Non è chiaro perché ci leghiamo così tanto a certi attori, come se i ruoli che interpretano fossero lo specchio della loro vera personalità. O meglio, è chiaro che operiamo questa sorta di transfert da personaggio a persona, dando per scontato che Marilyn Monroe fosse una vamp e Audrey Hepburn una silfide eterea, e non è detto che azzecchiamo sempre ogni nostra deduzione per immagini, eppure, nonostante tutto, continuiamo regolarmente a praticarla. Ugo Tognazzi è una dimostrazione piuttosto calzante di questa usanza irrazionale ma divertente da spettatore affezionato. È uno di quegli attori che hanno fatto il lavoro sporco, lasciandoci cavalcare quel sentimento insensato che ci illude di poter conoscere un uomo o una donna anche solo attraverso il suo lavoro. La sua carriera si accavalla a una biografia tanto entusiasmante e curiosa da poter essere di per sé una sceneggiatura, la sua ironia non si limita a fare da accessorio alla sua recitazione, ma interviene sempre anche quando Tognazzi è in scena come persona e non come personaggio. La voce, la gestualità, la faccia di bronzo di questo attore non sono stati solo strumenti di lavoro ma cifre stilistiche esistenziali, tanto accattivanti da diventare dopo quasi trent’anni dalla sua scomparsa il centro di una retrospettiva al MoMa di New York.
Ugo Tognazzi è parte attiva di quel pezzo di storia miracolato del nostro cinema, protagonista degli anni d’oro della commedia all’italiana, “mattatore” indiscusso e riconosciuto da chiunque abbia mai avuto un minimo di interesse per questo genere cinematografico. Non si sa bene se a fondare il mito di questo decennio collocato tra gli anni Sessanta e Settanta di iper-prolificità audiovisiva siano stati i suoi protagonisti – da registi come Monicelli, Risi e Germi ad attori come Gassman, Mastroianni, Manfredi o Vitti – oppure se abbiano avuto loro stessi la fortuna di ritrovarsi in un momento storico ed economico estremamente favorevole per il cinema. Che entrambe le cose vi abbiano contribuito è forse la spiegazione più plausibile; in ogni caso quel periodo del cinema italiano, per quanto criticabile sotto vari punti di vista, rimane comunque segnato da una straordinaria varietà. Ugo Tognazzi non solo ha dato il suo contributo, ma ha superato il declino del genere, convertendosi poi negli anni Settanta in una versione più drammatica e per certi versi antitetica alla sua scanzonata forma originaria, sintomo di un cambiamento sociale nell’Italia post Sessantotto.
Ma non basta nascere in un momento storico in cui il cinema sta vivendo una fase di splendore e prosperità per avere successo e applausi garantiti. Tognazzi infatti ha fatto come tanti altri la gavetta e non ha mai avuto corsie preferenziali che lo conducessero ai lungometraggi più importanti e ai vertici della stagione d’oro: dal posto di ragioniere al salumificio Negroni – dove, come racconta lui stesso, fingeva di lavorare mentre provava a dormire dopo aver passato la nottata sul palcoscenico – ai film-rivista degli anni Cinquanta, fino alla storia peculiare e tragicomica del suo periodo in televisione. Nel 1954, infatti, ha inizio una delle sue tante collaborazioni fortunate, quella con Raimondo Vianello, con cui fa coppia fissa in una trasmissione che anticipa di diversi anni il format del varietà. Si tratta di Un due tre, scritta con la collaborazione di due grandi autori, Scarnicci e Tarabusi, e basata su un genere comico ancora poco diffuso in Italia, un umorismo in stile fratelli Marx che si serve specialmente delle diversità sia fisionomiche che caratteriali dei due protagonisti: Vianello che si destreggia tra umorismo british e raffinatezza compita, Tognazzi che dà il meglio di sé nella più spontanea forma di comicità istintiva e irriverente, il tutto sotto la benedizione dell’imprevedibilità della diretta. Una benedizione che dopo cinque anni si trasforma in maledizione, facendo di loro i primi veri epurati dalla televisione di Stato, i primi a provare l’ebrezza della censura, tema che a Tognazzi rimarrà sempre molto caro. Per aver basato una gag sulla caduta dalla poltrona alla prima della Scala dell’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, pensando ingenuamente di non farsi notare troppo, il duo viene infatti gentilmente accompagnato all’uscio della Rai.
Nonostante lo scivolone epocale, Tognazzi trova la strada e, anzi, raddrizza il segno proprio separandosi da Vianello. La censura, per Ugo Tognazzi, è infatti una di quelle sciagure che si trasformano in grazia e provvidenza. Tanto detestata e tanto combattuta, quella della Dc nei confronti di cinema e televisione è stata in grado di spronare registi e sceneggiatori a barcamenarsi tra il detto e il non detto, stimolandoli a cimentarsi in una scrittura più stratificata e più arguta con lo scopo di non farsi scoprire. Non si può dire che Tognazzi non ne abbia tratto giovamento, sia da un punto di vista artistico, con tutti i film girati sotto l’ombra inquisitoria di Giulio Andreotti e che hanno comunque reso in modo perfetto nonostante i veti, sia per quanto riguarda la sua personalità pubblica, percepita come comica, irriverente e ribelle perché c’era effettivamente qualcosa a cui ribellarsi. Come quando, per puro divertimento, ha trasformato un’intervista con Pippo Baudo in un siparietto, uno scontro tra titani dell’intrattenimento da cui entrambi sono usciti vincitori. Tognazzi, in un misto di nonchalance e menefreghismo, depista qualsiasi domanda di Baudo, chiedendo ad esempio di parlare della legalizzazione della marijuana, di Toni Negri e della censura che aveva subito il suo ultimo film, mentre il presentatore schiva i colpi sudando freddo ma mantenendo quell’aplomb da formazione militare della televisione di Stato vecchia scuola. È su questa irriverenza dissacrante, quella della supercazzola monicelliana di Amici miei, che Tognazzi affonda le radici del suo fascino insolente. Tanto sicuro di sé e del suo “diritto alla cazzata” – come lo definirà lui stesso – che decide di mettere in scena il suo arresto, simulando di essere stato scoperto in quanto mente dietro le Brigate Rosse. Negli anni di piombo Tognazzi diventa protagonista di uno degli scherzi più dissacranti che si potessero concepire: mentre tanti lo accusano di mancare di rispetto alle vittime delle stragi rivendicate dalle Br, molti altri ci cascano, perché in fondo è un tipo talmente imprevedibile che nulla poteva escludersi. Più inaspettato, invece, che questo personaggio eccentrico ed egocentrico – “ugocentrico”, come lo definisce qualcuno – sia passato anche attraverso una parentesi fascista, quando da ragazzo diventa Brigata Nera, insospettabile camerata che in tarda età si converte invece al Partito Radicale di Pannella. Ma del camerata Tognazzi resta ben poco, giusto il ricordo giovanile di un periodo storico spesso incomprensibile se guardato dall’alto della modernità postbellica, o se interpretato con i parametri etici del presente. Camicia nera o no, errori di gioventù e scherzi del destino, una cosa è certa: il diritto alla cazzata è stato esteso da Tognazzi a qualsiasi esperienza della sua vita, costellata da molteplici supercazzole e conclusa con il peso schiacciante della depressione.
Del suo carattere istrionico, da uomo comune ma al contempo straordinario, rimangono principalmente due cose: il cibo e le donne. Due passioni corporali che diventano il simbolo della sua fame di vita, di esperienza, di materia, ma che probabilmente, una volta spenta, sarà la causa della profonda tristezza che lo attanaglia prima di morire a soli sessantotto anni. Con le donne Tognazzi ha sempre avuto quel tipico atteggiamento novecentesco da guascone irrefrenabile che cozzava con la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta – un tratto, quello del latin lover, che peraltro caratterizzava praticamente tutti i personaggi di quegli anni, tra attori e registi. Eppure, nella sua esuberanza sensuale – la famosa “voglia matta” – si riscontra anche una certa sensibilità moderna, quando afferma di credere profondamente nell’amicizia tra uomo e donna, in una certa parità emotiva che non ti aspetteresti dal conte Mascetti.
Con la cucina, invece, Tognazzi replica quanto fatto per anni in teatro, riempiendo le sue case di Velletri e Torvaianica di amici e colleghi, che diventano il suo pubblico culinario, per sottoporli a pessime – ma molto audaci e sperimentali – cene da lui preparate. Obbliga tutti a mettere il proprio giudizio scritto su un foglietto in una ampolla, e poi li legge uno a uno, nonostante recitino tutti più o meno la stessa dicitura: “cagata”, “grandissima cagata”. Questo rapporto viscerale con il cibo è al centro anche di uno dei suoi film più belli, diretto da Marco Ferreri, con cui lavora diverse volte – con il suo Una storia moderna – l’ape regina, pluricensurato, Tognazzi vince ad esempio il Nastro d’Argento. La grande abbuffata, del 1973, gli offre forse uno dei ruoli più adatti, quello di uno di quattro amici – gli altri sono Marcello Mastroianni, Michel Piccoli e Philippe Noiret – che, sopraffatti da un nichilismo insopportabile, decidono di suicidarsi ingurgitando cibo fino a scoppiare, chiusi in una villa in compagnia di alcune prostitute. Ugo, nei panni di un Trimalcione moderno, ingozza i suoi commensali con piatti improbabili e barocchi, come una cupola del Brunelleschi fatta di patè, e muore trangugiandone cucchiai mentre si fa masturbare da una delle donne presenti. Una scena nauseante, esagerata, ma incredibilmente incisiva e coerente sia con il personaggio che con l’attore, tanto che infatti hanno lo stesso nome.
Se ci dovessimo mettere a fare la lista dei film di Ugo Tognazzi che vale la pena guardare e conservare, probabilmente ci vorrebbero anni per decidere quali scartare – per fortuna esistono le retrospettive del MoMa che ci levano da questo impiccio. Così come è difficile scegliere quale accoppiata sia la più vincente tra Tognazzi-Gassman e Tognazzi-Vitti, entrambe riproposte in più occasioni e in svariate declinazioni. Il magnifico cornuto di Antonio Pietrangeli, La proprietà non è più un furto di Elio Petri, La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci, In nome del popolo italiano e I mostri di Dino Risi, Vogliamo i colonnelli o Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno di Mario Monicelli: i film da guardare sono quasi troppi. Perché è vero che quegli anni di cinema sono stati gloriosi, ma sono stati anche molto restrittivi in termini di varietà per i suoi protagonisti: una volta creato l’Olimpo della commedia all’italiana, al pubblico interessava rivedere sempre gli stessi volti rassicuranti dei mattatori e quelli venivano dati loro, da un lato perché funzionavano e perché erano oggettivamente bravi, dall’altro per una certa codardia o pigrizia del settore nell’investimento verso il nuovo, secondo il motto per cui “squadra che vince non si cambia”.
Passati oltre cinquant’anni, siamo in grado di riconoscere di quel periodo sia i lati negativi che quelli positivi e di preservare le cose migliori. Di certo Ugo Tognazzi è una di quelle figure che hanno contribuito alla mitopoiesi di un momento storico in cui il nostro cinema aveva davvero un ruolo di primo piano nel mondo, nel bene e nel male. Di quest’uomo che ha rappresentato una nazione bisogna preservare il ricordo più bello, quello di un artista politicamente scorretto, e del suo rivendicato “diritto alla cazzata”.