è coincisa con quella del politico-Berlusconi, considerando che l’agenda del centrodestra continua a seguire gli appunti del suo mentore. In tal modo non viene brutalizzato soltanto un avversario politico, ma l’intero sistema democratico basato sul confronto e sul dibattito. Quest’ultimo infatti è ormai scomparso, perché è semplice concludere una discussione scrivendo su un social “Zitto, comunista”, tentando di mettere a tacere un cittadino che magari stava protestando per le donne discriminate dall’esecutivo in carica. Basterebbe un ripasso dei sinonimi e dei contrari, iniziare a definirsi antifascisti in maniera universale a prescindere dal proprio credo politico. Politico, appunto, perché il fascismo è un crimine e non un ideale. Non sarebbe male neanche constatare che parlare di comunisti era anacronistico già nel 1994, figuriamoci trent’anni dopo. Mio nonno, che comunista lo era davvero, se oggi fosse ancora vivo e ascoltasse i discorsi di chi sbraita contro i presunti tali, probabilmente sgranerebbe gli occhi, farebbe una pausa e poi esclamerebbe: “Ah, perché ci sono ancora? In caso avvertitemi così li voto invece di queste copie della DC!”.