Se c’è un cinema europeo che è passato alla storia per la sua complessità e per le sue atmosfere spesso cupe e desolanti, di certo è quello tedesco. Dai suoi albori con Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene fino alle sue espressioni più recenti con registi come Rainer Werner Fassbinder e Werner Herzog, sicuramente la Germania non è passata alla storia per esportare commedie. Tra i registi più celebri della tradizione cinematografica teutonica, però, ce n’è uno che, oltre ad aver contribuito alla creazione di uno stile unico, ha anche creato un ponte tra la Germania e gli Stati Uniti, due dimensioni per molti aspetti antitetiche, diverse, ma sotto la sua lente unite dallo stesso senso di vastità e abbandono. Wim Wenders, con il suo racconto dell’oscurità tedesca mescolato a quello della desolazione americana è diventato il regista simbolo – nonché il più popolare anche nel resto del mondo – di un Paese dal duro trascorso post-bellico, frammentato, perennemente diviso tra il senso di colpa e la malinconia.
Il contributo di Wenders, con la sua abbondante produzione cinematografica, documentaristica, fotografica e televisiva, al Junger Deutscher Film – il movimento cinematografico tedesco degli anni Sessanta che si ispirava alla Nouvelle Vague francese – e alla rivolta artistica per liberarsi dall’egemonia culturale americana, che non lasciava spazio alla creatività locale, è stato centrale per la rinascita della cultura tedesca. Non solo ha creato una poetica e un’estetica che hanno fatto scuola, Wenders ha seguito anche una missione liberatoria dai canoni e dagli stili che, per quanto fondamentali e centrali nella storia recente dell’Occidente, non possono soffocare qualsiasi impulso autentico che spinga verso un’altra direzione. E in questo, Il cielo sopra Berlino, capolavoro del regista tedesco che non a caso è stato poi anche riadattato in versione americana – californiana, per la precisione – con Nicolas Cage, è in effetti un’opera che ha tanto carattere e intensità da diventare metafora di un luogo e di un periodo ben preciso, grazie a questa sua rappresentazione indiretta della situazione politica della Germania di quel momento di transizione. Il muro, la desolazione della città ancora piena di macerie ereditate dagli anni di divisione e dalla distruzione della seconda guerra mondiale: il protagonista osserva questi elementi ma non li commenta direttamente se non attraverso il silenzio del suo percorso in questo tour della memoria. Questa storia prosegue poi nel 1993 con il seguito Così lontano così vicino, film in cui si chiude il cerchio del racconto di questi angeli che cadono sulla terra, tra sofferenza, delusione e speranza.
Ricordo bene che da bambina sentivo spesso parlare i miei genitori di questo film: nel 1987, anno della sua uscita, avevano entrambi vent’anni e il cultural reset, a quanto raccontano le persone appassionate di cinema che hanno vissuto quel momento in prima persona, a quanto pare fu decisivo per la loro generazione. Il cielo sopra Berlino infatti è un racconto che in certi punti va oltre la rappresentazione cinematografica, perché sembra contemporaneamente una fotografia, una poesia e una canzone. La sensazione di enormità desolante e sconfinata che si ha trascorrendo del tempo a Berlino non è facile da descrivere, e il fatto che Wim Wenders stesso non abbia scritto una vera e propria sceneggiatura per questo film, lasciando che giorno per giorno si scrivesse gradualmente, è forse una prova di questa difficoltà che si incontra nel racconto. La capitale tedesca, infatti, nonostante gli enormi cambiamenti sia a livello urbanistico che culturale, anche trent’anni dopo dalle riprese di questo lungometraggio, dopo essere diventata meta di approdo per tanti giovani e artisti da tutto il mondo, mantiene un aspetto diviso e per certi aspetti privo di continuità – basti pensare a quanto cambiano i quartieri tra la sua parte Est e quella Ovest. Le riprese de Il cielo sopra Berlino, fotografie in bianco e nero di spazi vastissimi in cui le individualità dei protagonisti si perdono nella malinconia di una terra bruciata e piena di cicatrici in cui l’identità del luogo è stata rasa al suolo, alternano le storie dei due angeli protagonisti, ritmate dalle parole del poeta Peter Handke – co-sceneggiatore del film – con la poesia “Lied vom Kindsein” e spezzate dalla pesantezza di un luogo impregnato di un passato impossibile da digerire.
Dal live di Nick Cave, artista simbolo di un genere musicale oscuro e antitetico rispetto alle tendenze mainstream spensierata della musica anni Ottanta, alla presenza di Peter Falk nei panni di se stesso che racconta il dietro le quinte della vita di un personaggio simbolico e iper pop come il tenente Colombo, fino al giro per la città attraverso parti del paesaggio che appaiono come veri e propri non-luoghi come le parti dove restano i pezzi di muro, Il cielo sopra Berlino appare sì come il capolavoro di Wim Wenders, il racconto filtrato dall’ottica dell’immaginazione di un posto strano e affascinante come Berlino. Ed è in questo percorso, non solo narrativo ma anche nello spazio, in cui si muovono i protagonisti – quello dell’angelo che diventa uomo e “cade” sulla terra – che risiede l’essenza della poetica di Wenders, avendo lui posto al centro delle sue opere più belle un paesaggio che si fonde con le persone, elemento presente anche in altri suoi film come Lo stato delle cose, del 1982, in cui il cammino diventa una metafora per parlare del senso stesso del cinema. Come se, nella conversione tra sfondo e soggetto anche gli uomini e le donne si mescolassero con la città, con il deserto o con qualsiasi altro luogo in cui il regista ha ambientato i suoi film. Paris, Texas, del 1984, per esempio, ritenuto il suo miglior film girato negli Stati Uniti, comunica allo spettatore un senso di fusione tra percorso e viandante, come se l’individualità del protagonista potesse fondersi in un tutt’uno con la strada che percorre: l’ambiente attorno a noi esseri umani è molto più incisivo e determinante di ciò che possiamo credere ritenendoci enti autonomi dal posto che abitiamo.
Una sensazione che, seppur in modo diverso, si percepisce bene anche in uno dei documentari che ha girato Wenders, forse il più bello, in cui l’accorpamento non è più tra personaggi e paesaggi, ma tra corpi e palcoscenico. Pina, documentario del 2011 sulla coreografa tedesca Pina Bausch, è un racconto ipnotico che dà la possibilità anche a chi magari di danza contemporanea non capisce nulla di comprendere la bellezza di questa arte che basa tutto sulla fisicità e con il modo in cui questa può combinarsi con lo spazio. Anche in questo caso, infatti, lo sfondo e la persona vengono esaltate da Wenders nella loro simbiosi resa possibile grazie alla la musica che si fonde con il movimento dei protagonisti in una serie di immagini che sembrano quasi dipinti animati. Henri Alekan e Robby Müller, direttori della fotografia con cui Wenders ha spesso collaborato, non a caso hanno lavorato anche con registi come Lars von Trier, Jim Jarmush, Marcel Carnè, anche loro noti per uno stile fotografico costruito con grande attenzione e ricerca, specialmente negli equilibri tra bianco e nero, luce e ombra.
Nel documentario Il sale della Terra, invece, in cui il tema centrale è la storia del famoso fotografo brasiliano Sebastião Salgado, lo spettatore viene messo davanti al lavoro di chi tramite la fotografia ha “Disegnato con la luce”, racchiudendo la vastità sterminata di luoghi lontani e molto diversi da quelli urbani in cui in molti sono immersi e che, tornando indietro nella filmografia di Wenders, fanno quasi sempre da parte centrale del racconto, come in un altro dei suoi film più belli e importanti e dal titolo emblematico, Alice nelle città, del 1973. Che sia una città, un palcoscenico, un luogo lontano come l’Amazzonia, i personaggi e i protagonisti del racconto del regista tedesco esistono in una fusione tra lo spazio e la persona, un contrasto che rende da un lato spaventoso il senso di vastità che li circonda ma dall’altro anche rassicurante la presenza sul mondo di ciascuno di questi e, indirettamente, anche di ciascuno di noi che guardiamo.
Wenders, insieme a registi simbolo dello stesso movimento, come Werner Herzog e Rainer Werner Fassbinder, ha in effetti creato una nuova estetica tedesca che ha tratto la sua forza proprio dal quel senso di desolazione post bellica che ha investito la Germania divisa, spezzata da due schieramenti, invasa culturalmente dagli Stati Uniti, ma allo stesso tempo in grado di creare una sua nuova identità. Nel suo cinema c’è un senso di malinconia e devastazione che, però, nonostante la forza di un ricordo inenarrabile per la sua gravità come il nazismo, riesce a tradursi in immagini poetiche e simboliche come la danza sul trapezio de Il cielo sopra Berlino. Nel suo racconto del paesaggio, del viaggio, dal cielo alla Terra, da una città all’altra, che avviene spesso attraverso una sceneggiatura che si compone durante le riprese, proprio come il percorso che affrontano i suoi personaggi, Wim Wenders racchiude un’estetica che ha rivoluzionato il cinema occidentale. Il viaggio dei suoi personaggi, che si muovono tra gli spazi esterni e quelli interni del percorso intimo e individuale che che ci raccontano, è la ricerca del senso del cinema al di là della linearità narrativa e della durata del tempo, una missione che, in un’epoca in cui l’immagine pervade ogni spazio, trova un senso anche esistenziale.
Foto courtesy Wim Wenders Foundation
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 04/02/2021.