È una campagna elettorale strana quella che stiamo vivendo. Per la prima volta dopo 25 anni, andremo a votare con la consapevolezza che la composizione del governo italiano verrà decisa in Parlamento e non nelle urne. Siamo sempre stati abituati a indicare un candidato Presidente del Consiglio che veniva valutato sulla base del suo programma di governo. Da quest’anno cambiano le regole del gioco: niente governo la sera delle elezioni, bisognerà cercare un accordo con chi ci sta, con il rischio di tornare molto presto al voto.
In tutta quest’incertezza, le forze politiche mostrano orgogliosamente la faccia di bronzo e si affrettano a fare promesse, consapevoli di non poterle realizzare. Tra le più inflazionate vi è sicuramente l’abolizione del Jobs Act. La riforma del lavoro realizzata durante la golden age del governo Renzi è stata presa di mira da tutti i principali partiti di opposizione.
Silvio Berlusconi si dice certo del fallimento del Jobs Act perché ha fatto entrare i giovani nel mondo del lavoro solo attraverso l’utilizzo di contratti di tipo precario. Il Movimento 5 Stelle invece arriva a sostenere che il Jobs Act è una legge approvata al fine di favorire il voto di scambio e dunque va cancellata. Liberi e Uguali, la CGIL e tutta la meravigliosa galassia a sinistra si indignano per la deriva liberista del Partito Democratico e mirano a restaurare la legislazione pre-governo Monti.
Ma proviamo, anche solo per un attimo, a prenderli sul serio. È davvero possibile che il Jobs Act sia abolito?
Per rispondere alla domanda bisogna chiarire un punto. La riforma attuata a cavallo tra il 2014 e il 2015 è una riforma strutturale del mercato del lavoro. Si tratta di otto decreti legislativi che intervengono sugli aspetti più disparati; solo per citarne alcuni: l’indennità di disoccupazione, la disciplina sui licenziamenti, i contratti a termine, le mansioni a cui possono essere adibiti i lavoratori, i controlli permessi al datore di lavoro, gli ammortizzatori sociali, le autorità ispettive. Non vorrei precisare l’ovvio, ma nessuna forza politica abolirà mai il Jobs Act nella sua interezza, è troppa roba. E poi, per riprendere un’espressione che Matteo Salvini usa spesso e a sproposito, il Jobs Act “ha fatto anche cose buone”.
E allora è necessario uno sforzo ulteriore per provare a ipotizzare quali aspetti della riforma finirebbero per essere abrogati.
Al primo posto c’è sicuramente la disciplina dei licenziamenti. Come è noto a molti, i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 non sono più tutelati dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il nuovo contratto a “tutele crescenti” prevede, in caso di licenziamento ingiustificato e illegittimo, un’indennità che cresce con l’anzianità di servizio in azienda. La reintegra nel posto di lavoro prevista dall’articolo 18 rimane confinata a ipotesi residuali, come il licenziamento discriminatorio. Un dato è certo: i dipendenti hanno perso forza contrattuale. Per molte grandi aziende, infatti, l’eventualità di dover pagare una somma di denaro in caso di licenziamento illegittimo non è niente di troppo preoccupante e i lavoratori non possono più permettersi il lusso di avere idee troppo diverse dal loro capo. Il rischio di essere liquidati con un po’ di mesi di stipendio è reale.
Il concetto di una tutela graduale che cresce se una persona rimane in azienda, però, non è affatto da buttare. Si potrebbe, ad esempio, ascoltare la proposta che mira a reintrodurre l’applicazione dell’articolo 18 dopo aver prestato 3 o 5 anni di servizio in azienda. I dipendenti sarebbero incentivati a essere fedeli al proprio datore di lavoro e a utilizzare le competenze acquisite nel posto che li ha formati. Quindi, più che una cancellazione dell’intera normativa sui licenziamenti, si tratterebbe di rafforzare la posizione del lavoratore subordinato senza stravolgere un bel niente.
Tornare al vecchio sistema comporterebbe incertezza nei processi aziendali e, soprattutto, sarebbe difficile da spiegare a quei lavoratori che in questi tre anni sono stati congedati con una pacca sulle spalle e un paio di mesi di stipendio.
I contratti a termine sono l’altro aspetto preso di mira dai partiti. Fino al 2014, se un’azienda voleva assumere a tempo determinato un dipendente aveva bisogno di una ragione tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva. Se al momento dell’assunzione fissavo una scadenza al rapporto di lavoro, dovevo spiegare il perché. In assenza di queste giustificazioni, il lavoratore che avesse voluto far valere questa lacuna avrebbe potuto agire in modo da ottenere il riconoscimento della natura a tempo indeterminato del rapporto.
Governo Renzi, lussi finiti. Dopo pochi giorni dal simpaticissimo passaggio di consegne tra Enrico Letta e Matteo Renzi, infatti, venne emanato il cosiddetto “Decreto Poletti”, poi confluito integralmente nei decreti di attuazione del Jobs Act. Sono così stati liberalizzati i contratti a termine, che non hanno più bisogno di alcuna ragione giustificatrice per essere sottoscritti. A dirla tutta, adesso le aziende hanno dei limiti di carattere numerico relativi ai dipendenti che possono essere assunti “a scadenza”. Dentro questi limiti, però, possono fare un po’ come gli pare; rispettando la regola che impone comunque una durata massima del contratto di 36 mesi. Anche in questo caso, il lavoratore ne esce indebolito. Nel caso in cui l’azienda non abbia nessuna ragione per assumere a termine, non si potrà più chiedere a un giudice di riconoscere che il rapporto è in realtà a tempo indeterminato, senza scadenza.
Le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo erano, d’altra parte, la fonte di incertezza più grande per le aziende nel mercato del lavoro italiano. Non era dato sapere se il dipendente avesse intenzione di rivolgersi a un Tribunale e se la ragione addotta dall’azienda sarebbe stata in grado di reggere davanti al giudizio di un giudice. Reintrodurre le ragioni giustificatrici sarebbe un enorme autogol perché porterebbe le aziende a esternalizzare molti processi produttivi e i lavoratori sarebbero assunti da soggetti sicuramente meno affidabili.
Se si vuole davvero incentivare il lavoro a tempo indeterminato, è necessario che il lavoro a termine costi tanto, molto di più del lavoro senza scadenza. Quindi: abbassare il cuneo fiscale sul lavoro stabile, aumentare tasse e contributi sul lavoro precario. L’indennità di disoccupazione è stata estesa dal Jobs Act: abrogare questa estensione sarebbe irresponsabile. Così come, d’altra parte, sarebbe illogico riformare nuovamente le autorità ispettive ad appena un anno dalla loro riorganizzazione.
Durante gli ultimi anni di governo sono stati introdotti numerosi incentivi all’occupazione, soprattutto nella forma di riduzioni sui contributi pensionistici relativi ai nuovi assunti. Nel dibattito pubblico, anche questi incentivi (ad esempio, l’esonero contributivo per chi assume a tempo indeterminato un disoccupato) vengono inclusi impropriamente all’interno del Jobs Act, dato che sono stati istituiti attraverso lo strumento della Legge di Bilancio.
Non si tratta di una riforma strutturale, è un aiuto che il governo ha voluto concedere agli imprenditori per ottenere un aumento occupazionale. Come ogni forma di incentivo alle imprese, passerà sotto la lente del nuovo governo, che ben potrebbe decidere di allocare questi fondi per perseguire altri scopi.
Quello che emerge dal quadro di insieme è l’irrealizzabilità di una abrogazione completa del Jobs Act. Ancora una volta, il linguaggio approssimativo utilizzato dalla nostra classe politica non rispecchia le loro intenzioni e le loro possibilità. Si continua con slogan intrisi di populismo che vogliono parlare soltanto alla pancia degli elettori.
Il mercato del lavoro è storicamente un settore preso di mira da ogni governo, almeno dal 1996 a oggi. Nonostante più di vent’anni di riforme e proclami, però, la situazione occupazionale dei giovani resta drammatica. Per una volta, sarebbe necessario esigere con forza meno retorica e più idee concrete per risolvere questioni divenute ormai insopportabili, come i livelli di disoccupazione giovanile in Italia.