Durante la pandemia, nei mesi in cui c’era ancora l’obbligo di utilizzare la mascherina, mi sono trovata un’infinità di volte nella bizzarra situazione in cui sorridendo a chi incontravo per strada senza ricordare di avere naso e bocca schermati d’azzurro, mi rendevo conto solo dopo essere passata oltre che, probabilmente, il mio saluto silenzioso non aveva raggiunto la persona dall’altra parte della strada, perché questa non aveva avuto modo di leggere con chiarezza l’espressione sul mio viso. Altrettanto spesso mi è capitato, sempre a causa della barriera creata dalla mascherina, di non riuscire a sentire bene ciò che il mio interlocutore mi stava dicendo, nonostante l’intensità del suo tono di voce fosse del tutto normale, soltanto perché non potevo leggergli le labbra. Uno degli aspetti più affascinanti del nostro modo di esprimerci, infatti, è la sua natura composita, la sua estensione all’intero corpo, che oltrepassa le pratiche del linguaggio verbale per coinvolgere componenti espressive diverse, prive di parola, – come la mimica facciale, l’intensità dello sguardo, la gestualità – creando delle composizioni di elementi in equilibrio, la cui stabilità andrà a decidere il grado di efficacia con cui il nostro messaggio arriverà a destinazione.
La varietà delle nostre possibilità espressive corrisponde alla quantità indefinita di pensieri, sensazioni, sentimenti che sappiamo appartenerci e che vogliamo poter esternare, dunque ogni stato d’animo che comunichiamo agli altri – volontariamente o involontariamente – configura nel suo manifestarsi un equilibrio di parole, gesti ed espressioni a sé stante, che è in grado di modularsi – non senza qualche piccolo cortocircuito, come quelli causati dallo scudo della mascherina – sulla base di condizioni esterne, ma soprattutto di impulsi interiori mutevoli, trovando di volta in volta una nuova stabilità fra gli elementi, così da consentire che la comprensione avvenga. Sulle mie labbra, film del 2001 diretto dal regista francese Jacques Audiard, racconta con estrema precisione la creazione di questi equilibri, rappresentando i meccanismi di comunicazione e i tentativi di capire l’Altro, come un gioco a incastri ricco di variabili, in cui sono le intime mancanze che ciascun personaggio sente di avere a diventare la chiave della stabilità, trasformandosi in un’enorme risorsa, quasi in un superpotere, nel momento in cui vengono mostrate, spiegate, condivise con qualcuno che è capace di accoglierle.
La protagonista del film è Carla, una donna sorda interpretata dall’attrice francese Emmanuelle Devos – vincitrice del Premio César nel 2002 per la sua performance –, che è riuscita a recuperare gran parte dell’udito compromesso indossando un apparecchio acustico, un oggetto protagonista di diverse inquadrature di Audiard, che lo riprende come fosse un gioiello. La disabilità di Carla la costringe ad affrontare lo scherno dei colleghi di lavoro, che tendono ad affidarle dei compiti di minima importanza relegandola in una posizione subalterna, senza riconoscerle delle capacità professionali che invece possiede. È proprio per ovviare ad alcuni problemi di comunicazione legati alla sua sordità, che Carla ha imparato a leggere le labbra: un espediente che utilizza non soltanto per comprendere con maggiore chiarezza le conversazioni in cui è coinvolta, ma anche per insinuarsi in discorsi che avvengono lontano da lei, decodificando i movimenti della bocca di chi sta parlando senza alcun bisogno di sentire il suono delle sue parole, in modo tale da tenere sotto controllo tutto ciò che le sta accadendo attorno.
Ancor prima delle battute che pronuncia nei dialoghi, sono gli sguardi schivi, le espressioni sempre vagamente preoccupate, pronte a captare il pericolo, le movenze rigide, ovvero tutte le manifestazioni della comunicazione non verbale, a comunicare l’insicurezza di Carla, rendendola una figura fuori posto, che sembra essere stata abbandonata casualmente fra le altre componenti della messa in scena. È l’arrivo di Paul, un ex galeotto interpretato da Vincent Cassel – che riesce a trasferire anche in questo personaggio, nonostante la distanza delle due trame, una quota del temperamento rude e fieramente aggressivo che ha reso Vinz, nel film L’odio di Mathieu Kassovitz, un’icona intramontabile – ad aprire una frattura nell’esistenza monotona di Carla, quando il ragazzo inizia a lavorare nello stesso ufficio della donna, per completare il percorso di reinserimento legato alla pena che deve scontare. Al contrario di quello della protagonista femminile, il corpo di Paul coglie ogni occasione per imporre la sua presenza all’interno della scena, occupando saldamente tutto lo spazio al centro, come se orientasse con i suoi spostamenti la direttrice dello sguardo della macchina da presa.
Ciò che colpisce di Sulle mie labbra è il suo essere attraversato da anomalie che sfidano le congetture dello spettatore, lasciandolo orfano di certezze nel momento in cui si aspetterebbe che la trama andasse in una direzione prevedibile. Il rapporto che si instaura fra Carla e Paul, per esempio, non procede a partire da un colpo di fulmine, e annienta uno alla volta tutti i canoni del genere romantico: i personaggi di Audiard, infatti, procedono a osservarsi, studiarsi, ma anche a offendersi, a ferirsi l’un l’altra – a volte con piena intenzione – dilatando i tempi di un romanzo d’amore inespresso, che non riesce nemmeno a farsi sesso – se non alla fine del film, quando tutto è ormai accaduto. La relazione che lega i due personaggi, invece di muovere da premesse dal sapore fiabesco, si articola sul piano della reciproca utilità, ovvero l’unico fattore che riesce a mettere ordine fra le emozioni ambigue e confuse che Carla e Paul provano. Nel momento in cui si rendono conto di poter trasformare in una risorsa le loro mancanze, le caratteristiche per cui la società li ha sempre tenuti al margine etichettandoli come dei falliti – la sordità per lei, l’attrazione nei confronti dell’illecito per lui –, infatti, i due decidono di stringe un patto criminale che li porterà a tentare insieme un furto di denaro, sfruttando la capacità di Carla di leggere le labbra.
La componente noir che emerge a questo punto del film, è anomala tanto quanto quella romantica, perché il suo avanzamento non è legato alle azioni dei protagonisti e non è garantito da un’alternanza cadenzata tra suspense e colpi di scena. L’unico aspetto riconducibile al genere thriller, infatti, è rappresentato dalla città che fa da sfondo agli eventi, perché la Parigi di Audiard restituisce un’immagine molto diversa rispetto alla cartolina dai colori pastello che Il favoloso mondo di Amélie ha stampato nel nostro immaginario. Le ambientazioni buie e sordide, simbolo di un universo avido e corrotto di cui anche i due protagonisti entrano a far parte a pieno titolo, infatti, presentano allo spettatore la perfetta scena del crimine. Anche quando esso si consuma effettivamente, però, l’occhio del regista tende a concentrarsi più sull’incastro relazionale che Paul e Carla stanno cercando di fare funzionare, sulla rispettiva evoluzione dei due personaggi che si impegnano ad avvicinarsi, per capirsi meglio, lasciando che le azioni criminali prendano forma concretizzando il piano del delitto, ma senza prestarvi troppa attenzione.
Tutti gli elementi della trama, infatti, sottostanno alla grande operazione di analisi delle variabili della comprensione reciproca, che Audiard continua a moltiplicare, anche nelle occasioni apparentemente più banali, come la scena in cui Carla si toglie l’apparecchio acustico in un locale, mettendo a tacere la musica – un elemento fondamentale del film, che abbraccia la comunicazione non verbale dei personaggi ed è valso a Sulle mie labbra un altro Premio César –, costringendo lo spettatore a osservare la scena in silenzio, a rincorrere gli sguardi carichi di raccomandazioni e promesse mute che lei e Paul si scambiano prima del colpo.
Attraverso un rapporto che oscilla costantemente fra la strumentalizzazione dell’Altro, che rischia di essere mortificato, ridotto a solo mezzo tutte le volte in cui i protagonisti si approfittano vicendevolmente delle loro abilità; e il sentimento di profonda gratitudine che questi provano per aver trovato qualcuno che è stato capace di validare, di riscattare un tratto della loro identità che la società aveva sempre condannato, Audiard ritrae la molteplicità dei nostri tentativi di comunicazione e comprensione reciproca, soprattutto quelle che mettiamo in atto quando trasciniamo sul pelo delle labbra qualcosa che non riusciamo a dire a parole. Sulle mie labbra, infatti, mira a esplorare il più accuratamente possibile il rapporto che lega Carla e Paul, con una scomposizione e ricomposizione che testa la stabilità degli equilibri configurati dalle loro interazioni, per osservarle nei più piccoli particolari. Seguendo un approccio ai sentimenti universali molto simile a quello che il critico e sociologo francese Roland Barthes suggerisce nel suo libro del 1977 Frammenti di un discorso amoroso, Audiard mette in scena una fenomenologia dell’umana comprensione, cercando con precisione scientifica, nei dettagli più sottili, la spinta che ci permette di avvicinarci all’Altro e di scoprire quanto i legami che stringiamo, spesso, ci offrano l’occasione di vedere un punto di forza anche nelle parti di noi che abbiamo sempre percepito come delle inguaribili mancanze.