Manifestazione fascista impunita a Roma, il doppio standard del governo è già un trend del 2024 - THE VISION
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Monaco di Baviera, Oktoberfest, settembre 2023. Due ventenni italiani, probabilmente alticci, dato il contesto, si fanno riprendere con il telefono dal gruppo di amici e alzano il braccio destro replicando l’Hitlergruss, il saluto nazista. Credendo di aver fatto una goliardata, restano stupiti quando i tedeschi intorno a loro abbassano il tono della voce. C’è chi fa la faccia schifata, chi si allontana per chiamare qualcuno. Ed effettivamente in pochi minuti arrivano gli steward, poi il servizio di sicurezza del festival. I due giovani vengono trattenuti. Quando chiedono il motivo, la risposta non lascia spazio a interpretazioni: “Sta venendo la polizia a prendervi”. Portati davanti a un giudice istruttore, l’arresto viene immediatamente convalidato fino al momento del processo, poiché in Germania fare quel gesto è un reato e c’è ben poco da ridere.

Roma, ex sede dell’MSI in via Acca Larentia, gennaio 2024. Un migliaio di persone radunate per commemorare i tre militanti del Fronte della Gioventù uccisi durante un agguato di individui che inizialmente si credeva fossero dei Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale, poi di Lotta Continua, infine delle Brigate Rosse. Dopo la cerimonia ufficiale con la presenza, tra gli altri, del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca e del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, le lancette dell’orologio si fermano e tornano indietro di un secolo esatto. Se prendete il video dell’accaduto e gli togliete i colori, sembra di assistere a una scena del 1924 documentata dall’Istituto Luce: una parata fascista con saluti romani, centinaia, sincronizzati alla perfezione, e intorno anche delle croci celtiche. I nomi dei militanti del Fronte della Gioventù sono anticipati dal termine “camerata”, poi l’urlo “Presente!” e le braccia tese al cielo. A differenza dei due ragazzotti ubriachi in Baviera, la polizia però non interviene: la liturgia fascista viene compiuta in pubblico. D’altronde qui non siamo in Germania e noi non abbiamo mai avuto una Norimberga.

Le opposizioni si indignano, chiedono un’interrogazione parlamentare, delle spiegazioni, qualche parola di Giorgia Meloni, che però non arriva. A commentare l’accaduto è lo stesso Rampelli: “Sono persone di varia provenienza, cani sciolti. Non hanno niente a vedere con Fratelli d’Italia”. Spiega, poi, come per giustificare il suo partito, che anche sotto i governi di centrosinistra questa commemorazione è sempre sfociata in saluti romani e slogan fascisti. Se il primo punto, quello dei cani sciolti, merita un approfondimento più strutturato, è più semplice rispondere alla seconda parte del suo discorso: è vero, anche con altri governi abbiamo assistito a queste orrende nostalgie, così come alle ricorrenze per la Marcia su Roma e alle adunate a Predappio per commemorare Mussolini. Quel che però Rampelli omette, ovvero l’aspetto più grave della questione, è il doppio standard di un partito di stampo chiaramente neofascista. E per comprenderlo in pieno va studiata la storia di un libero cittadino sessantenne, un giornalista che si occupa di ippica.

Fabio Rampelli

Milano, Teatro alla Scala, dicembre 2023. Marco Vizzardelli, il giornalista in questione, si reca alla Prima della Scala per assistere al Don Carlo di Giuseppe Verdi. Come da tradizione parte l’inno nazionale, e al termine un grido si leva: “Viva l’Italia antifascista”. Sul palco reale è presente Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, e ha il viso visibilmente contratto. La frase pronunciata è in teoria la colonna portante della nostra Costituzione, eppure avviene qualcosa di inspiegabile. Vizzardelli, colui che l’ha pronunciata, viene avvicinato da alcuni agenti della Digos. È sbalordito, quel che riesce a comunicare agli agenti è una spiegazione lineare, addirittura lapalissiana: “Non ho commesso un reato perché ho detto Viva l’Italia antifascista, l’avrei commesso se avessi detto Viva l’Italia fascista”. Parole che servono a poco: Vizzardelli viene identificato dalla Digos, subendo un trattamento tempestivo manco avesse gridato Allah akbar imbottito di tritolo invece di una frase pacifica e di cui tutti dovremmo – il condizionale è d’obbligo, soprattutto con questo governo – andare fieri.

L’esecutivo Meloni sembra dunque cadere dalle nuvole di fronte ad azioni fasciste in luogo pubblico, mentre quando c’è da rispondere al dissenso si attiva con tutte le sue forze. Passepartout per i saluti romani, ma manganellate agli studenti che manifestano a Montecitorio contro la riforma Valditara. D’altronde, lo stesso Rampelli ha altre priorità, quindi lasciamo stare i cani sciolti ma multiamo fino a 100mila euro gli spietati delinquenti che “usano forestierismi, perché minacciano la lingua italiana che è in estinzione”. Come quando, durante il Ventennio, Louis Armstrong veniva chiamato Luigi Fortebraccio. Che poi, ragionandoci, non credo che abbia senso parlare di cani sciolti quando Fratelli d’Italia è da sempre un contenitore di nostalgici e neofascisti. Oltre ad aver candidato vari parenti del Duce, più volte esponenti regionali e nazionali di Fratelli d’Italia sono stati immortalati mentre facevano il saluto romano o pronunciavano slogan fascisti. Hanno anche organizzato ad Ascoli Piceno una cena per celebrare la Marcia su Roma, definita nel menu dell’evento “giorno memorabile e indelebile”, con tanto di foto di Mussolini in bella mostra. Abbiamo come presidente del Senato un collezionista di cimeli del Ventennio e come ministra del Turismo una donna che rivendica con orgoglio di essere fascista. Non stiamo parlando dunque di realtà esterne al partito o di scriteriati che si sentono legittimati grazie al governo di estrema destra, ma di colleghi di partito di Rampelli. Colui che, tra l’altro, il mese scorso alzò un polverone perché l’albero di Natale di palazzo Valentini a Roma aveva in cima una stella rossa. Come gran parte delle stelle natalizie, ma per il vicepresidente della Camera era un atto intollerabile, “manco a Mosca ai tempi dell’Unione Sovietica”. Son queste le battaglie del governo, non di certo condannare un raduno di fascisti a cielo aperto.

Daniela Santanchè
Ignazio La Russa

Il problema è proprio arrampicarsi sugli specchi per cercare di fare una distinzione tra i neofascisti che fanno il saluto romano in piazza e quelli che siedono tra i banchi del governo. Una forzatura tutta italiana, considerando che all’estero le principali testate hanno commentato la vittoria alle elezioni di Giorgia Meloni parlando senza giri di parole di un partito neofascista al potere, mentre i media nostrani hanno sempre edulcorato la pillola: centrodestra invece di estrema destra, “il fascismo non tornerà mai”, quando è già tra noi. Non abbiamo camicie nere e balilla, ma la riedizione nel terzo millennio, l’evoluzione naturale che ha seguito il tragitto Duce-Salò-MSI-AN-Fratelli d’Italia. Fu lo stesso Silvio Berlusconi ad ammetterlo, dicendo di “aver portato i fascisti al governo”. Erano una minoranza, adesso sono loro a dettare l’agenda del Paese. 

Le immagini dei saluti romani ad Acca Larentia non spaventano per un possibile ritorno di quello che fu, ma per la presenza tangibile di ciò che è già. Un sottobosco che non ha mai cessato di esistere, solo che prima non aveva una rappresentanza politica di tale portata. I fascisti si sono radunati davanti alla sede dell’MSI, partito da cui provengono quasi tutti gli odierni esponenti di Fratelli d’Italia, compresa la premier che ha più volte dipinto Giorgio Almirante, funzionario del regime fascista durante la Repubblica Sociale, come un modello politico e umano da seguire. Finché i media continueranno a considerare come entità separate due realtà dalla stessa matrice, ovvero neofascisti di strada e neofascisti di governo, nell’immaginario collettivo permarrà questa barriera; una protezione, o assoluzione, per parecchi elettori che hanno votato un partito neofascista e che adesso rivivono il 1924 senza accorgersene. Qualcuno potrebbe dire che anche in Germania nell’ultimo periodo c’è stata una crescita dei partiti di estrema destra. È vero, ma con numeri immensamente inferiori rispetto a Fratelli d’Italia e con un limite invalicabile legato ai collegamenti con il nazismo. Lì vieni arrestato se alzi troppo il braccio destro durante una sagra della birra, qui vieni giustificato se inneggi a Mussolini e imbratti Roma di croci celtiche. 

Sono gli effetti collaterali dei presunti pensatori che hanno criticato “l’antifascismo in assenza di fascismo” senza considerare le sue declinazioni e derive moderne, dei politici che hanno sigillato come sinonimi “antifascismo” e “comunismo di stampo sovietico”. È la conseguenza di una tolleranza verso l’intollerabile che dal 1945 ha pervaso il nostro Paese, regalando perdoni e assoluzioni persino per i gerarchi fascisti, intitolandogli parchi e paesi. Se non abbiamo mai fatto i conti con il nostro passato, risulta difficile calcolare il danno dei detriti arrivati fino al presente dopo decenni alla ricerca di pertugi nell’arco democratico. Adesso sono definitivamente penetrati, raggiungendo zone di potere che nessun missino era mai riuscito a toccare. Chi ha provato a lanciare l’allarme è stato per anni additato come un figlio dell’anacronismo, colui che vede i fantasmi ovunque. Adesso sono sotto gli occhi di tutti, i camerati nelle strade e sugli scranni, e il fantasma che volevano rievocare si è trasformato nel primo governo neofascista della storia repubblicana.

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