Da pochi giorni è uscito il nuovo disco di Tutti Fenomeni, Giorgio Quarzo Guarascio, romano, classe ’96. Finalmente qualcosa di diverso dalla trap o dall’it-pop, dicono molti, anche se forse così originale poi non è, visto che a un certo punto, ci ha messo le mani Niccolò Contessa, mente de I Cani, qui nella veste di produttore, e si sente. Si sente così tanto che Merce funebre sembra il vero terzo album de I Cani, a differenza di Aurora, se non fosse che Quarzo Guarino ha un timbro vocale molto diverso da Contessa, più sporco, che per certi versi ricorda Gaber, e ha anche il phisique du role: lineamenti marcati, capello folto, fossetta sul mento, e una bocca che potrebbe essere stata descritta da Parise. Ci appare vestito come vorrebbe una madre borghese, con un look da commercialista in erba. Il valoro dell’originalità sembra comunque sopravvalutato (“Ho fatto un sogno mi sentivo un piccione / come il 95% di tutte le persone” / forse il 99), ma sicuramente da questo sodalizio artistico è nato un album riuscito e interessante che ricorderemo.
Se Il sorprendente album d’esordio de I Cani era stato effettivamente sorprendente nel panorama musicale italiano del 2011 e Glamour un suo degno successore, in Merce Funebre sopraggiunge quel fastidio che si prova in certi grandi store in cui viene martellata a volume leggermente troppo alto musica leggermente troppo commerciale. C’è un’improvvisa perdita di tensione proprio sull’ultimo brano prima della chiusa “Marcel”. Forse perché è troppo simile ad altre canzoni presenti nell’album. O forse perché ormai ci siamo abituati al meccanismo Contessa.
Contessa ha avuto il merito di formulare una buona decina di melodie che funzionano, e funzionano bene. Pensare di poterle riproporre per dieci anni però forse è troppo anche per i suoi più affezionati sostenitori, e per chi magari lo segue dagli inizi. Non basta trovare un prestanome, con una voce e una faccia adatte – forse anche più interessanti – e un accento romano ancora più calcato, che paradossalmente ricorda i milanesi che imitano i romani per sfotterli.
Tutti Fenomeni – così come I Cani (se ha senso considerarle entità distinte, senza nulla togliere a entrambi) – a differenza degli artisti trap che al momento dominano la scena non vuole far ridere, vuole far sogghignare. Ti stampa sulla faccia quell’irresistibile sorriso storto a cui appendere la sigaretta. Il sorriso sgamato di chi sa che Dio è morto da tempo e che tutto è una farsa, anche le poche cose che fino a poco fa (forse perché eravamo bambini) consideravamo pure e intoccabili: l’arte, l’amore, la filosofia, la musica stessa. La faccia di chi non deve uccidere i padri perché ai padri non crede più, e ciononostante a continua a giocare, anche se è cresciuto.
Il riferimento a Battiato (in particolare a questo degli anni Ottanta), come molti hanno fatto notare, è manifesto: la variazione sugli occhiali da sole ripresa da “Bandiera Bianca”, “la musica contemporanea / mi butta giù” di “Up Patriots To Arms”, l’uso delle lingue straniere inventate e mal pronunciate (che a sua volta rimanda a Werner Herzog). A parte questo riferimento musicale importante, questo album per quanto riguarda la parte narrativa sembra evocare il Nanni Moretti di Ecce Bombo, raccontando una Roma velleitaria contemporanea che non sembra essersi spostata molto dal “Perché piangi, piccola? Perché sono un grande artista?”. In una frase viene descritto, incarnato e criticato un intero sistema di coordinate esistenziali e sociali che regolano i giorni di ragazzi e ragazze che hanno pensato di poter effettivamente diventare artisti, o compagne di artisti. E d’altronde le colonne sonore dei film di Moretti erano in gran parte composte da canzoni di Battiato.
Se i testi di Contessa seguivano per così dire le leggi del racconto americano, che a sua volta seguiva le leggi del racconto di Čechov, e per questo erano tanto stratificate rispetto alle altre proposte musicali mainstream – nonostante la musica semplice che le accompagnava – quelli di Merce funebre sembrano andare oltre e nascere dalla giustapposizione dadaista ed eterogenea del materiale che sfocia quasi nel calembour, come se il testo si autogenerasse e l’autore ne prendesse semplicemente nota, come se la mole di informazioni di cui siamo già in possesso e da cui veniamo costantemente ipernutriti bastasse, una volta aggregata, a ricreare significati autonomi.
Uno dei punti di forza di questa musica è che in pochi versi, però, è capace di fornire un affresco generazionale, un quadro preciso di un determinato ambiente culturale, in cui emerge uno sguardo lucido, che non schifa la realtà di cui parla ma ci si identifica, come durante un’autoanalisi. Come nei film di Moretti, o di Allen. L’album di Quarzo Guarascio sembra aver fatto un passo in più verso la dissoluzione e l’impotenza del soggetto che registra la realtà e non può fare nulla, se non prenderne coscienza e riderne. Anche i valori e i sogni sono diventati merci, e hanno un prezzo di scambio nel gioco dell’affermazione del potere. E tutto questo a noi lettori di Sally Rooney piace, perché finalmente ci confrontiamo con un prodotto che parla di noi e in cui ci possiamo identificare. E non importa se parla di un noi del passato, perché non aspettavamo altro che qualcuno ci narrasse, ed eravamo stanchi di doverci ritrovare nei testi delle canzoni dei Kinks.
Tutti Fenomeni sembra portare avanti la ricerca de I Cani. E i riferimenti sono molti. Eppure ci sono diverse differenze. Ne I Cani si aveva l’impressione che all’amore si credesse ancora. Ne “Le coppie”, con tutti i suoi limiti esisteva, neanche i vigili più stronzi lo fermavano, era come se il fatto stesso di amarsi donasse una sorta di immunità nei confronti del mondo. Il punto di rottura, nel bene e nel male, non si raggiungeva quasi mai. In canzoni come “Reykjavik” invece non c’è più niente da rompere. L’amore è uno dei tanti copioni messi a disposizione dall’esistenza, come nelle poesie di D’Annunzio, una favola bella. “Reykjavik” è la versione cinica di “Le coppie”, così come di “Come Vera Nabokov”. Una vera e propria lamentazione, una “gnola”, il canto del maschio che fa il verso alla ragazza-mamma che lo rimprovera. L’amore è visto come investimento, deve essere produttivo, e la sovversione non è ammessa. E non si può non sentire l’eco di “Questo nostro grande amore”, ma lì quello di capitalizzare era un consiglio che veniva dalla società, si restava nel perimetro della canzone d’amore, corrotto, ma visto sempre come sacca di resistenza, un tributo all’amore sghembo che si può riuscire a creare in questa epoca di crisi di valori e di incertezza economica delle nuove generazioni, in cui i quarantenni finiscono per forza di cose a vivere la stessa vita che facevano a vent’anni.
Funzionava allo stesso modo l’inno di “Lexotan”, da cantare in scooter non solo per le strade di Roma, ma di qualsiasi città, “Non avrò bisogno delle medicine, degli psicofarmaci, del Lexotan” [perché ci sei tu]; e ancora la dichiarazione martellante di “Wes Anderson”, “Proprio come me e te”, che adesso viene invece smembrata da Quarzo Guarascio nella ripetizione ossessiva di “Come me / come me / come me” e di “Per te / per te / per te”, passando in modo dadaista – ma ancora pungente – per il Che. D’altronde tra Giorgio e Niccolò ci sono giusto dieci anni di differenza d’età, in cui la Weltanschauung – per usare il tedesco a cui fa tanto ricorso il primo – sembra essere cambiata radicalmente. E forse si usa tanto tedesco – così come i riferimenti alla musica colta – perché un certo tipo di eredità culturale viene subito e criticato, ma allo stesso tempo risulta essere l’unico parametro per distinguersi, nell’epoca in cui tutti pensano di essere originali e di poter diventare artisti. Quando tutti ormai sono creativi e sono tutti timidi per difendere la propria unicità non resta che arroccarsi e tirare sferzate (“L’infinito non l’ha scritto Mogol”), sapendo che il passato non può ritornare. Vengono sacrificati così riferimenti colti mainstream dandoli in pasto al grande pubblico e nascosti tra le righe dettagli più sottili, come quello al mito di Orfeo ed Euridice (“Hikmet”). L’unica cosa che si può sacrificare all’amore restano i gol di un campionato che però non si può vincere, perché tanto è già stato deciso (“Mogol”).
Un altro tratto che accomuna questi due artisti, che grazie al confronto hanno trovato un risultato notevole rispetto a tanta altra produzione musicale, è il mettere in scena una sottile misoginia, non estranea a una certa corrente letteraria, figlia di un’educazione borghese che vuole la donna o innocua o colpevole. Pensiamo a Class di Francesco Pacifico, che ha influenzato non poco la creazione artistica di Contessa e di cui “Hipsteria” sembra la colonna sonora: la copertina stessa de Il Sorprendente album d’esordio sembra a sua volta un fotogramma dal campo scout raccontato in Class, ma anche un remake di Belle de jour, di Luis Buñuel. La borghesia punisce la donna per farla stare al suo posto, affinché non diventi un elemento di squilibrio dei codici sociali e intimi che reggono il suo sistema.
Questo è lo stesso atteggiamento che si ritrova in alcuni personaggi dei racconti di Io odio John Updike di Giordano Tedoldi, uscito per la prima volta nel 2006, aggiunto all’odio per aver generato un figlio che si sente inadatto al mondo dato. Sembra che il prototipo di uomo borghese, colto e romano, si porti tuttora con sé un interessante principio edipico irrisolto, che sfocia nel sadomasochismo.
O la donna si prende cura – “Come Vera Nabokov”, come la moglie di Class, come una nuova madre – oppure è vista come un’entità emancipata, pronta a provocare e ad attaccare, che va quindi punita. E qui ci si discosta profondamente dalla poetica di Battiato, il cui rapporto coi fantasmi della borghesia sembrava risolto. Più a Nord, la narrazione brutale della classe di appartenenza, è stata affrontata in modo simile da Gianluigi Ricuperati nel suo romanzo d’esordio Il mio impero è nell’aria (uscito sempre nel 2011 per minimum fax). E questa misoginia nemmeno troppo latente (“Non toccarmi la corona Anna Bolena”) è uno dei tanti tratti della nevrosi contemporanea di questo ambiente, ed è impossibile non riconoscerla e non riconoscervisi, in quanto donne appartenenti a un ben determinato strato socio-culturale trasversale al Paese (o è perché i nostri genitori hanno letto tutti Moravia?). Come dice Contessa: “Spietato e inesorabile / è lo sguardo maschile / persino o soprattutto in un liceo del centro”, e quello sguardo è anche il suo, e quello di tanti altri, ed è lo sguardo con cui le donne devono quotidianamente confrontarsi, e che in un certo modo hanno fatto proprio. Emerge così in tutta l’oggettività e l’ingiustizia dello stato delle cose nei confronti di chi ha meno potere, perché è più povero, brutto, meno intelligente o femmina.
In Merce Funebre anche gli ultimi baluardi di fede che resistevano negli album de I Cani sembrano essere stati spazzati via, e forse è proprio a loro che è rivolta questo commiato, che arriva al suo culmine in “Mogol” in cui il fallimento culturale del Paese è quasi un sollievo, sollevando dalla responsabilità di combattere. La ripresa della marcia funebre di Chopin non è particolarmente sconvolgente, chiunque sia cresciuto in un contesto borghese – pubblico a cui parla l’artista – lo riconosce. Chopin per chi conosce la classica è un riferimento mainstream, così come Carmen o Nozze di Figaro (o quantomeno l’aria “Non più andrai, farfallone amoroso”), sono l’equivalente musicale dell’incipit de L’Iliade. Tutti Fenomeni in questo caso fa un uso molto più complesso della citazione, e sembra fare un gioco simile a quello di un famoso cornista che durante le performance sbagliava apposta le note per dare al pubblico l’illusione di aver capito qualcosa del concerto a cui aveva assistito. I riferimenti colti vanno in parallelo con quanto dichiara in “Filosofia”: “Il mondo è pieno di cretini che mi stanno simpatici / ce ne sono altri che se non fossero istruiti mi starebbero meno antipatici”; “Il mondo è pieno di cretini che mi stanno antipatici / ce ne sono altri che se non fossero istruiti direbbero meno stupidaggini”. E qui sembrano affiorare oltre alle sue idiosincrasie, e alla critica sull’italianità che giudica l’arte sulla simpatia, anche le teorie sul Sessantotto e la democratizzazione della cultura care a Pasolini. Questa frase potrebbe averla detta Moretti, ma anche io, per questo Quarzo Guarascio ci piace, anche se non ci risparmia, perché ci piace atteggiarci davanti allo specchio. Questa poetica non cerca di salvarsi, prendendo le distanze da ciò che parla e critica, anzi, fa coming out, si mette a nudo senza falsi pudori (“Mi sono prostituito / Se non ti spogli non puoi dare l’esempio”), appoggiando tutte le maschere che sa portare (“Diabolik”) con disinvoltura sul piatto, mostrando il vuoto che resta dietro.
Una delle canzoni più interessanti, forse la più originale sia per i contenuti che per la sonorità e la resa stilistica è “Hikmet”, che prende il titolo dal grande scrittore e poeta turco e sembra aprire la critica tediosa e cinica a un orizzonte esistenziale più denso e crepuscolare. Sembra che la marcia funebre stia diventando la forma espressiva preferita da un certo ambiente culturale. Una decina di anni fa, tutti facevano album, dischi, progetti visivi intitolati “Stanze”, ora sembra che dalla poetica della cameretta si sia passati a parlare coi morti. Come fa il poeta romano Gabriele Galloni – classe ‘95 – con le sue raccolte In che luce cadranno (Rplibri, 2018) e L’estate del mondo (Saya Editore, 2019) – che con la sua faccia pulita e arrogante potrebbe essere uscito direttamente dal mondo di Merce Funebre. I toni dei giovani autori romani sono elegiaci, e prendono a calci le macerie fumanti dello spirito del tempo. In questo Tutti Fenomeni dimostra esattamente l’età che ha. Sono i trentenni e i quarantenni che lo ascoltano, e che forse lo amano tanto per nostalgia, che invece vivono in quella stessa età che oggi si è dilatata a dismisura, fino a raggiungere più della metà della parabola della nostra esistenza. La vita della maggior parte dei nati negli anni Ottanta è ancora fatta di aperitivi, velleità, irrisolti e apparenza.
Sicuramente il grande pregio di Contessa prima e di Quarzo Guarascio poi è quello di essere riusciti a raccontare qualcosa che non aveva voce. Nelle loro canzoni una parte di noi è costretta a riconoscersi, la loro musica – a prescindere dal giudizio critico che se ne può dare – parla direttamente alla nostra nostalgia per qualcosa di irrecuperabile. Contessa ci credeva, e come ogni buon narratore ha fatto sì che anche noi ci immedesimassimo nella storia che raccontava, ha saputo rendere in qualche modo la romanità universale, nonostante tutto ciò che si dice della frammentazione italiana, e questa non è stata un’operazione banale. Tutti Fenomeni sembra essere il suo più che degno successore. C’è da capire come si evolverà il suo percorso artistico e se sarà in grado di smarcarsi da certi meccanismi compositivi efficaci, che però a lungo andare rischiano di risultare ripetitivi e di perdere la forza che avevano appena presentati. Insomma, se diventerà effettivamente un Battiato o no. Intanto ci ascoltiamo a ruota il suo disco.
Tutte le foto di Tutti Fenomeni sono di Jacopo Farina.