Abbiamo smarrito la nostra innocenza.
È successo senza che ce ne accorgessimo, senza che nessuno gridasse aiuto; forse crescendo, forse dimenticandoci la strada già percorsa. Non è stato come perdere un oggetto, un portafoglio o una borsetta. No, è stato più come perdere un liquido da un contenitore crepato, poco alla volta, goccia dopo goccia, il contenuto è stato versato.
Non parlo di noi “persone”, ovviamente. Cosa ne posso sapere io della vostra innocenza? Parlo dei nostri piccoli alter ego che vivono dentro agli schermi dei televisori, dei pc, degli smartphone, dei personaggi di finzione, delle serie e dei film. Tutto è diventato troppo complesso e inutilmente intimo.
Pochi giorni fa dovevo vedere tutta la seconda stagione di Stranger Things in un giorno (ogni tanto il mio lavoro mi costringe a questi tremendi compiti), ma ero a casa in malattia e non potevo iniziare a guardarla dal mattino perché avevo promesso alla mia ragazza che l’avrei aspettata. Così, con il mocciolo che mi colava dal naso, ho cercato un palliativo, qualcosa con cui riempire le ore della sua assenza. Ho letto un po’ di articoli che parlavano bene di One Mississippi, una serie originale Amazon Prime prodotta da Diablo Cody (quella che si è inventata Juno) e da Tig Notaro (una stand up comedian americana). One Mississippi è la storia di una speaker radiofonica di nome Tig (sì, lo stesso nome dell’autrice) che, dopo aver subito una mastectomia per rimuovere un tumore, torna al suo piccolo paese nel Mississippi, perché sua mamma sta morendo. La madre ci lascia nel primo episodio. Muore semplicemente perché ha sbattuto la testa. Tig rimane in paese con il fratello sovrappeso e sfigato a cui piacciono le ricostruzioni storiche e con il suo patrigno ossessivo compulsivo che deve mettere tutto in ordine. Tig è lesbica, è stata molestata da bambina, ha problemi intestinali, si ritrova spesso in situazioni imbarazzanti e scopre di avere un altro fratello sulla sedia a rotelle. E sembra sia colpa sua se si è perso il gatto a cui teneva tanto il suo patrigno.
Ho visto sei puntate, e per tutte e sei le puntate mi sono chiesto: ma perché?
Perché devo assistere alle sfighe di questa signora inconcludente e un po’ antipatica? Perché devo vedere le cicatrici sul suo petto appena operato? Perché ascoltare i suoi mediocri spettacoli radiofonici? O il suo continuo lamentarsi che la vita non è come se l’era immaginata? Ma non mi dire. La mia ragazza, un paio di ore dopo, è tornata e mi ha trovato con questo grosso punto interrogativo in testa. Potevamo, finalmente, iniziare Stranger Things 2.
La prima stagione di Stranger Things è stata il fenomeno televisivo dell’anno scorso. A un certo punto quei quattro ragazzini erano dappertutto. Mi stupisco che Maria de Filippi non sia riuscita a portarli ad Amici. Uscita in sordina senza tanto clamore, tutti l’abbiamo vista senza sapere bene a cosa stessimo assistendo. Mi ricordo i primi messaggi: “Ma tu l’hai vista”? E tutti a dirci quanto fosse ben fatta e divertente. Non ho ancora quarant’anni, ma ne ho abbastanza per poter condividere e godere dell’immaginario anni Ottanta creato dai Duffer Bros. Travolti da uno splendido tripudio citazionista, siamo stati tutti ben felici di partecipare all’avventura di Mike, Will, Lucas e Dustin, quattro amici teenager della provincia americana che, dopo la scomparsa di un membro del gruppo, si ritrovano ad aver a che fare con Eleven, una ragazzina con poteri psicocinetici, e con un mostro di un’altra dimensione che sembra uscito direttamente da Dungeons&Dragons. Dentro alla prima stagione di Stranger Things c’era tutto: John Carpenter, Spielberg, i Goonies, Navigator, Explorers, Stand by Me. E tutto funzionava alla perfezione. Ricordo di aver guardato tutte le puntate ininterrottamente, e alla fine mi sentivo come se avessi visto un bellissimo film di dieci ore. E già allora intuivo che c’era qualcosa in più, oltre al citazionismo e alla qualità, che mi faceva battere il cuore.
Di questa seconda stagione si è detto tanto, l’aspettativa è alta e siamo stati tutti ben contenti di pagare un euro in più al mese a Netflix per l’ennesimo binge watching.
Senza esagerare troppo con la trama e con gli spoiler diciamo: sì, è bella Stranger Things 2. Ma non bella come la prima stagione. Nelle nove ore della seconda c’è una puntata che andrebbe buttata e dimenticata, semplicemente perché non serve a nulla se non a settare la prossima stagione. In realtà anche altre due puntate sembrano un po’ diluite e ci sono almeno due linee narrative (quella dei fratelli californiani e quella creata esclusivamente per soddisfare l’hashtag #JusticeForBarb) che risultano inutili ai fini della storia e pure un po’ pallose. Ma, a parte questo: bello. Le quattro ore scritte e dirette dai fratelli Duffer (ovvero le prime due e le ultime due puntate) sono davvero divertenti (nel senso di entertaining) e girate con maestria. Ci si stringe sul divano e ci si tiene per mano, perché ci si può spaventare. Si volta la testa un po’ di lato vergognandosi perché può scappare la lacrima e si fanno tanti “Oooh” di tenerezza di fronte ai piccoli gesti impacciati di un Dustin innamorato.
È stato solo quando è finita la stagione, mentre stavo cucinando, che ho collegato i puntini, gli indizi, e ho messo insieme One Mississipi e Stranger Things. È stato mentre preparavo il soffritto che ho realizzato cosa mi ha stancato di molta serialità contemporanea e cosa, di conseguenza, funziona in Stranger Things. L’innocenza.
Siamo ormai invasi da serie in cui assistiamo inermi a qualsiasi tipo di nevrosi, malattia, dubbio esistenziale. I nostri eroi hanno smesso di essere eroi da un pezzo. I maschi alfa sono caricature ormai estinte che hanno lasciato il posto a panzoni insicuri che si masturbano compulsivamente e se ne vantano tra una risata e l’altra. E la risata che si fanno è sempre, e soprattutto, auto-denigratoria. I personaggi femminili non hanno preso potere, hanno solo virato le loro compulsioni dallo shopping al piano esistenziale: al posto di spendere i soldi in scarpe, li spendono da uno psicologo che dia un senso al loro ruolo all’interno della famiglia, al loro ruolo di madri e, spesso nonostante l’età, di figlie. Anche i supereroi che invadono gli schermi cinematografici sono costretti ad avere una backstory che giustifichi in qualche modo la possibilità di avere dei dubbi esistenziali quando, per definizione, un eroe di dubbi non dovrebbe averne. Tutte queste serie low key (e potrei veramente fare un elenco infinito: dalla citata One Mississipi, a Love, Love Sick, Fleabag, Crashing – nella versione inglese e americana – fino a Easy, per arrivare ovviamente a Girls e a tutti i suoi derivati) ci costringono da anni a osservare le nostre nevrosi riflesse e nascoste dietro la luce della televisione.
Ma una volta non era così.
Una volta lo schermo era dove si scappava dalla nevrosi, dove si andava per vivere una vita che non era mai la nostra, una vita lontana dal nostro quotidiano. Straordinaria. E, in questo, i film fantastici degli anni ottanta erano davvero imbattibili.
Ed è qui che arriva Stranger Things. Perchè il citazionismo più riuscito ai fratelli Duffer non è quello della musica, né quello dei costumi o di tutte le strizzate d’occhio ai film che hanno costruito il nostro immaginario di adolescenti. No. Il vero successo è quello di averci portato prima per dieci e poi per nove ore in una semplice avventura in cui i cattivi sono dei mostri e i buoni sono dei bambini; in cui i bambini devono sconfiggere le loro paure e lo fanno trovando coraggio o scoprendo i valori dell’amicizia; in cui i genitori si comportano da genitori, nel bene o nel male; in cui l’amore è qualcosa che ti tiene sveglio la notte e ti fa mandare messaggi a vuoto con un walkie-talkie. Il vero successo di Stranger Things è la semplicità di un’avventura che non vuole essere in nessun modo una metafora di qualcos’altro, che in nessun modo vuole assumersi il compito di spiegarci qualcosa delle nostre vite incasinate. Per nove ore siamo semplicemente spettatori. E mi piacerebbe che, con tutto il tempo che passiamo davanti allo schermo, questo straordinario risultato accadesse più spesso.