Oggi che diventare adulti assume contorni molto incerti e sfocati, mi capita spesso di chiedermi con quali tappe personali abbia sostituito i canonici riti sociali per ritrovarmi, da un giorno all’altro, a non pensarmi più come un “ragazzino”. Non ho intenzione di sposarmi, né di diventare padre o collezionare vini da far invecchiare in cantina. Lo scarto, per me, si è condensato tutto in due gesti particolari: archiviare fogli su fogli nel tentativo di creare una cartella sanitaria fisica, in un periodo in cui è facilmente accessibile online, solo per posa, senza sapere cosa serva davvero tenere, cosa no, che farci dopo; imparare a cucinare, non tanto per sopravvivenza, ma come atto di cura verso sé e gli altri, secondo quell’educazione materna per cui, come Elsa Morante andava ripetendo, l’unica vera frase d’amore è “Hai mangiato?”. Un atto trasformativo.
Non a caso, l’introduzione della cottura dei cibi avrebbe avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione umana. Come sostiene Richard Wrangham, docente di Antropologia biologica a Harvard, la preparazione del cibo ha infatti un ruolo centrale per l’identità, la biologia e la cultura umane. Oltre a offrire nuovi modi per nutrirsi, la cottura ha fornito probabilmente anche l’abitudine di mangiare insieme in un luogo e a un momento stabiliti, perché al contrario degli alimenti crudi da poter assumere anche in cammino, il fuoco necessitava di una pausa. Cucinare, insomma, definisce chi siamo, ed è forse anche per questo che mai come oggi, in un momento di disorientamento comune, passiamo così tanto tempo a pensare e parlare di cibo, e a guardare altra gente prepararlo in televisione e sui social. È normale che tocchi corde profonde: non solo quelle sensoriali, nella declinazione più diffusa del food porn, ma anche emozionali, per elevare il mangiare a una forma di pensiero, un modo di portare il mondo dentro al cibo e raccontare di noi, proprio come accade con la seconda stagione di The Bear, disponibile su Disney+.
Dopo aver cercato di rivoluzionare e risollevare le sorti della paninoteca di famiglia, lasciata piena di debiti dal fratello Michael, morto suicida, lo chef Carmen “Carmy” Berzatto e tutta la brigata del The Original Beef of Chicagoland si trovano a trasformare il loro malmesso locale in un ristorante di livello superiore, The Bear appunto. La prima stagione, uscita l’anno scorso, aveva ottenuto il plauso unanime di pubblico e critica soprattutto per il modo in cui la storia veniva raccontata: la regia e il montaggio si soffermavano spesso sui movimenti rapidi e carichi di tensione dei protagonisti mentre mescolano intingoli o affettano cipolle in uno spazio ristretto come può essere quello di una cucina, correndo contro il tempo e cercando di resistere al proprio umore. I “Sì, chef”, sempre “Sì, chef”, come Carmy ha stabilito che devono essere tutti chiamati per una questione di rispetto, serravano il tempo della narrazione. Come notava il New York Times, la parola più associata alla serie tv alla sua uscita era “stressante”.
La seconda stagione, invece, cambia forma, procedendo a due velocità: da un lato mantiene il ritmo completamente folle in cui i personaggi si urlano addosso, si sovrappongono e il dialogo è quasi incomprensibile; dall’altro propone una misura più quieta e meditativa, poco abituale per The Bear, che però permette di ampliare la narrazione, andando oltre i confini claustrofobici della cucina e consentendo alla storia di avere tempo e spazio maggiori per svilupparsi. “Puoi passare qui tutto il tempo del mondo”, dice uno chef di alta cucina a Marcus, mentre si trova in Danimarca, a Copenhagen, per scoprire ricette per il nuovo menu. “Ma se non passi abbastanza tempo là fuori…”. Serve espandere gli orizzonti per poter far meglio, ed è quello che si ripromette anche la serie, sostenuta ancora da una scrittura brillante e agile, in grado di muoversi senza soluzione di continuità dai momenti più luminosi a quelli più bui, senza mai risultare artefatta.
Nell’atto di trasformare il ristorante e se stessi, la squadra si trova a confrontarsi sempre più con chi si è stati e con lo scarto che serve per diventare chi si vuol essere in futuro. Sia che si tratti del tentativo di Carmy di cercare di costruire altro al di fuori della sua carriera o di Tina, che cerca di acquisire ulteriore fiducia in se stessa e nelle sue capacità. Guardare al passato per capire dove andare, sebbene stressante, è necessario. Spesso, però, serve guardare molto indietro, come accade nel sesto episodio, “Pesci”: una cena di Natale ambientata anni prima, in cui conosciamo il resto della famiglia Berzatto; l’origine di parte del disagio psicologico di Carmy; sua madre Donna, impersonata magnificamente da Jamie Lee Curtis; e l’importanza di preparare sette diverse ricette di pesce per l’occasione.
Carmy, però, non è più il solo protagonista della serie, perché appunto la narrazione si amplia, indagando in ogni puntata l’arco narrativo dei singoli personaggi: Marcus, Tina, Natalie. Se Sidney si trova a dover convincere il padre di star facendo la scelta migliore perché lui non riesce a capire che anche se “[cucinare] non paga molto, non ha senso e spesso non vale niente” è l’unico lavoro per lei degno di merito; Richie fa fatica a trovare il proprio posto in un mondo in cui tutti sembrano sapere perfettamente cosa fare, o almeno cosa ci si aspetta da loro. Bastano cinque parole a sancire la sua trasformazione: “Da oggi indosso l’abito”.
A tenerne assieme le storie, in questa stagione, è la dimostrazione che il talento non è strettamente un’impresa individuale. Cresciamo con l’idea che per avere successo serva essere indipendenti e contare solo su sé stessi: il naturale bisogno di appartenenza reciproca viene negato, sminuito, ridotto, trasformato in una debolezza. Se pensi di aver bisogno degli altri, allora la tua vittoria vale meno. Per crescere come persone e ampliare il mondo, in uno scambio reciproco, serve invece proprio far parte di una comunità, e contribuire ad alimentarla. Se con la prima stagione The Bear lasciava confluire nei discorsi sul cibo anche l’elaborazione del trauma, il venire a patti con la perdita e il compito ancora più lento e doloroso di espiare una colpa, nella seconda sembra aprirsi alla speranza e incentrarsi su un tema portante della società di oggi: la capacità, di tutti e tutte, di imparare a mettere la cura al centro del proprio agire, di essere persone migliori, per noi e per gli altri.
The Bear resta poi soprattutto una serie sul lavoro, su quanto siamo disposti a sacrificare della nostra vita per occupare la maggior parte del tempo in un impiego che il più delle volte finisce per sovrapporsi alla nostra identità. Mentre i più temerari arrivano a chiedersi se, una volta abolito il lavoro umano, saremo culturalmente capaci di ricevere soldi senza essere produttivi – e la risposta, al momento, potrebbe essere no –, in molti ci troviamo, alla stregua di Carmy, a dover imparare a scendere a patti con i fallimenti professionali, senza che questi mettano a rischio tutto il resto – o direttamente noi stessi.
Come ricostruisce il famoso giornalista Michael Pollan in Cotto, nell’antica Grecia la parola che indicava il “cuoco”, il “macellaio” e il “sacerdote” era la stessa: mageiros (μᾰ́γειρος). Un termine che ha uguale radice etimologica di “magia”, e che per questo produce una corrispondenza evocativa dell’essenza stessa della cucina, dove ogni ingrediente diventa molto più della somma delle sue parti, così come avviene per le storie che sanno restare.
Se ogni piatto, come ogni episodio, ha la capacità di raccontare un inizio, uno svolgimento e una fine, quelli di The Bear sarebbero sicuramente parte di un “menù caotico, ma pensato” – come quello ideato da Sidney e Carmen. Perché in un momento storico in cui la creatività sembra spesso condensarsi nel riciclo, nel rifacimento, nella stasi, è confortante sapere che possono ancora esistere prodotti originali e dirompenti, in grado di farci solo voler gridare: “Sì, Chef!”.