Silvio Berlusconi nasce a Milano nel 1936. A vent’anni lavora come cantante sulle navi da crociera insieme al suo migliore amico, Fedele Confalonieri, poi vende aspirapolveri porta a porta. A 25 anni, dopo la laurea in giurisprudenza, acquista il primo terreno per 190 milioni di lire grazie alla fideiussione di Carlo Rasini, titolare della banca Rasini dove lavorava suo padre. È una banca particolare: puoi diventarne cliente solo tramite raccomandazione, possiede quote di società offshore e custodisce i soldi di personaggi del calibro di Filippo Calò, Totò Riina, Bernardo Provenzano – e, soprattutto, è una banca collegata a Michele Sindona. Inizia così la carriera imprenditoriale di Silvio Berlusconi, che fonda la Cantieri Riuniti Milanesi Srl e inizia a costruire. Sono gli anni del boom, in cui esplode il settore edilizio e Silvio, coi suoi 28 anni, è un giovanissimo imprenditore rampante.
Bettino Craxi nasce a Milano nel 1934. Dimostra da subito un carattere aggressivo e turbolento, e per correggerlo i genitori lo mandano in un collegio cattolico. A 17 anni, seguendo l’esempio del padre, prende la tessera del partito socialista. Studia giurisprudenza, poi scienze politiche; all’università tiene i primi discorsi in pubblico, entra nel Nucleo Universitario Socialista, organizza conferenze e dibattiti; poi, a 23 anni, entra nel comitato centrale del partito e nel 1968, dopo esser stato consigliere comunale, diventa deputato. La sera mangia a L’Angolo, una trattoria di Brera, ritrovo di pittori e artisti, e il proprietario – comunistissimo – li fa mangiare a sbafo in cambio di quadri. A Craxi piace l’ambiente, gli permette di ascoltare le conversazioni tenendosi in disparte, per farsi un’idea dei discorsi e delle opinioni della sinistra; ed è qui che conosce Filippo Panseca, artista squattrinato di fervente fede socialista, di cui diventa amico. L’Italia di quegli anni è attraversata da omicidi, gambizzazioni, studenti che parlano di alzare il livello dello scontro, simpatizzano con le Brigate Rosse e che insieme agli operai aspettano l’arrivo della rivoluzione proletaria. Alcuni, con le armi, cercano di anticiparla.
A metà degli anni Settanta, gli italiani sono sfiniti dagli omicidi della malavita organizzata, dagli attentati, dall’odio che impregna le strade e senza promettere di risolversi; Milano, soprattutto, è stanca di vivere in un mondo dove persino le fantasie delle camicie o gli sport diventano simboli borghesi da abbattere. Divertirsi sembra un reato, ma in questa cappa di miseria, paura e desolazione, in via Carducci c’è un posto dove si trovano i milanesi benestanti: si chiama Vogue club, e per entrare serve una chiave d’oro che viene assegnata a discrezione del proprietario. Non è ancora il tempio del jet set che diventerà di lì a poco, ma è molto intimo. Si ballano pezzi come “Superstition” o “Lady Bump”, gli uomini portano la cravatta, i pantaloni dei completi sono a zampa; è il periodo d’oro dei liquori amari, mentre i cocktail vengono snobbati. Grazie all’amicizia con Bettino, Filippo Panseca è diventato “artista del Psi”, fa lo scenografo e lavora sull’immagine e sull’estetica dei socialisti, precorrendo i tempi del marketing, fino ad allora reputato frivolo e inutile. È di questo che stanno parlando un venerdì notte Filippo e Bettino, quando si imbattono in Silvio Berlusconi: ha appena fondato la Fininvest, con metodi e manovre economiche controverse, e ha grandi progetti per il futuro. Prima di chiunque in Italia ha compreso il potenziale della televisione e reputa i socialisti l’unica sinistra possibile, perché davvero progressisti, a differenza del Pci.
Nel 1976, con la caduta del governo Moro, il Partito Comunista ha un’impennata, mentre il gradimento del Psi è sotto il 6%. De Martino, il segretario, è costretto a dimettersi. L’Italia cambia a un ritmo vertiginoso e tutto ciò che appare tradizionale o tradizionalista rappresenta il male. Si può essere solo giovani o vecchi, e i vecchi sono il nemico. In un clima di lotta generazionale, parlare di rinnovamento in un partito di sessantenni è improbabile, e Craxi ha appena 40 anni: è un volto nuovo, ma con alle spalle oltre 28mila voti e una lunga gavetta. I socialisti lo eleggono segretario “di transizione”, credendolo, a torto, un ragazzino manipolabile: Craxi è davvero il rinnovamento, con tutte le contraddizioni del caso. Come quando, pochi mesi dopo l’elezione, rilascia un’intervista in cui spiega come e dove gli piace scopare. Sistema i suoi uomini nei ruoli chiave del partito. Delega a Panseca il compito di ripensare il simbolo del Psi, toglie la falce e il martello e ci mette un garofano rosso, il fiore usato dagli operai il 1° maggio. Con il Presidente della Repubblica Sandro Pertini ha un rapporto di amore e odio: quando lo convoca nel 1979 al Quirinale, Craxi si presenta sì in giacca e cravatta, ma come pantaloni indossa un paio di jeans. Pertini lo rispedisce a casa, intimandogli di tornare in abito scuro “o di non scomodarsi a tornare”.
Quello che Craxi sta cercando di fare, riuscendoci, è trasformare la forma e l’immagine del Psi dalle fondamenta. Dà indicazioni ai suoi uomini su come vestire e comportarsi e persino su dove andare a ballare e a divertirsi, in un Paese bacchettone che deve presentarsi come serio e impegnato a ogni costo. Essere socialista, per lui, significa essere di sinistra, ma più sorridenti. Il ‘77 è l’anno della televisione a colori e con la sua diffusione arrivano spot pubblicitari che incitano a uscire, bere, godersela: Craxi intuisce che all’Italia basta un pretesto per scrollarsi di dosso l’orrore e il grigiore degli anni di piombo.
Silvio Berlusconi, intanto, nel ’78 compra Telemilano – poi ribattezzata Canale 5 – e altre stazioni televisive, tutte regionali. In Italia infatti non esiste ancora una legge che regoli la diffusione sulle frequenze nazionali delle televisioni private. Poi va a Cannes, acquisisce le serie tv più belle dell’epoca (tra cui Magnum PI, Dallas e Uccelli di rovo), strappandole alla Rai che si era presentata in ritardo e offrendo pochi soldi. Negli studi di Milano, Berlusconi programma 12 ore di trasmissioni, le registra, organizza un ponte via elicotteri, aerei e taxi e recapita quelle registrazioni a tutte stazioni tv che ha acquistato in giro per il Paese. Ufficialmente sono tutte emittenti regionali, ma nella pratica formano una tv nazionale. L’audience di Canale 5, comunque, non è abbastanza alta, così Berlusconi, racconta il giornalista Jean Claude Bourret, manda in giro suoi emissari a caccia delle famiglie che possiedono il Meter, una scatola collegata al proprio televisore che misura l’audience nazionale. Una volta trovate, viene loro offerto un televisore ultimo modello e 500mila lire di rimborso per la corrente elettrica. In cambio viene chiesto solo di tenere il vecchio televisore sintonizzato su Canale 5 ventiquattr’ore su ventiquattro, senza mai spegnerlo – va bene anche tenerlo chiuso in un armadio, con il volume regolato al minimo. Tutti accettano, l’audience di Canale 5 schizza alle stelle e le aziende pagano uno spazio pubblicitario il doppio che su un canale nazionale.
C’è uno spot dell’Amaro Ramazzotti del 1979 che racchiude tutta la mentalità italiana, appena prima dell’esplosione di tracotanza degli imminenti anni Ottanta. “Ma dai, venite fuori. Fuori è tutta un’altra cosa. Basta un niente per divertirsi: per esempio, basta sapersi divertire.” La deflagrazione definitiva si manifesta nei clacson e nelle bandiere che inondano il Paese nell’estate del 1982, quando l’Italia arriva in finale contro la Germania. Di quella partita tutti ricordano Pertini in tribuna che dopo il terzo goal di Altobelli muove il dito a destra e sinistra urlando “I tedeschi non ci prendono più” – una frase che, pronunciata da un partigiano, ha decisamente impatto. Un giornalista domanda al Presidente se quell’entusiasmo non corrisponda a una fuga dai veri problemi della Nazione: “Ma buon Dio,” sbotta Pertini, “Dopo sei giorni di lavoro viene la domenica, no? Ebbene, chi ha lavorato i sei giorni ha il diritto di andare con la famiglia a gioire sulla spiaggia, o in montagna, o altrove. E gli si dovrebbe dire: ‘Come mai tu gioisci quando ti attende il lunedì?’ Io penso a gioire la domenica, per il lunedì verrà il suo tempo!”. Gli anni di piombo finiscono in quel momento.
All’improvviso, divertirsi, avere successo e arricchirsi diventano le uniche cose per cui valga la pena preoccuparsi. I soldi si fanno in borsa, dove un normale operatore guadagna un miliardo e mezzo l’anno. “Girls just wanna have fun” canta Cindy Lauper. Il pranzo “è per chi non ha niente da fare” dice Gordon Gekko in Wall Street. Esplode il mito dell’abbondanza e dell’opulenza; le donne devono essere maggiorate, come Carmen Russo su Drive in per i padri, e Margot di Lupin III per i figli. Gli uomini devono adattarsi al canone di palestrati, giovani, belli, in carriera e non dormire mai. I vestiti diventano abbondanti, i capelli cotonati, i drink si tingono di colori fluo e decorazioni esagerate. Giorgio Armani diventa famoso con American gigolò e il Made in Italy decolla; Cerrutti, Ferragamo, Armani, Versace, fanno capi richiesti in tutto il mondo, venduti a prezzi incredibili. Durante le settimane della moda le strade traboccano di donne stupende che si riversano nei club di grido, dove vengono sedotte da imprenditori, politici e playboy. Nell’instancabile vita notturna milanese il Vogue diventa quello che è il Dorsia in American psycho: il locale più ambito, dove chiunque conti, in Italia come nel mondo, deve passare.
Berlusconi, intanto, continua la sua conquista del mondo dei media e acquista nel 1982 l’emittente televisiva Italia 1. Il 4 agosto 1983, mentre buona parte del Paese cerca di sopravvivere a una delle estati più calde della Storia d’Italia, Craxi diventa presidente del Consiglio. Berlusconi ne è felice – con buona pace di Indro Montanelli, che dalle pagine de Il Giornale (dal 1979 di proprietà di Berlusconi) definisce il governo Craxi “una jattura” e chiama Bettino “un guappo di cartone”.
Nel 1983 un operaio generico guadagna 600mila lire. E mentre un caffè costa 400 lire, al Vogue una cena ne costa circa 100mille, le bottiglie di champagne 500mila e un grammo di cocaina 50mila. Il culto della bella vita è obbligatorio, e i soldi sembrano spuntare dal nulla. Le banche espongono monitor che registrano i livelli delle azioni in tempo reale, davanti ai quali è comune vedere gente accalcata che si abbraccia come di fronte a una partita. In periferia, intanto, una dose di eroina costa quanto un grammo di coca nei locali e tutto vale per procurarsela. In mezzo a questi due mondi, Craxi non si fa problemi a farsi fotografare in costume da bagno, sorridente, mentre indossa un pareo o una giacca di pelle.
In politica è uno schiacciasassi: trasforma l’ora di religione da obbligatoria a facoltativa, scioglie il vecchio comitato centrale creando un’assemblea socialista e trasformandola in un circo. Dalle panche deserte e l’atmosfera sonnacchiosa si passa a un pienone di personalità della moda, attrici di grido, cantanti, intellettuali; essere presenti all’assemblea è fondamentale per la propria immagine, essere socialisti è cool. Fanno persino cantare Frank Sinatra al Palatrussardi. È proprio all’assemblea che Berlinguer prende i fischi, e Bettino se la gode non poco, perché detesta quella politica grigia, burocratica e verbosa di chi “non ha neanche la televisione a colori e parla di futuro”. I politici socialisti vivono in mezzo alla gente; mangiano a Brera, al Matarel di via Mantegazza Solera, alla Trattoria dell’Angolo in via Fiori Chiari o al Garibaldi di via Monte Grappa. Bevono al bar Jamaica e al club Turati, di Carlo Ripa di Meana. Gianni De Michelis, vicepresidente del Consiglio, pubblica con Mondadori Dove andiamo a ballare questa sera?, la guida a 250 discoteche italiane.
Dopo Italia 1, Berlusconi acquista Rete 4 e si guadagna il soprannome di “sua emittenza”; dai canali televisivi dipinge un mondo di festa e allegria posticcia, che gli italiani reduci dagli anni di piombo bevono come acqua fresca. Fa concorrenza diretta alla Rai e il suo strapotere inizia a destare qualche sospetto, tanto che i questori di Torino, Pescara e Roma gli sequestrano gli impianti e gli danno un ultimatum: interrompere l’interconnessione entro il 16 ottobre 1984, pena l’oscuramento. Per Berlusconi sarebbe un disastro, dovrebbe rimborsare tutti i clienti che pagano la pubblicità sui suoi canali, finendo sul lastrico. Lo salva Bettino Craxi: in un giorno fa approvare un decreto legge che liberalizza il settore audiovisivo italiano permettendo ai privati di avere diffusione nazionale e, salvando così l’impero finanziario di Berlusconi.
Il 19 ottobre 1987 i monitor fuori dalle banche cominciano a segnalare i negativi. A Wall street è in atto il più grande crollo economico della Storia, il Dow Jones perde il 22% e vengono bruciati 11mila miliardi. Anche se si tratta di un crollo anomalo, è il segnale che gli anni Ottanta stanno finendo. Arriverà Tangentopoli, i pianti sotto la doccia di Berlusconi, le detenzioni preventive, la fuga di Craxi nella sua villa ad Hammamet dopo essere stato identificato come il male assoluto della politica. Tutte le feste, prima o poi, finiscono. Di quegli anni molti si domandavano cosa sarebbe restato: per tanti hanno costituito un’epoca dei sogni, dove tutto era possibile e il mondo era dietro l’angolo; per altri, l’epoca dell’infanzia, dei giocattoli da collezionisti, dei cartoni animati e degli spot del Mulino bianco. Per altri ancora, soprattutto, è stata quella di Berlusconi.