“Habibi”, la storia delle mogli dei detenuti palestinesi che per amore concepiscono a distanza - THE VISION
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La striscia di Gaza, dalla sua fondazione nel 1949 a oggi, è il tragico teatro di una guerra senza fine, un luogo di violenze e sopraffazioni, simbolo delle sofferenze del popolo palestinese che non si arrende e non lo abbandona. Di questa realtà drammatica, il fotografo documentarista e film maker straordinario, Antonio Faccilongo,  premiato con il World Press Photo Story of the Year nel 2021, ha deciso di raccontare il lato più potente e allo stesso tempo meno percepito dal mondo occidentale, quello che permette agli esseri umani di sopravvivere, in senso morale, emotivo e biologico: l’amore, che si nasconde dietro i muri, le armi e l’odio di una delle guerre di cui si è parlato di più della storia contemporanea, ma che non si riesce a ricomporre. È a questo sentimento vitale e fortissimo che il fotografo quarantaduenne di origine romane, impegnato su temi sociali, politici e culturali fin dall’origine della sua carriera, è riuscito a dare forma ed espressione nei suoi scatti unici.

Il completo di Nael al-Barghouthi appeso nella sua camera da letto a Kobar, vicino a Ramallah, in Palestina, il 17 agosto 2015. Al-Barghouthi fu arrestato nel 1978: rilasciato nel 2011, ha sposato Iman Nafi, ma è stato nuovamente arrestato nel 2014 e condannato all’ergastolo. Ha trascorso più di 40 anni in prigione. Sua moglie tiene tutti i vestiti e le sue cose al loro posto.

Habibi – una dichiarazione d’affetto che in arabo significa “amore mio” – è il suo progetto a lungo termine, nato nel 2008 e ancora in corso. Sulle origini di questo enorme disegno, Antonio mi racconta: “Sono salito su un aereo con altri colleghi reporter il 26 dicembre di quell’anno, in un momento in cui le tensioni erano molto alte e per la prima volta si cominciava a intravedere la possibilità di uno scontro bellico dopo la seconda Intifada”, e intanto sembra guardare nel vuoto alla ricerca dei ricordi di quel viaggio, rivivendolo grazie alle sue stesse parole. Negli zaini, insieme a pochi vestiti e all’attrezzatura, lui e i colleghi avevano nascosto medicine di contrabbando con cui dare supporto alla popolazione locale. “In quegli anni si era quasi sperato concretamente nella costituzione di due stati e di una sola pace: la sera in cui siamo atterrati stavano scoppiando i bombardamenti e alcuni di noi, vedendo i lampi nel cielo, hanno scambiato le esplosioni per un temporale”. È così che, dopo la preparazione maturata nelle scuole di fotografia e dopo un’esperienza nella cronaca romana per Il Messaggero, si trova a osservare per la prima volta la guerra, a conoscerne in prima persona gli odori, le urla strazianti, le tracce dolorose che restano addosso, impossibili da dimenticare. Nell’ambiente della fotografia, ma non solo, c’è chi risponde a esperienze così forti con l’adrenalina e si affeziona poi a quella sensazione continuando a inseguirla, e chi, come il reporter, sceglie di sopportarla per scavare nella Storia.

Mogli, madri e figli dei prigionieri palestinesi raggiungono un checkpoint a Beit Seira, Palestina. Alcune di loro devono viaggiare per ore e ore per una visita di appena 45 minuti.

I suoi ricordi parlano di un vissuto totalizzante: “Quell’esperienza mi ha segnato e non mi ha lasciato scelta: non potevo girarmi dall’altra parte e non pensare più a ciò che avevo visto. Ovviamente sono un uomo occidentale privilegiato, che dopo quei giorni a raccontare una guerra in cui sono morte 1500 persone e quasi il 40% degli uomini è stato arrestato può tornare a casa al sicuro, ma volevo comunque provare a creare un ponte culturale, che superasse l’immaginario del palestinese che lancia sassi, per raccontare quello che lo accomuna a un israeliano”. Le distanze, infatti, più che dalla gente per Antonio sono generate dalla politica. Le persone che ha incontrato e che lo hanno fatto entrare nelle proprie vite oggi cercano di crescere i propri figli non come soldati, ma come cittadini, insegnando loro a rivendicare sì identità e diritti, ma per mezzo dei processi culturali, e non delle armi. Attraverso la vita, e non altra morte: ciò che le sue immagini raccontano, infatti, sono le mogli e i figli, nati e futuri, dei prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane, condannati a scontare decine di anni o addirittura multipli ergastoli lontano dalle proprie famiglie.

Lydia Rimawi viaggia con il figlio Majd per far visita al marito in prigione. Esce di casa alle 5 del mattino e deve prendere tre bus diversi, oltre a passare un checkpoint per raggiungere la prigione.

Mi racconta che per far sopravvivere la loro stirpe, le mogli dei prigionieri hanno trovato una soluzione geniale, un contrabbando di sperma che ha permesso loro di concepire i figli di quegli almeno 7mila uomini, con cui per anni, o per una vita, non riusciranno più ad avere alcun tipo di rapporto. Solo qualche parola dietro a un vetro, perché il contatto fisico è vietato, tranne che per i bambini fino ai 6 anni, che possono al termine di ogni visita incontrare i loro padri per una decina di minuti. Con la scusa di lasciare loro un regalo, i detenuti consegnano ai figli oggetti che contengono il proprio sperma e che forse porteranno a un nuovo concepimento. Da una barretta di cioccolato contenente lo scheletro di una penna a sfera, ad altri metodi ingegnosi che Antonio non vuole condividere per non vanificare questo sforzo di sopravvivenza.

Nel 2013, il governo israeliano, essendo venuto a conoscenza di queste pratiche, aveva per diverso tempo imposto una stretta alle visite, punendo i carcerati con modalità di reclusione estreme. Nel tempo, però, i divieti si sono di nuovo allentati. Quando gli chiedo se abbia mai avuto paura di mettere in difficoltà le persone che stava fotografando, mi dice di aver più volte autocensurato le immagini di alcuni di questi metodi creativi, che gli erano stati mostrati. E precisa di aver “pubblicato l’immagine della barretta di cioccolata quando Israele già conosceva quella tecnica, così da non bloccare nuovi tentativi. Uno degli aspetti più importanti di questo lavoro infatti è non mettere a rischio la vita delle persone coinvolte. Tanto che all’inizio del progetto, non sapevo nemmeno se lo avrei mai pubblicato”.

Una barretta di cioccolato contenente una penna a sfera, uno dei metodi più utilizzati per il contrabbando di seme nelle prigioni

Habibi – oltre alle foto più reportagistiche, legate alle scene di vita quotidiana, e ai veri e propri viaggi, necessari per andare a far visita ai detenuti – si gioca su presenza e assenza, una delle grandi sfide della fotografia che Antonio Faccilongo vince con vari escamotage, dalle doppie esposizioni ai vestiti “disabitati”, dalle vecchie foto appese al muro a ricordo e simulacro, fino alle fisionomie che ritornano. Secondo i dati del Razan Hospital di Nablus, che in Cisgiordania è un punto di riferimento per i trattamenti di fecondazione in vitro – offerti gratuitamente alle donne di quelli che vengono considerati martiri, avendo rinunciato per la patria alla loro libertà e alla famiglia –, negli ultimi 7 anni sarebbero nati in questo modo almeno 100 bambini, e molti di loro sono entrati a far parte del progetto fotografico.

In questa storia, Antonio stesso ha iniziato a sentirsi parte di quelle famiglie che stava raccontando, entrando senza distanze di sicurezza dentro la storia e diventando quasi come un fratello per quelle donne senza marito, una sorta di zio dei loro figli, sentendosi però allo stesso tempo “regista” del lavoro. “Io chiedo sempre a chi coinvolgo di dirmi che cosa pensa, di aprirmi a sfumature e punti di vista che potrebbero non essermi chiari, di guidarmi”. Il fotografo è tornato in quei luoghi dopo solo qualche settimana dal suo primo viaggio, e da quel momento in poi quasi ogni anno, per indagare come le donne, rimaste sole, potevano sopravvivere a una mancanza emotiva, ma anche pratica, cercando di raccontare la vita quotidiana del posto e stringendo sempre di più rapporti di amicizia coltivati negli anni.

Majd Rimawi. Suo padre Abdul Karim è stato arrestato nel 2001 e sta scontando una pena di 25 anni.

“Io mi pongo sempre in una maniera diversa da quella dei giornalisti che fanno domande,” mi spiega. Il suo approccio alla fotografia documentaria – per quanto attento a non creare pericoli, come detto – non è quello di chi cerca di essere invisibile e di non alterare la realtà che sta raccontando: “Ci ho provato in una fase iniziale della mia carriera, ma non fa per me. Devo instaurare un rapporto di scambio reciproco con le persone che fotografo, dedicare loro tempo e dargli il modo di conoscermi, aprirmi io per primo, perché possano fidarsi”. Mentre lo racconta, è consapevole che questo sia un approccio che molti metterebbero in discussione, per preservare i ruoli di un gioco che però non ha regole sempre uguali.

Per costruire questo scambio è necessaria non solo grande empatia – termine abusato di cui spesso però si ignora il forte significato – ma anche delicatezza, necessaria per invitare gli altri ad aprirsi, ed è quello che le sue immagini testimoniano, offrendoci momenti di vulnerabilità, di attesa sfinita e insieme di grande forza e speranza. Cogliere in mezzo alle macerie la tenacia delle donne palestinesi, disvelare la vita che procede e continua a fiorire nonostante tutto – e grazie a una volontà ferrea che trova un alleato nella scienza, oltre che nella fede – è un’impresa che richiede tempo e dedizione, che non tutti si concedono la possibilità di impiegare.

Un bambino nato da poche ore riposa dentro un’incubatrice al Al-Shifa Hospital, Gaza, gennaio 2015

Non è il primo progetto a lungo termine che il fotografo segue: da Lose the Roots, un’indagine sulla deforestazione che affligge la Romania, ad All For Love, una storia sempre incentrata sulla maternità, la cui realizzazione è stata resa più complessa dalla pandemia di Covid, e che ha ricevuto il “Fondo di emergenza per i giornalisti Covid-19” della National Geographic Society. Molti dei suoi lavori, scattati dall’Estonia al Bangladesh, dalla Cina all’Etiopia, sono stati pubblicati su riviste italiane e internazionali, da Time a National Geographic, da Le Monde a Der Spiegel, da Internazionale a L’Espresso e molti altri, eppure la vera consacrazione – almeno per un pubblico più ampio – è arrivata solo nel 2021, con la vittoria di uno dei premi dedicati al fotogiornalismo più famosi del mondo, il World Press Photo, che come in ogni edizione porta i progetti dei vincitori in mostra in giro per il mondo, facendo conoscere non solo belle immagini, ma storie che in certi casi non troverebbero la risonanza che meritano.

Lydia Rimawi sul suo divano in Beit Rima, vicino Ramallah, Palestina, nel dicembre 2018. Suo marito Abdul Karim Rimawi è stato arrestato nel 2001 e condannato a 25 anni di prigione per coinvolgimento nell’assassinio del ministro del Turismo israeliano Rehavam Ze’evi. I due hanno un figlio Majd, nato attraverso IVF nel 2013. Nel 2014 Abdul Karim è stato multato per 1500 dollari per aver trafficato il suo seme in prigione, e gli è stato impedito di vedere la famiglia per due mesi.

“Alla cerimonia di premiazione erano collegate online le famiglie che ho fotografato, perché era il loro premio. Non erano gli spettatori, coinvolti e poi allontanati. Ci sentiamo tutti i giorni, i ragazzini mi mandano le foto del primo giorno di scuola, come se fossi il loro zio di Roma. Mi stranisce quando alcuni colleghi mi dicono che non sanno che fine abbiano fatto le persone che hanno fotografato. Non dico che sia meglio fare come faccio io, ma a me sembra impossibile,” mi racconta Antonio, che ha vinto quest’anno in due categorie, con il premio per la World Press Photo Story of the Year e il primo premio nella categoria Long Term Project, creato nel 2019 per quei progetti a lungo termine portati avanti per almeno tre anni – tredici nel suo caso.

La fotografia, per lui, non è semplicemente un mezzo per raccontare storie che altrimenti non riuscirebbero a raggiungerci, o per denunciare le tante ingiustizie che avvengono nel mondo, ma piuttosto, nel caso di Habibi, la maniera più efficace per restituire una voce e una dignità a chi le ha perse. Riesce così a mostrarci la Storia attraverso il suo sguardo, annullando le distanze emotive e, molti direbbero, professionali. Il fotografo romano, facendo una scelta apparentemente antieconomica e per certi aspetti estrema, si pone come medium del racconto che narra: ciò gli permette di abbattere la barriera tra lo spettatore e le immagini che, anche se non hanno un impatto diretto sulle nostre vite di tutti i giorni, ci dovrebbero almeno indirettamente riguardare.

Amma Elian, il cui marito sta scontando l’ergastolo dal 2003, con i loro due gemelli nati in seguito alla fecondazione in vitro, a Tulkarm, in Palestina, il 25 gennaio 2015.

I volti dei soggetti sfigurati dal dolore e dalla rabbia, che spesso siamo stati abituati a vedere in relazione a questa terra, sono più riconoscibili, didascalici, apparentemente più dinamici degli sguardi persi nel vuoto e nell’attesa immortalati da Antonio. Dipingere il mondo per opposti e contrasti può essere molto d’impatto, eppure, a differenza di questi, gli spiragli di luce che escono da un’incubatrice o cadono sul volto di una donna abbandonata sul divano di casa e ai ricordi ci restituiscono una solennità che di retorico non ha nulla. Questo approccio etico ed estetico, non subisce uno strappo con l’ingresso del fotografo nella storia, anzi, nasce proprio da questo mescolarsi. Molti, forse, lo biasimeranno, ma dovremmo essere disposti ad ammettere che uno sguardo realmente oggettivo probabilmente non esisterà mai: non riconoscerlo potrebbe essere solo un segno di ingenuità o cattiva fede. Antonio Faccilongo, però, è onesto: vuole usare la fotografia anche per fare esperienza diretta di vite e realtà lontane dalla sua – e dalla nostra –, usarla per far parte delle cose e avere un impatto su di esse, lo ammette senza problemi o riserve, facendo quanto è necessario.


Questo articolo fa parte di PARALLAX, il nuovo Vertical di THE VISION dedicato alla fotografia e al fotogiornalismo, e realizzato in collaborazione con Fujifilm Italia. L’intervista ad Antonio Faccilongo è stata curata da Alessandra Lanza.

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