Piccole figure in bianco e nero – con capigliature, abiti, occhiali da sole o sguardi che arrivano dal passato – camminano, si muovono ed emergono da una Milano notturna e a colori che appartiene invece al presente. A incorniciarli un bordo bianco – che non sempre è il confine della scena, a volte la ospita – dove si creano piani diversi, prospettici e di spessore, tagliati con un bisturi e uniti dalla colla. In quei 46 × 62 mm si concentrano opere in miniatura, “Nightscapes” (ndr. paesaggi notturni), che lasciano spazio a realtà immaginarie, in cui qualcosa è sempre fuori posto o fuori scala, come in un quadro surrealista, dando un senso di meraviglia.
“Quando mi è stato chiesto di interpretare il medium Instax attraverso il mio approccio artistico”, racconta Alan, “in me è scattato subito qualcosa”. Dalla richiesta di una decina di opere da parte di Fujifilm ne sono nate infatti ben ottanta, una più sorprendente dell’altra – perché l’estetica, l’approccio di Alan al materiale d’archivio e l’effetto volutamente straniante che si ottiene nell’unione con queste istantanee di piccolo formato funzionano così bene che in pochi avrebbero potuto prevederlo. Ma prima di arrivare a questo ultimo lavoro, frutto di un lungo percorso artistico, è bene ripercorrere quest’ultimo, per capire come queste immagini sintetizzino bene una poetica nata con il tempo.
L’artista, nato nel 1979, si è avvicinato alla fotografia dopo gli iniziali studi di grafica. “Mi è sempre piaciuto il cinema e mi è sempre stato caro il tema delle immagini, concepite in senso spaziale, nella costruzione delle inquadrature, con un taglio e un certo sapore”. Appena uscito dalla scuola Bauer di Milano Alan ha cominciato a lavorare con pesanti macchine da studio, che richiedevano una lunga preparazione e impostazione, come nella fotografia del passato: per poi cominciare a sperimentare con il più piccolo formato e con modalità più spontanee.
Dopo un periodo di lavoro con la fotografia di ritratto, passa a quella di interni, attraverso la collaborazione per un’agenzia immobiliare per la quale comincia a scattare gli spazi domestici ancora abitati o ormai vuoti, che però portano ancora con sé il passaggio della presenza umana. “È un tema di identità culturale e personale, che ti porta a decidere di allestire in un certo modo quei pochi metri quadri in cui vivi”. Questo percorso, nato casualmente, ha subito affascinato Alan, che continua tutt’oggi questa collaborazione e che ha imparato a leggere in ogni abitazione, il passaggio delle persone e i loro residui, come le impronte dei quadri sulle pareti. “Per me era come fotografare le persone, ma attraverso il loro fantasma e quel contesto che suggerisce il mistero di quella vita, a volte ferma a un arredamento di trenta, quaranta anni fa. Fare viaggi nel tempo a volte è meno impossibile e fantascientifico di quello che si crede”. Così, Alan ha iniziato a creare un archivio personale di luoghi ormai disabitati che ha rimesso in gioco successivamente, come scenari dell’inconscio, palcoscenico di possibili storie, suggestioni, sensazioni.
Un altro passaggio fondamentale avviene quando Alan si trova a misurarsi con un archivio fotografico d’eccezione da cui nasce, in maniera di nuovo accidentale, il lavoro “Ultima edizione: storie nere dagli archivi de La Notte”. Una professoressa e amica, mi racconta, “mi segnalò l’esistenza di questo fondo fotografico conservato al Centro Apice, organo dell’Università degli Studi di Milano, contenente stampe e negativi”. Un patrimonio che fino al momento in cui lui e due colleghi, il fotografo Luca Matarazzo e il giornalista Salvatore Garzillo, lo hanno “affrontato” era inquantificabile – la stima era di circa 250mila negativi di fotografie scattate dai sei fotografi del quotidiano milanese La Notte, nato nel 1952 come foglio di informazione politica e andato in stampa fino al 1995, con tre edizioni giornaliere e una ricca parte dedicata alla cronaca nera. Negli anni Cinquanta per la prima volta a supporto dei fatti di cronaca nera – raccontati tramite articoli o le notizie radiofoniche – apparvero anche le fotografie: “Si potevano vedere la scena del crimine, il volto dell’assassino, le indagini in corso, la polizia, e tutto questo innescava una storia narrativa che andava avanti nel tempo, con con continui aggiornamenti”.
I fotografi ingaggiati poi negli anni Sessanta dal direttore, Nino Nutrizio, uscivano insieme a un giornalista per documentare i fatti di cronaca: una volta scattate le immagini correvano in redazione a recapitare i rullini e spesso non sapevano né che cosa sarebbe finito in pagina, né di preciso cosa avevano scattato, risucchiati da un’altra commissione e dal ritmo incessante degli eventi. Uno di questi, Bruno Benedusi, intervistato nel volume nato dal lavoro su questo archivio e in particolare sulla sezione delitti, ha raccontato ad Alan e ai suoi colleghi di non ricordare nemmeno quali foto fossero state scattate da lui e quali dagli altri reporter. Non solo nell’affollato archivio, ma già tra le pagine di giornale, la paternità autoriale era andata persa, scalzata dalla contingenza del documento. Lo scopo del terzetto non era solo lo studio di una produzione ormai lontana del tempo, da leggersi con sguardo contemporaneo, ma anche il rendere giustizia a quegli autori che avevano creato sì documenti, ma anche immagini di alto valore estetico. Delle 12mila immagini analizzate, ne sono state scansionate 2mila, fino alla selezione finale delle 220 confluite nel volume.
“Una fotografia di archivio,” spiega Alan, “diventa tale forse quando perde la connessione con il contesto nella quale è stata realizzata e le motivazioni per cui è stata realizzata, trasformandosi in un elemento quasi alieno, ma ancora in grado di dirci cosa siamo stati e attraverso cosa siamo passati per arrivare fino a qui”. Ecco che – affascinato dalle città, dai luoghi e dai volti del passato, dalle zone liminali di una Milano dove dominavano ancora le campagne e dall’aspetto antropologico degli interni delle case – Alan ha continuato a fondare il proprio lavoro di ricerca soprattutto sul tema della memoria e, come dice lui, del mistero. Continuo a ragionare con Alan sul valore della fotografia d’archivio, che a un certo punto, dopo questa rilettura, è diventata fondamentale anche all’interno della sua produzione, ritagliata e riassemblata, a formare nuove scene e nuovi mondi paralleli, prima sotto forma di copia, poi nella sua versione originale.
“Mi è sempre interessato ricollocare e riconnettere immagini ad altri contesti, ma a un certo punto il gradino che ho affrontato è stato quello di intervenire sulle stampe originali – magari recuperate in mercatini o ricevute come donazioni di agenzie che avevano chiuso e non esistevano più e che le avrebbero gettate via.” Ecco che per Alan si palesa la scelta su cosa fare di questi documenti, che separati dal contesto ci parlano in maniera frammentaria, come farebbero dei geroglifici: consegnarli definitivamente all’oblio e distruggerli, l’opzione di chi deve fare spazio nelle case, nelle cantine e negli studi, oppure rimetterli in gioco, come sceglie di fare lui. Il gesto apparentemente distruttivo su un oggetto, che in molti casi sarebbe finito al macero, per Alan può introdurre una nuova messa in gioco. La via conservativa non è l’unica via, anche quella interpretativa permette agli elementi di trovare una nuova destinazione, ritrovarsi in un nuovo scenario o contesto.
“Ho cominciato ad agire direttamente su queste immagini in bianco e nero e a innestarle sulle fotografie scattate da me, tagliandole a mano con il bisturi, estrapolando un individuo, un oggetto, un interno e inserendole in un contesto contemporaneo, nella maggior parte dei casi a colori”. Questa tridimensionalità, fisica e temporale, è diventata il fulcro della ricerca di Alan, oltre che un mezzo per l’investigazione da parte sua dell’inconscio. “Per questo le mie immagini,” spiega, “hanno spesso un tratto notturno e delle ambientazioni ricollocabili in un contesto cinematografico da film noir. Uno dei temi che mi è più caro è quello del perturbante, quella sensazione di familiarità e straniamento allo stesso tempo, di qualcosa che conosciamo, ma in qualche modo ritorna a presentarsi a noi in una maniera leggermente diversa, sfocata, inquietante. Questo lavoro sulla precisione degli elementi a volte è volutamente messo fuori registro, però di poco, in modo che si resti in quella sensazione di ‘possibile’, ‘quasi giusto’, ma forse ‘un po’ sbagliato’.”
Con Instax, Alan ha proseguito la sua ricerca cambiando scala, formato e materiali, riuscendo a essere pienamente se stesso, colto da un’onda creativa che ha definito “inarrestabile” e che esprime in maniera perfetta l’inquietudine, il voyeurismo, il fascino di quello che accade di notte, nel rettangolo di una finestra o di un’istantanea. Penso a un qualunque libro di Dino Buzzati e ci vedrei bene una di queste immagini in copertina. È impossibile non perdersi attraverso lo spazio e il tempo dentro a queste sensazioni, ipotesi e congetture, trame di infinite storie possibili.