Quella che mi accingo a scrivere è probabilmente l’introduzione più da boomer che abbia mai messo nero su bianco, ma in un mondo in cui essere vecchi non è un dato anagrafico ma uno state of mind – per non dire una vergogna – sento di potermi assumere questa responsabilità. Anche perché, l’oggetto dell’analisi che seguirà nei prossimi paragrafi è nato nel mio stesso anno, cosa che non mi scagiona dal reato di vecchiaia e poca coolness che potrei commettere, ma che rende tutto più ironico. Nel 2016 ho sentito parlare per la prima volta di una serie di fenomeni che stavano diventando sempre più grandi, popolari e centrali nel mondo della musica commerciale italiana: come sottolinea giustamente qualcuno, quattro anni fa in Italia è esploso un trend molto importante, quello della trap, tanto da stimolare un senso di nostalgia per quel periodo nonostante sia così vicino. Nel 2016, a Roma, si cominciava a parlare sempre più di Dark Polo Gang, di skrt, di sciroppo con la codeina, di dabbing e di tutta una serie di cose che oggi sono ormai immaginario pop adolescenziale e giovanile più che un canone consacrato al grande pubblico. In quella fase germinale – anche se a dire il vero non lo era, anzi, era forse il picco espressivo della cultura trap Made in Italy – mi capitò di leggere per la prima volta scritto il nome di “Sfera Ebbasta”, artista che muoveva i suoi passi nella scena milanese trapper già dal 2014, e la prima cosa che mi venne in mente fu: “Ah, è una gag di Maccio Capatonda?”.
Non si trattava ovviamente del sequel di quel famoso quanto iconico “Mobbasta veramente però”, uno sketch dell’autore comico del primo vero fenomeno virale di internet dovuto alla sinergia involontaria tra Mai dire e YouTube, ma del nome d’arte di Gionata Boschetti, classe 1992, nato a Cinisello Balsamo, un dettaglio anagrafico che di certo il trapper non si risparmia di sottolineare in molteplici occasioni. Sfera Ebbasta, per i più intimi solo Sfera, nel 2016 era già il personaggio del momento, l’esponente del genere trap più promettente della scena, una premessa che si è di gran lunga confermata con il passare degli anni. Il fatto che io, sua coetanea, non avessi idea di chi fosse prima che qualcuno me lo spiegasse come si spiega a un ottantenne come si utilizzano le emoji su WhatsApp, non era dovuto al fatto che non fossi interessata alla musica, tutt’altro.
Ho sempre suonato, prestato molta attenzione alla musica più di nicchia, letto riviste che un tempo erano considerate bibbie in stile Pitchfork e simili, frequentato festival e negli ultimi anni ho anche scritto abbastanza dell’argomento, ma il motivo per cui nel 2016 non ero preparata in materia “trap boys” era molto semplice. Se nel 2014 mi è capitato di vedere sia Calcutta che Tommaso Paradiso – con i furono Thegiornalisti – esibirsi in locali romani con un pubblico tra i 15 e i 50 paganti, non è perché fossi una talent scout ma perché fino a pochi anni fa, non più di venti di sicuro, il genere dominante, anche nelle sue varianti più commerciali e pop, non era il rap; il rock, in tutte le sue declinazioni, anche leggere come ciò che è stato poi l’Itpop, costituiva infatti il grosso della produzione musicale italiana da classifica, anche quando si vestiva da pseudo-indie. Quello che è successo nell’industria musicale mondiale del Ventunesimo secolo, e di conseguenza italiana, è la ragione per cui nel 2020 Sfera Ebbasta è a tutti gli effetti – da un punto di vista commerciale – l’artista italiano più importante del momento, anche all’estero.
Non è un caso dunque che il secondo album in studio di Boschetti – con la collaborazione fondamentale se non quasi insostituibile del producer Charlie Charles – quello che non solo ha confermato il successo del suo esordio, XDVR, ma lo ha consacrato in modo definitivo al consenso su larga scala, si chiami proprio Rockstar. Mettendo da parte i dati più noiosi e celebrativi, come quello sul suo essere l’artista italiano che negli ultimi dieci anni ha venduto più copie, c’è un altro aspetto che mi stupisce nel fenomeno enorme rappresentato dall’arrivo sulla scena e dalla crescita dell’artista lombardo. Un aspetto che, non a caso, è anche al centro del documentario Famoso, uscito lo scorso 27 ottobre, per anticipare l’arrivo della nuova fatica di Sfera, l’omonimo album. Niente succede per caso, nemmeno nel mondo della musica, e se un artista in un determinato momento storico prende il sopravvento in modo così decisivo e capillare è bene chiedersi il perché, e la ragione di questo successo sembra risiedere tutta nel leitmotiv che sta al centro della musica trap: “Ce l’ho fatta”. Il riscatto, la vendetta dolce che si serve su un piatto freddo e stracolmo di gioielli, il senso di rivalsa, è il centro dell’estetica di Sfera – e dei trapper in generale – e il fatto che sia così derisorio nei confronti del genere per eccellenza del Novecento, il rock, sottolinea ancora di più questo ritornello insolente che si traduce in un timbro di voce inconfondibile. Sfera Ebbasta è una “rockstar” nel senso più simbolico e destrutturato di sempre: non si parla di musica ma di pura rappresentazione, immagini – che con i social diventano post, didascalie, hashtag – e narrazione di sé. Un po’ come se fosse una statua di cera di Mick Jagger, il rock è morto da un punto di vista musicale, ma da un punto di vista estetico e simbolico si può ancora riciclare e riabilitare in una chiave molto diversa.
Questa rivisitazione del successo “rock” in chiave trap, cuore pulsante della poetica di Sfera Ebbasta e del suo modo di apparire in qualsiasi declinazione del suo personaggio – dai social alle interviste, fino al documentario – è l’elemento che lo rende tanto affascinante agli occhi dei suoi milioni di fan quanto capace di diventare di fatto il numero uno del suo genere: individuando un filone musicale e soprattutto estetico che a livello internazionale stava esplodendo – non a caso è forte il suo legame non solo con gli Stati Uniti, ma anche con la Francia – Sfera si è spinto a un livello di popolarità che fino a quel momento non era stato raggiunto da nessuno dei suoi “colleghi ”in Italia, neanche dai pionieri del rap.
La sua abilità è stata infatti quella di rielaborare in chiave di provincia milanese quel senso di “Started from the bottom now we’re here” tipico della trap americana – e per molti versi anche del rap – che non ha bisogno di una base particolarmente articolata o complessa, fatta di testi e critica sociale, ma semplicemente di poter cantare le lodi di qualcuno che dice “Guardami, sono meglio di te”. Non c’è nessuna traccia di analisi materialistica dei motivi che hanno spinto un ragazzo che viene dalla periferia a trovarsi in una situazione simile – a detta sua, a un passo dalla criminalità – c’è solo la celebrazione del qui e ora. Soldi, “tipe”, lusso: non c’è ieri e non c’è domani. Il senso della collettività che soffre è legato alla sua stretta comunità di provenienza, il quartiere, la famosa “Cini” di cui canta, ma che rimane più un termine di paragone tra il passato e il presente, tra ciò che era e ciò che è diventato, motore per tutti quelli “come lui” che ambiscono alla stessa rivalsa, individuale e carica di segni e rimandi a questo status ottenuto, tanto da diventare una parodia del ricco.
Ancora più estremo del camorrista che si fa la villa barocca, ancora più pacchiano dell’emiro che ricopre i rubinetti in oro colato, Sfera è la quintessenza dell’opulenza, un modello aspirazionale tanto facile da individuare quanto allettante perché basato su simboli elementari, un abbecedario della ricchezza scritto da Zio Paperone sui sacchi di dollari, un cantante che si presenta al concertone del Primo maggio con due Rolex addosso. Un sogno americano che, non a caso, diventa in effetti compatibile con gli standard esteri di questo stesso genere, visto che, oltre ai già noti featuring internazionali, nel prossimo album ci saranno collaborazioni con artisti stranieri del calibro di Steve Aoki o Offset.
L’aura di Sfera Ebbasta si espande così anche ben oltre all’Italia, luogo in cui è stato incoronato come sovrano del pop, in un momento in cui le classifiche – immagino farà impressione ai puristi del genere – sono di fatto dominate dal rap e dai suoi derivati. Questa espansione che non manca di dare vita a un vecchio classico dei dibattiti pubblici generazionali, ossia quel disco che si è rotto sessant’anni fa con i capelloni hippie e che oggi ritorna in chiave “I nostri figli ascoltano la trap e diventano drogati”, degno del miglior salotto televisivo. A maggior ragione, se poi Sfera diventa protagonista involontario di una tragedia per cui c’è poco da moralizzare e trovare colpevoli simbolici, come la droga o il cattivo esempio dato da uno scapestrato di Cinisello con i capelli fucsia. La tragedia di Corinaldo è un esempio lampante di come la logica del profitto di promoter e gestori dei locali, mischiata a un chiaro disagio giovanile – espresso nel modo più misero e insensato possibile – possa mettere a repentaglio la vita di ragazze e ragazzi appena adolescenti, fino ad arrivare alla morte di sei persone. Questo episodio ha dato una forte scossa non solo all’opinione pubblica, ma anche a chi in quel giro ci bazzicava da sempre e si è reso conto solo in quel momento di quanto fosse diventato grande, ormai da risultare fuori controllo. Anche se la responsabilità non era in alcun modo dell’artista, lui ne ha pagato gli effetti mediatici e morali, oltre che ovviamente personali – non a caso la canzone che esce poco dopo è “Mademoiselle”. Ed è un vero peccato che nel documentario che dovrebbe mettere a nudo la carriera di Sfera, non si parli proprio di questa vicenda, probabilmente visto anche il procedimento penale ancora in corso, dal momento che ha segnato non solo un punto fondamentale della sua carriera, ma anche di chi lo stava osservando da lontano.
Eppure, è proprio di questo circolo vizioso che si nutre la cultura pop, i fenomeni di massa, i grandi idoli generazionali che diventano poster per le ragioni più disparate: c’è un vecchio che fa finta di non capire il nome, un papà che non sa leggere l’inglese, un Massimo Giletti che sospira “Signora mia, che disastro”, una mamma che preoccupata si domanda cosa perché suo figlio adolescente parla sempre di sciroppo, visto che tosse non ne ha. Sfera Ebbasta è un’icona perché ha creato un nuovo tipo di star musicale, mutuando dagli Stati Uniti il modello, come succede molto spesso, e rendendolo appetibile per un Paese come il nostro che con le icone, i santi e gli eroi ci va a nozze.
Una domanda, però, mi rimane in testa, per quanto sia comprensibile il perché del successo enorme di una musica così catchy, disimpegnata, cantata con quel timbro irriverente tanto quanto il sorriso sornione che fa da marchio di fabbrica a Gionata Boschetti. Mi chiedo come mai ci sia bisogno di vedere qualcuno che ce l’ha fatta – qualsiasi cosa voglia dire questa espressione – e non qualcuno che invece dica che a “farcela” dovremmo essere tutti e tutte, che per uno che ce la fa ce ne sono altri mille che rimangono a Cinisello, che per uno che arriva in alto ce ne sono altri milioni che rimangono in basso e si accontentano di vivere il sogno di qualcun altro. Di questo, magari, se ne parla in modo neanche troppo sottile in brani molto famosi come “BRNBQ”, ma spogliarli da questa patina sfavillante di gioielli e di cash che ricopre il trapper non è semplice, specialmente per i fan che nella trap cercano proprio questa opulenza scanzonata. Forse, sognare quel mondo è un anestetico per la bruttezza che circonda la vita di molti, o forse è solo puro divismo pop: Famoso, appunto. Eppure, il suo ultimo singolo, “Bottiglie Privè” – scritto con l’accento sbagliato, magari proprio per riprendere la pronuncia lombarda – non a caso parla del rapporto con la fama e delle sue conseguenze, specialmente le peggiori. E allora viene da pensare che queste non siano solo domande da boomer.
Foto in copertina di Lorenzo Villa ©