The OA non è solo una serie, ma cambia letteralmente la tua percezione della vita reale - THE VISION

Quando il 16 dicembre del 2016 uscì su Netflix The OA, la critica restò interdetta, molte persone, invece, pensarono che era esattamente ciò che aspettavano, il messaggio da consumare di cui sentivano di avere un profondo bisogno: avere fede, nell’invisibile ovviamente, o per usare un termine meno abusato dal New Age, nell’invisto. Non a caso la prima stagione si apre con il ritorno a casa, dopo sette anni di segregazione, di Prairie Johnson, una ragazza cieca che ha misteriosamente riacquistato la vista dopo aver attraversato la morte, il terrore e il proprio passato e aver fatto esperienza di un amore terreno e mistico a un tempo.

Nell’epoca della sovraesposizione è come se una certa eredità culturale inscritta nei nostri geni ci spingesse a un ritorno all’oscuro, al desiderio di percorrere un’altra via. D’altronde, da un punto di vista preoccupante non è un caso se ultimamente sono rifioriti i complottismi, come se dalla spinta razionale e razionalista impressa dall’Illuminismo stessimo ora ridiscendendo una parabola verso “il sonno della ragione”. Eppure, come insegna la filosofia stessa e molti miti da cui sono originate le grandi civiltà umane, questa ciclicità è necessaria, così come l’equilibrio degli opposti – equilibrio che proprio l’Illuminismo, pur con gli enormi benefici che ha portato all’essere umano, ha finito con l’eliminare.

La fede, così come la poesia, l’arte e tutto ciò che si collega alla creatività e all’inconscio con il fascino e la magia che porta con sé – proprio per questa capacità di visione e di aprire porte – si trova proprio su quel bivio. Sta a noi riuscire a maneggiare questo desiderio, o verso la distruzione o la rinascita. Prairie, in questo scenario appare quindi come una messaggera, una profeta che non si nasconde dietro a immagini rassicuranti o a ideologie accettabili, chiede invece a gran voce di essere creduta. Gli unici che la ascoltano sono esseri umani apparentemente fragili, problematici, crepati, che invece dimostrano di avere dentro di sé una forza disarmante, e nonostante i loro traumi e le loro mancanze dimostrano di avere il coraggio di percorrere fino in fondo una strada sconosciuta, credendo, amando ed essendo disposti a sacrificarsi per il bene degli altri.

Prairie si definisce l’OA, l’angelo originario, in italiano PA, il primo angelo. Il primo angelo di Dio, come tutti sappiamo, è Lucifero. Ma questa figura, ben prima di essere inserita nella grande narrazione monoteista, portava con sé significati ben diversi. Lucifero significa letteralmente “portatore di luce” e in ambito pagano e astrologico romano era il dio che impersonificava l’apparizione del pianeta Venere, la cosiddetta “stella del mattino”. Se non sono rimaste tracce legate al culto di Lucifero, ci sono invece arrivate le prove di culti dedicati a divinità femminili definite “Lucifere”, come Diana e Giunone. La “stella del mattino” per i babilonesi coincideva con Ishtar, per i sumeri con Inanna e per i fenici con Astarte. Questa dea, che appariva con nomi diversi nelle diverse culture ma con caratteristiche estremamente simili, era la più importante divinità femminile della mesopotamia, la “Splendente”, la Signora Cielo o della Luce, dea della bellezza (che all’epoca significava qualcosa di ben diverso da oggi), della creazione e dell’amore, inteso come relazione erotica, ma anche della distruzione, della guerra, della tempesta, univa qualità del femminile che poi sono state attentamente separate e messe in opposizione. Questa dea, prima di influenzare la simbologia cristiana e islamica, divenne anche la protettrice delle prostitute, era la dea dei sogni e dei presagi e distribuiva agli uomini potere e conoscenza. Non a caso, nell’ambito dell’occultismo e dell’esoterismo, Lucifero rappresentava il detentore di una sapienza inaccessibile all’uomo comune.

Brit Marling, protagonista, autrice e produttrice insieme a Zal Batmanglijci, con la sua storia ci invita a non smettere per nessun motivo di credere a ciò che sentiamo come una certezza che scavalca ogni prova e ci sprona a usare quella forza sovversiva per imprimere una nuova direzione alla nostra esistenza, per andare oltre le evidenze, le sicurezze, le certezze, che alla fin fine sono i nostri pregiudizi e la nostra identità. La serie mette in luce una sottotraccia comune, collettiva, e al tempo stesso “altra”, tangibile solo con un senso più sottile degli altri, eppure così evidente, una volta che si è accettato di vederla e che si sono affinati i propri sensi. Una fede appunto, una fede laica di cui tutto e tutti, ragionevolmente, oggi ci invitano a dubitare. Questo sostrato mistico, che potrebbe sembrare divino è in realtà il brodo primordiale della nostra memoria collettiva, delle nostre esperienze psichiche trascendentali, i sogni, i deja-vu, quel senso di riconoscimento che ogni tanto proviamo di fronte a un volto e non capiamo da dove origini, eppure è innegabile, più forte di tutto il resto, ed è questo il tema che viene ulteriormente sviluppato nella seconda stagione.

 

C’è un sentimento che muove il mondo ed è l’amore: c’è chi vuole diventarne corpo e spirito, abbandonandovisi, credendogli fino in fondo, c’è chi lo vuole capire studiandolo, da fuori, Hunter Aloysius Percy – Hap – lo scienziato-cacciatore. In entrambi i casi resta un’evidenza e al tempo stesso un mistero insondabile, che in fondo è la definizione stessa del sacro. Ed è proprio questo che ossessiona Hap. L’amore, come ogni cosa sacra, infatti, è incomprensibile, è un mistero, e si attua proprio nell’abbandono.

È inevitabile non pensare all’Angelus novus che Paul Klee dipinse nel 1920, che fu poi acquistato da Walter Benjamin diventando la nona tesi della sua grande opera Sul concetto di Storia. Il teologo israeliano Gershom Scholem, scrisse dell’opera di Klee: “La mia ala è pronta a spiccare il volo. Torno volentieri indietro. Infatti, anche se rimanessi altro tempo vivo, avrei poca fortuna”. Benjamin parte da qui per la sua critica allo storicismo, a cui importa soltanto del progresso, inteso a prescindere come avanzamento positivo che porterà a un’evoluzione e a un miglioramento della condizione umana. Questo concetto di Storia, però, non fa nessuna attenzione a ciò che è stato, ci impedisce di fermarci e cambiare realmente le cose, perché ci  spinge costantemente in avanti, ciechi, distoglie il nostro sguardo dal passato. Benjamin contrappone a tutto questo il materialismo storico incarnato dall’Angelo della Storia: il progresso, e dunque anche il futuro, non sono visti in questo caso come elementi positivi, il progresso è una bufera che spazza via l’angelo, impedendogli di fermarsi e modificare le cose. Per salvarci dalla catastrofe è necessaria la stasi, un punto da cui osservare il passato, l’ammasso di vittime che il tempo ha prodotto. In Walter Benjamin, l’unica redenzione possibile è quella offerta dalla memoria: solo difendendo dall’oblio il ricordo delle vittime, e perciò testimoniando della loro perdite, dell’insensatezza della loro sconfitta e delle loro sofferenze, si può interrompere il giogo del “tempo mitico” dei vincitori, ovvero la visione della Storia “ufficiale”. Da qui, il fulcro essenziale delle sue riflessioni è l’inversione del tradizionale rapporto tra passato, presente e futuro. Allo stesso modo si intersecano i piani temporali e le dimensioni di The OA. Il presente genera dal suo interno il proprio passato e il passato non può sussistere indipendentemente da un presente che lo testimonia, tutto è uno, come suggeriscono da sempre le religioni, ma nell’uno bene e male si fondono e la nostra psiche per concepire questa dimensione sovrannaturale – o per meglio dire “sovrumana” (alla maniera di Nietzsche), “iperumana” – deve per forza “esplodere”, così come succedeva nelle storie di bramini illuminati narrate nelle opere vediche. 

D’altronde è un fatto che nelle intenzioni di Marling c’era proprio di inserire nella storia questo simbolismo legato alla pratica dei mandala. Nell’infinito, una  volta che i confini della percezione sono stati aperti, le direzioni e le gerarchie non hanno più significato ontologico, così come l’Io e quindi il nostro stesso modo di percepire le cose. Nemmeno la vita e la morte esistono più e le nostre coordinate appaiono come illusioni. The OA allora ci indica la strada, ci dice “Io ti credo”, mentre stiamo dicendo l’impossibile, fa sì che ci si riconosca tra antichi visionari, ci dice che la ferita può essere una porta verso qualcos’altro, un verità che sta oltre, ci invita a credere ai sogni, perché sono linguaggio, significati, a non dubitare nemmeno quando tutto intorno a noi volontariamente o meno ci spinge a farlo, quando la razionalità, che è l’io, ci separa dall’essenza delle cose, che è verità, che è amore, superamento del confine attraverso la totale disposizione al sentire, all’ascolto, al contatto. Noi cerchiamo di uscire dal labirinto, ma sbagliamo prospettiva, il labirinto è la forma stessa del creato, dove tutto ciò che è coesiste.

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