La luce, di Federica Belli, riflette dimensioni intime e distanti - THE VISION

Come accade spesso, prima di conoscere Federica Belli di persona l’ho conosciuta attraverso le sue opere: non via Instagram, come potrebbe essere facile aspettarsi nel caso di una fotografa di ventiquattro anni, ma esposta in una galleria di Milano; la stessa galleria che poi, durante una piccola collettiva femminile, mi ha dato modo di incontrarla, prima che si trasferisse a Parigi, dove oggi continua la sua formazione visiva e la sua ricerca.

Mi piace pensare che ogni artista somigli alle fotografie che scatta: ho scoperto così che la timidezza di Federica corrisponde all’intimità che traspare dai volti che ritrae, sempre vicino, a una distanza emotiva, lo sguardo quasi sempre in camera, in una connessione immediata con chi guarda, i tratti spesso simili, tra lentiggini, capelli rossi e occhi chiari. Lo stesso sguardo che per timidezza si potrebbe far fatica a sostenere e che invece trova coraggio grazie ai modi delicati di lei che lo coglie con la fotografia. “La macchina fotografica è diventata il mio mezzo per avere uno sguardo e un contatto diretto con gli altri saltando quella parte imbarazzante dei discorsi di circostanza che si fanno per conoscersi e avvicinarmi ai miei coetanei in modo più profondo e sincero, e per trovare dei punti fermi”, mi dice. Quando a dieci anni appena compiuti ha preso in mano dal mobiletto nell’ingresso di casa la macchina fotografica di suo padre ha scoperto un linguaggio e un’alleata. 

Cresciuta nell’entroterra ligure, ha cominciato a isolare porzioni del mondo circostante per osservare più da vicino alcuni dettagli e condividerli con la sua famiglia e poi si è avvicinata sempre di più alla fotografia in modo graduale. “Sei un fotografo quando vivi di fotografia, io non sapevo se potevo vivere di fotografia, né sapevo cosa volesse dire. Che avrebbe potuto essere un lavoro l’ho intuito a 16 o 17 anni; che sarebbe stato il mio l’ho capito intorno ai 18”. E nonostante questo si è iscritta a una facoltà di Management ed Economia, per avere un valido e concreto piano B. Due anni dopo è stata selezionata per partecipare alla terza edizione del talent di SKY Master of Photography, dove in appena due mesi ha imparato tutta quella tecnica che ancora non aveva avuto modo di studiare e lo ha anche vinto. “Ho partecipato consapevole che essendo la più giovane ero stata invitata come carne da macello, non mi sarei mai aspettata sarebbe finita così,” mi confessa.

Oltre a frequentare da qualche mese l’École du Louvre, Federica porta costantemente avanti i suoi studi frequentando una mostra dietro l’altra, andando spesso al cinema e rifugiandosi nella letteratura, proprio come faceva da bambina. “L’occhio fotografico,” mi dice, “funziona come uno stomaco: è fondamentale nutrirsi di varie forme espressive, e ogni progetto è anche sempre un modo per allargare il campo dell’esperienza nell’ambito della fotografia”. Cita Picasso e la sua continua evoluzione nel tempo, sempre volta a sperimentare e a scoprire qualcosa di nuovo e di diverso, in movimento, mosso da una curiosità insaziabile. Ecco che in un progetto come quello nato per Parallax, in collaborazione con Fujifilm e scattato a Parigi, per la prima volta si è trovata a confrontarsi con la fotografia istantanea, che per lei si è rivelata sorprendente, soprattutto anche grazie alla possibilità con Instax mini Evo di stampare su pellicola fotografie precedentemente scattate in digitale.

“Per me la fotografia istantanea è stata una scoperta rivoluzionaria,” mi dice Federica, “qualcosa che non avevo mai osato avvicinare, semplicemente perché il mio linguaggio è sempre qualcosa di estremamente e maniacalmente pulito. Mi sono sempre approcciata alle mie fotografie e a quelle altrui con un interesse rivolto a ciò che è almeno formalmente il più perfetto possibile, solo in quel caso riesco ad avere accesso a un messaggio. È più un mio limite che altro. Questo progetto è stato invece un ottimo mezzo per avvicinarmi [alla fotografia istantanea] coi miei linguaggi e coi miei termini, andando poi a stamparlo sul supporto successivamente. Una rivoluzione che mi ha messo in difficoltà, tanto che ora giro con una marea di istantanee nel portafoglio per mostrarle a tutti”.

I volti femminili – trovati in un café, su un ponte che attraversa la Senna o incrociati tra i classici banchetti che vendono libri, disegni e acquerelli – come sempre guardano in camera, ma il risultato è molto diverso da quello dei lavori realizzati in precedenza da Federica e i ritratti hanno un sapore completamente nuovo. Sembrano traghettare pensieri infantili, nati dal mondo delle sue letture, assolati e calorosi. Lo leggo nella loro luce aranciata, che sembra appartenere alla fine delle giornate estive, nei colori sempre saturi e morbidi insieme, come le espressioni del viso dei soggetti che rappresentano. C’è una dolcezza di fondo nelle immagini di Federica, che richiama l’innocenza dell’infanzia e la ricerca di uno spazio sicuro all’interno della propria intimità, che la pasta dell’istantanea ricollega ancor di più a un mondo immaginario, lontano, che emerge dalla letteratura e che sembra tanto concentrato sul soggetto da fermare il resto del mondo, che diventa spettatore, fuori da qualsiasi epoca. 

Quando le chiedo perché i suoi modelli, che spesso ferma per strada intercettandone lo sguardo e poi facendosi coraggio per chiedere loro se vogliano posare per lei – o per chiederlo ai loro genitori, visto che molti dei soggetti che fotografa sono bambini o adolescenti – abbiano sempre dei tratti così somiglianti mi dice che l’origine è nella sua immaginazione, che fin da piccola creava personaggi con quei tratti e che semplicemente va in giro a cercarli. Le lentiggini si confondono, il cielo guadagna una diversa sfumatura, le luci si bruciano ed esplodono, portando ancora di più l’attenzione su uno sguardo che nella sua intensità sembra dire: “Mi hai capito, ti ho capito, è come se ci conoscessimo da sempre, ti riconosco”. Non so quanto Federica abbia parlato con queste persone prima di attivare l’otturatore, ​​ma la confidenza che traspare sembra quella che si è consolidata tra gli amici, di cui siamo in grado di capire tutto, senza però svelare fino in fondo il loro mistero.

Provo a capire meglio da dove nasca questa familiarità concentrandomi su quelle immagini in cui il soggetto coincide con l’artista. Avvolta tra le foglie di insalata o da un fiore, nascosta dietro una parete vegetale, illuminata all’interno di uno spazio casalingo o ritagliata come una silhouette che si staglia dalla quinta di un paesaggio, giocando con linee e geometrie, spesso Federica è modella delle sue stesse foto. “Per me l’autoritratto è un mezzo,” spiega. “A volte ho visioni così particolari da mettere in scena che piuttosto che coinvolgere qualcun altro e cercare di spiegare una determinata sensazione per ricrearla, quando è qualcosa di davvero sentito e non ancora del tutto compreso, mi trovo prima di tutto a provare a metterlo in scena da sola”.

Penso alle immagini in cui è in piedi su uno scoglio in mezzo al mare, con uno specchio tra le mani che le nasconde il viso rifrangendo la luce del sole verso l’obiettivo, o alla fotografia in grande formato che ho visto esposta l’anno scorso in quella galleria in cui ci siamo incontrate per la prima volta. Quella foto, che ha vinto vari premi, raffigura Federica distesa a pancia in giù su un tavolo, che mi raccontò trovarsi in una casa in cui era ospite, in una città che ancora non conosceva bene: per lei quel tavolo rappresentava l’unico punto fermo di una vita nuova.

Eppure, per Federica essere il soggetto della foto non è rilevante. “Credo che, come tutte le forme d’arte, la fotografia arrivi alle altre persone soltanto quando è qualcosa che è condiviso e offre una sensazione capita e sentita anche da chi osserva: se davvero è così, non dico che il soggetto potrebbe essere chiunque, ma quasi, perché a quel punto la fotografia riguarda chiunque”. Federica Belli è in cerca di qualcosa in grado di accomunare tutti e la sua ricerca si spinge sempre più in questa direzione. Non verso qualcosa che sia unico o soggettivo, ma verso qualcosa di comprensibile a più persone possibili. Ecco che quel mistero dello sguardo si svela, non solo come ricerca di sé, ma di una corrispondenza, di un luogo d’incontro e di comprensione, per tentare un passo fuori dai propri confini.

Questo articolo fa parte di PARALLAX, il nuovo Vertical di THE VISION dedicato alla fotografia e al fotogiornalismo, e realizzato in collaborazione con Fujifilm Italia. L’intervista a Federica Belli è stata curata da Alessandra Lanza.

Segui Alessandra su The Vision | Twitter | Facebook