Sta succedendo sotto i nostri occhi, ma in pochi hanno il coraggio di riconoscerlo e tanto meno la forza di contrastarlo: destra e sinistra stanno convergendo pericolosamente verso il nazionalismo economico, sempre più accomunate da un entusiasmo bipartisan contro i movimenti di capitale, di persone e di merci.
Il copione è lo stesso che dalla crisi del ’29 portò alla seconda guerra mondiale. Si parte con l’esplosione di una bolla speculativa; crollano le borse, gli istituti di credito, gli investimenti; monta il risentimento contro le élite industriali e finanziarie, ritenute responsabili della crisi; la critica radicale anti-capitalista cementa destra e sinistra; laburismo e nazionalismo convergono, in difesa dei posti di lavoro nazionali, contro gli stranieri e le plutocrazie transnazionali, a favore delle nazionalizzazioni delle industrie; si accende il sentimento anti-immigrati; parte la guerra commerciale, fatta di dazi contro le importazioni che innescano rappresaglie, nuovi dazi, spinte autarchiche, boom di sovvenzioni e commesse pubbliche alle industrie nazionali.
Nel Novecento, questa stessa concatenazione di eventi portò al connubio letale tra il fascismo, nato in Italia per iniziativa dall’esponente di spicco della sinistra socialista Benito Mussolini, e il nazional-socialismo fondato dal pittore e vegetariano Adolf Hitler, che con il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori assunse la carica di cancelliere dopo aver vinto regolari elezioni nel 1932 con il 33% dei voti – anche grazie ai consensi raccolti tra gli ex-socialisti e i comunisti. Il resto della storia lo conosciamo.
Oggi, rispetto ad allora, le economie e le società sono più integrate tra loro, la possibilità che le guerre commerciali sfocino in conflitti militari sono ben più remote, ma i segni dell’escalation di nazionalismo economico, trasversale per supporto politico, sono tanti e inquietanti.
In alcuni Paesi, la convergenza tra destra e sinistra sui temi del commercio internazionale è già a uno stadio molto avanzato. Negli Stati Uniti, i perdenti della globalizzazione – dai metalmeccanici del Michigan ai siderurgici di Pittsburgh – non trovando nell’establishment liberale di sinistra le risposte ai loro problemi, hanno votato in massa per Donald Trump, per il suo programma nazionalista e anti-globalista: sanzioni per le multinazionali che delocalizzano, tariffe doganali e sistemi di quote contro le importazioni e un bel muro contro gli immigrati messicani che “Abbassano gli stipendi degli Americani.”
“Una a una, le nostre fabbriche hanno chiuso per migrare verso altri lidi, senza che nessuno si curasse dei milioni e milioni di lavoratori americani rimasti indietro. Tutto questo deve finire. Seguiremo due semplici linee guida: comprare americano, assumere americano.” Così recitava il nazional-laburista Donald Trump nel gennaio 2017, durante il suo discorso inaugurale di fronte alla Casa Bianca. Una strategia che da allora Trump ha portato avanti con coerenza, incontrando i favori, tra gli altri, della United Steel Workers Union, il corrispettivo statunitense della Fiom. Improntate al nazional-laburismo sono anche le recenti proposte presidenziali di revisione del Nafta (North American Free Trade Agreement), l’accordo di libero scambio tra Messico, Stati Uniti e Canada contro il quale, negli anni Novanta, si sviluppò il gruppo di guerrilla guidato dalla grande icona dell’anti-globalismo di sinistra, il subcomandante Marcos. La proposta di Trump prevede inoltre un minimo salariale di 16 dollari l’ora per gli operai degli stabilimenti metalmeccanici messicani che esportano in America, per impedire che le multinazionali delocalizzino sfruttando il differenziale retributivo. Un’idea molto simile a quella ipotizzata in fase elettorale dall’altro principale candidato anti-establishment e anti-globalista, il socialista Bernie Sanders. Di fronte ai cronisti del Detroit News, durante la campagna elettorale, aveva dichiarato: “Il Nafta e gli altri accordi commerciali sono stati scritti dalle corporation americane per una ragione: non pagare ai lavoratori del nostro Paese un salario equo, chiudere le fabbriche in America, andare in Messico o in Cina, per poi reimportare i loro prodotti in America.”
La stessa convergenza destra-sinistra si sta delineando in Europa. I percorsi ideologici sono diversi da Paese a Paese; spesso tortuosi, mai espliciti, ma sempre più evidenti. Nel Regno Unito, il discorso anti-globalista in difesa dei posti di lavoro nazionali è partito dal populismo di destra del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (Ukip) e dai Brexiters conservatori, ma ha finito per fagocitare gran parte dell’ex-elettorato laburista. Il leader laburista Jeremy Corbyn è corso ai ripari e per stoppare l’emorragia di voti insegue i suoi ex-elettori della working class sul terreno del nazionalismo. Colpito dalle polemiche per le sospette simpatie anti-semite di alcuni suoi esponenti, dopo aver rinnegato il globalismo di Blair, il Labour Party di Corbyn ha abbracciato la Brexit come occasione di rilancio per il settore manifatturiero britannico, e ha annunciato la campagna Built in Britain, per favorire le industrie nazionali nelle commesse pubbliche. In Germania, Sahra Wagenknecht, moglie di Oskar Lafontaine – il fondatore del partito di sinistra radicale Die Linke (La Sinistra) – con il suo movimento Aufstehen (“Insorgere”) abbraccia l’anti-globalismo di matrice laburista e loda apertamente le politiche protezioniste di Trump.
Toni simili si possono ascoltare in Spagna dentro il partito populista di sinistra Podemos, e in Grecia tra gli esponenti della nuova sinistra di Syriza. Nelle argomentazioni degli anti-globalisti di destra e di sinistra cambiano al più le sfumature. La destra si concentra più sull’indentità nazionale, da difendere contro lo straniero, mentre la sinistra radicale predilige l’armamentario dialettico dell’anti-capitalismo. La sostanza delle proposte però, è spesso molto simile: limiti all’immigrazione, che “minaccia i nostri posti di lavoro”, stop alla delocalizzazione delle multinazionali “che tradiscono la patria e portano i posti di lavoro altrove”, freno alle importazioni “che indeboliscono la produzione nazionale”. In entrambi i casi, il ragionamento verte intorno a concetti bellicosi di difesa, protezione, senso di appartenenza nazionale e patria.
In Italia è stato il M5S a fare da Caronte per buona parte dell’ex-elettorato di sinistra, traghettato verso le posizioni anti-globaliste dal sapore nazionalista della Lega. E mentre Di Maio alle elezioni ha fatto incetta di voti tra le province agricole della Sicilia – promettendo protezione commerciale contro i pomodori marocchini, l’olio tunisino e le arance egiziane – Salvini non ha mai nascosto il suo entusiasmo per il protezionismo à la Trump, e in tv sfoggiava con orgoglio l’ennesimo pezzo di merchandising leghista (con tutta probabilità non Made in Italy): la maglietta “Il dazio è tratto”. Anche la tentazione di uscita dall’euro dei giallo-verdi ha molto a che fare con il desiderio di tornare a poter sostenere aggressivamente l’export a suon di svalutazioni, un sentimento diffuso tra il popolo delle piccole e medie imprese, degli agricoltori e delle fabrichette, spesso ammantato da un vago sapore anti-capitalista sul leitmotiv dell’euro “baluardo dell’Europa dei banchieri.”
In questo panorama, l’establishment della sinistra liberal e social-democratica, si trova spiazzato. Non avendo ancora trovato un proprio convincente apparato ideologico, la sinistra tradizionale, su questi argomenti, si muove con poca convinzione e spesso tace, lasciando la piazza libera alla destra o alla sinistra populista. Eppure, nel proprio bagaglio culturale, una posizione sui temi della globalizzazione ce l’avrebbe, e senza dover ricorrere al nazionalismo, anzi tenendo alta la bandiera dell’internazionalismo, uno di quei valori fondativi della sinistra che non dovrebbero mai essere messi in discussione.
Il punto di partenza di ogni ragionamento deve essere la realtà che è sotto gli occhi di tutti: la liberalizzazione dei commerci lasciata a se stessa può avere effetti devastanti sui sistemi economici. In gioco c’è il destino di interi settori industriali, i diritti di milioni di lavoratori e consumatori, la storia di distretti produttivi con tradizioni secolari, che non possono essere lasciati in balia di corporation globali che guardano solo ai guadagni a breve termine. I danni riguardano sia le economie industriali avanzate da cui partono le delocalizzazioni, sia i Paesi destinatari: senza un quadro di regole uguali per tutti, delocalizzare in Paesi più poveri significa esportare “crescita senza sviluppo”, miseria, pratiche ambientali predatorie che generano ambienti malsani e inquinati, condizioni lavorative di sfruttamento. In una prospettiva di sinistra, la soluzione a questi problemi non può essere l’escalation di dazi e la guerra commerciale di sapore nazionalista, ma un sistema multilaterale di regole che proteggano egualmente i lavoratori-consumatori di tutto il mondo, senza metterli gli uni contro gli altri: sistemi fiscali armonizzati, per scongiurare l’evasione legalizzata delle corporation; limiti alle sovvenzioni di Stato alle industrie, che forniscono alibi alle tariffe protezioniste; standard ambientali e lavorativi uguali per tutti, per evitare una guerra al ribasso tra le nazioni fatta a suon di tagli sui costi ambientali, sulla sicurezza e sulle retribuzioni.
Perché c’è una grossa differenza tra affermare che “i messicani ci stanno rubando il lavoro” e sostenere che i lavoratori messicani hanno diritto a condizioni di lavoro dignitose, in impianti non inquinanti e sicuri, con stipendi equi. Nel primo caso, le soluzioni sono barriere commerciali, sanzioni, quote, discriminazioni; nel secondo sono richieste di certificazioni, accordi sindacali transnazionali, standard ambientali e sociali, accordi multilaterali. Le istituzioni internazionali multilaterali come il Wto (World trade organisation) e l’Ue servono proprio a questo. E per questo non vanno smantellate, ma semmai democratizzate e rafforzate, rese sempre più incisive per garantire una competizione commerciale che sia trasparente, solidale e progressiva, basata su standard sociali e ambientali sempre più elevati.
Questo era il linguaggio elaborato dalla sinistra internazionalista in tema di globalizzazione, in particolare negli anni intorno al 1995 – quando nacque l’Organizzazione mondiale del commercio – momento in cui la Cina faceva il suo ingresso sulla scena commerciale globale, cambiando per sempre la geografia economica del mondo. Il dibattito partiva dalle associazioni di consumatori, dai sindacati, dalle associazioni ambientaliste, dall’alter globalizzazione, per arrivare a contaminare l’agenda politica dell’establishment, in particolare quella della Commissione europea, depositaria delle politiche commerciali e doganali comunitarie. Da allora, lontana dai riflettori mediatici, la Commissione è andata avanti ad affinare quell’insieme di regole che rappresentano oggi il maggior antidoto agli effetti devastanti di un commercio globale non regolamentato. Ma i partiti di sinistra nazionali non ne parlavano. Eclissato dal discorso sull’unione monetaria, il tema dell’unione doganale e della regolamentazione dei flussi di merci e servizi passava sotto silenzio. È stato proprio questo silenzio che ha permesso alle destre europee di impossessarsi del tema anti-globalista, finendo per monopolizzarlo, dopo averlo portato sul terreno del nazionalismo e conquistando i consensi delle vittime della globalizzazione.
Alle elezioni parlamentari europee di maggio 2019 Salvini e Orban promettono di portare un blocco nazionalista e anti-globalista a Strasburgo. La sinistra può decidere: stare ferma a guardare, inseguire i populisti sul terreno del nazionalismo, o avere il coraggio di scegliere con decisione la via europea per un capitalismo socialmente responsabile e regolato. Da sbandierare contro Salvini e Orban c’è il lavoro concreto di due donne come Cecilia Malmoström e Margrethe Vestager, rispettivamente commissarie per il Commercio e per la Concorrenza, che stanno riuscendo a far pagare le tasse ai giganti digitali della Silicon Valley e che ora stanno validamente fronteggiando l’armata brexiters da un lato e il testosteronico Trump dall’altro, cercando di riportarli sul terreno del multilateralismo, lontano dal protezionismo nazionalista.
Per contrastare l’ascesa nazional-populista e tornare a vincere le elezioni, la sinistra deve riprendere a frequentare questi temi, con il proprio linguaggio, le proprie argomentazioni, riconquistando la leadership che le spetta in tema di critica alla globalizzazione e scongiurando l’abbraccio mortale tra laburismo e nazionalismo.