Quando Marie Adler denuncia alla polizia il suo stupro nessuno le crede. La giovane racconta di un’aggressione avvenuta durante la notte, mentre era sola in casa e stava dormendo. Uno sconosciuto era entrato dalla finestra, l’aveva bendata, legata e violentata per ore. La polizia raccoglie la sua testimonianza, i detective cominciano a indagare. Le chiedono di nuovo di raccontare com’è andata, ancora e ancora. Marie è sotto shock, fa confusione su alcuni dettagli. Sono piccolezze, elementi secondari, ma tanto basta. I detective si insospettiscono. Sono convinti che si stia inventando tutto. Insistono. Insinuano il dubbio. Finisce che lei stessa non si crede più. Fa quello che le viene chiesto di fare, dice quello che le viene chiesto di dire.
La storia di Marie Adler (Marie è il suo secondo nome) è raccontata in una serie TV in otto puntate, trasmessa su Netflix. Si intitola Unbelievable. È tratta da un caso di cronaca giudiziaria avvenuto nel 2008 a Lynnwood, nello Stato di Washington, che fu riportato dalla stampa americana solo nel 2015, in un’inchiesta che vinse il premio Pulitzer. Racconta una storia davvero accaduta, e non una volta sola. L’esperienza vissuta Marie Adler in Unbelievable si ripete ogni volta che una donna denuncia una violenza, una molestia o uno stupro, e che pur dicendo la verità non viene presa sul serio e finisce paradossalmente per ritrovarsi sul banco degli imputati.
Qualche volta, però, nella vita, e non solo nelle fiction, le linee temporali a un certo punto si ricongiungono. In Colorado, nel 2011, le detective Karen Duvall e Grace Rasmussen – i nomi dei loro personaggi sono inventati – uniscono le forze per incastrare uno stupratore seriale. Sono due donne accomunate dalla serietà con cui prendono il loro lavoro, e dalla consapevolezza di come si scopre la verità e della violenza maschile. Due qualità che le portano a prendere in attenta considerazione la parola delle vittime, e a indagare ad ampio spettro alla ricerca del colpevole. Compreso, se necessario, fra i loro stessi colleghi.
Come spesso accade in questi casi, se non sapessimo che questa vicenda è accaduta davvero, forse Unbelievable non sarebbe una serie migliore di tante altre. Netflix già in passato ha proposto narrazioni seriali di denuncia della violenza contro le donne, arricchite da interpretazioni di grandi attrici: dalla Catherine Cawood di Happy Valley, impersonata da Sarah Lancashire; alla sergente Ellie Miller di Olivia Colman in Broadchurch; passando per la pluripremiata Big Little Lies, che ha trattato in modo estremamente realistico e disturbante cosa comporta la violenza maschile nella vita e nella psicologia delle donne, avvalendosi anche in quel caso di un cast eccezionale. Ma il motivo per cui questa serie è diversa è proprio perché rappresenta una storia vera. Unbelievable è la purtroppo ordinaria vicenda di una donna che non viene creduta, che denuncia una violenza e viene abbandonata a se stessa. Ma è anche la straordinaria, incredibile storia di due detective che hanno deciso di fare le cose in modo diverso. Così per la prima volta percepiamo uno spiraglio di catarsi e rivalsa, ci immedesimiamo sì nella vittima ma anche in quelle due donne forti e coraggiose che decidono di aiutarla.
La co-autrice e co-regista Susannah Grant sceglie poi di non ammiccare all’estetica compiaciuta del rape porn e adottare il punto di vista soggettivo delle vittime. Questo contribuisce non solo a facilitare il processo di empatia dello spettatore maschile, ma anche di quelle donne che hanno interiorizzato una certa visione come autodifesa. Come racconta Margaret Atwood, infatti, un certo tipo di sguardo può essere una strategia di resistenza. Convincersi che uno stupro non sia una vera e propria violenza è uno dei modi più frequenti con i quali, anche secondo l’Istat, le donne reagiscono agli abusi sessuali. L’87,8% delle donne che subisce violenza da un partner, infatti, non la denuncia. E se la violenza è stata subita da un altro uomo, la percentuale poi sale al 93%. Le donne non parlano, e adottano strategie psicologiche alternative, e lo fanno perché hanno paura: si aspettano di non essere prese sul serio e di subire quindi doppiamente violenza.
Grazie alla storia di Unbelievable, finalmente possiamo credere che un modo diverso di fare le cose ci può essere, perché c’è già stato. E ci convinciamo che se la voce delle donne viene ascoltata, il sistema può cambiare, e che farlo non è una banale questione di empatia o sensibilità personale: è una questione di serietà professionale. Wever, in particolare, riesce con la sua recitazione a mostrarci l’incredibile potenza che una donna riesce a esprimere prendendo sul serio e rispettando, con umanità e professionalità, il compito che svolge e le persone che ha di fronte.
“Anche le persone buone, quelle persone su cui potresti contare, se trovano la realtà sconveniente, e se la verità non gli piace e non li soddisfa, non ci credono. Anche se tengono moltissimo a te, loro non ti crederanno”. L’intero sistema che dovrebbe proteggere una vittima, la lascia sola, e lo fa per convalidare se stesso. Le madri affidatarie di Marie, “le persone buone” presso le quali la giovane cerca conforto e sostegno, tengono a lei, e conoscono bene la violenza maschile, ma non le credono, non la ascoltano, non la capiscono. Pensano di doverla proteggere da se stessa, invece che da chi le ha fatto e le fa del male. Proprio come i primi detective che non le credettero, gli adulti vicini a Marie nei suoi confronti mostrano un atteggiamento paternalista, piuttosto che professionalità. E quando capiscono di avere sbagliato è troppo tardi.
Unbelievable è una dimostrazione di quanto non si possa pretendere di contrastare la violenza solo inserendo nuovi reati nel Codice penale, come fa per esempio in Italia la legge sul Codice rosso: senza mezzi adeguati e senza una preparazione professionale, seria e condivisa tra operatori sociali e giudiziari ad ampio spettro – come denunciano anche i centri antiviolenza – è impensabile poter fermare un fenomeno così normalizzato. Come ci riuscirono, allora, due detective donne in Colorado nel 2011? Prendendo sul serio le denunce ricevute; ricordandosi dei visi, dei nomi, delle storie delle vittime che avevano già trattato in precedenza, come ogni bravo detective dovrebbe fare; e avendo ben chiaro che quando arriva una denuncia di stupro, bisogna trovare il colpevole, non colpevolizzare la vittima.
L’inchiesta da cui è scaturita la serie è un bell’esempio di giornalismo investigativo. I due autori T. Christian Miller e Ken Armstrong, in un primo momento, stavano seguendo l’inchiesta separatamente, ciascuno per conto di una diversa newsroom: Propublica, che indaga sugli abusi di potere nel sistema democratico americano, e The Marshall Project, una testata giornalistica investigativa che si occupa principalmente di crimini. Hanno deciso di non entrare in competizione ma di collaborare e il lungo reportage che ne è nato rappresenta il tipo di giornalismo indipendente di cui avremmo bisogno anche in questo Paese: un giornalismo che si fa carico di quella verità che al pubblico “non piace e non soddisfa”, come dice la giovane Marie.
Invece, qui a raccontare le violenze sulle donne abbiamo Bruno Vespa – ma non solo – che in diretta TV mette sotto processo persone già vittime di violenza. E ci tocca persino rallegrarci che in questo caso sia stato avviato un procedimento disciplinare, quando dovrebbe essere la norma. Perché di solito le offese che le donne ricevono sui giornali, o l’indulgenza che porta giornalisti e reporter a raccontare i femminicidi empatizzando con l’assassino e disumanizzando le vittime, sono percepite come comportamenti del tutto accettabili. Prodotti come Unbelievable per fortuna raccontano la realtà in modo diverso, mostrando punti di vista alternativi e più giusti. Scelgono di immedesimarsi con lo sguardo delle vittime e di farci credere che la ricerca della verità e della giustizia sia possibile, invece che nella fatalità della violenza.